Myanmar/Birmania: il grido della libertà e le sue radici religiose, di Aung San Suu Kyi
I monaci buddisti sfilano in silenzio chiedendo la libertà di espressione e di riunione, protestando contro lo stato totalitario. Un popolo intero partecipa e li accompagna.
Presentiamo sul nostro sito un testo del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, che invita a riflettere sulle radici di questo grido, sul ruolo della spiritualità nella protesta pacifica del popolo del Myanmar. Il brano è stato tradotto da Stefano Vecchia e pubblicato da Avvenire del 30/9/2007. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line del testo.
Il Centro culturale Gli scritti (23/11/2007)
Non c’è nulla che possa paragonarsi al coraggio della gente comune il cui nome resta anonimo e il cui sacrificio passa spesso inosservato. Il coraggio che osa senza riconoscimento è un coraggio che rende umili e ispira a ribadire la nostra fede nell’umanità. Tale coraggio io ho potuto vederlo settimana dopo settimana negli incontri con i miei sostenitori infaticabili che arrivano di buon mattino il sabato e la domenica e prendono posto davanti alla mia casa. Si siedono appoggiati alla staccionata su fogli di giornali o teli di plastica, cercando protezione dal sole all’ombra di un albero. Al culmine del monsone, costruiscono tettoie di plastico sotto cui si siedono affrontando anche piogge torrenziali con un spirito indomito e determinazione.
Sono i rappresentanti delle migliaia che partecipano alle nostre manifestazioni perché credono nell’importanza dei basilari diritti della democrazia: quello di associazione, di riunione e di espressione. Io sono incaricata di rispondere ai messaggi scritti che mi vengono consegnati e di discutere delle battaglie politiche che si sono succedute nel passato in Birmania e anche in altre parti del mondo. Spesso parlo anche della necessità di abituarsi a contraddire ordini arbitrari e di restare saldi e uniti davanti alle avversità. Uno dei messaggi che più frequentemente mando a quanti mi ascoltano è ricordare che né io, né la Lega nazionale per la democrazia possiamo portare la democrazia alla Birmania. La gente tutta deve essere coinvolta nel processo. La democrazia richiede sia responsabilità, sia diritti.
La forza e la volontà di proseguire viene dai birmani che ci avvicinano. Nei periodi in cui il potere mostra il volto più minaccioso, la folla è cresciuta di numero, come dimostrazione di solidarietà. Anche quando le autorità hanno bloccato l’accesso alla mia casa per prevenire i raduni, la gente si è avvicinata più che ha potuto per farci sapere che era determinata a continuare la battaglia per il diritto di riunirsi liberamente. Le nostre vite prendono un ritmo differente da coloro che, svegliandosi al mattino, non devono preoccuparsi di chi sia stato arrestato durante la notte e quali atti di palese ingiustizia potrebbero essere commessi contro la nostra gente durante la giornata.
La dimensione spirituale diventa particolarmente importante in una lotta in cui convinzione profonda e impegno mentale sono le armi principali contro la repressione armata. Le autorità ci accusano di fare un uso politico della religione, forse perché è quanto esse stesse stanno facendo o, forse, perché non possono riconoscere la natura a più dimensioni dell’uomo come essere sociale. Il nostro diritto alla libertà religiosa è sempre più minacciato dalla volontà delle autorità di oscurare le attività dell’opposizione.
La Birmania è un paese buddista ed è normale per i giovani buddisti birmani passare un certo periodo di tempo come novizi nei monasteri; inoltre, molti birmani che hanno passato i vent’anni entrano ancora nell’ordine religioso per periodi di varia durata come monaci ordinati a tutti gli effetti.
Nel caos dalla repressione politica, intimidazione, interferenza nel nostro diritto di pratica religiosa, noi birmani crediamo che coloro che condividono atti meritori si incontreranno ancora, legati da meriti comuni. È bene pensare che il futuro lo costruiremo in compagnia di coloro che hanno dimostrato di essere i più veri tra gli amici. Molti di quanti partecipano ai nostri incontri si erano già trovati qui otto anni fa per impegnarsi nella causa della democrazia e dei diritti umani, restando uniti - e io con loro nonostante le dure avversità. Molti sono oggi anche i volti assenti: i volti di coloro che sono morti, di altri che sono in carcere. È triste pensare a loro, ma il nostro impegno non si fermerà.
Le recenti proteste in Birmania con il manifesto di Aung San Suu Kyi, diventata un simbolo per il Paese (la foto accompagnava l’articolo sul numero di Avvenire). |