Giuliano Ferrara e Gianfranco Ravasi presentano il libro Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI
Mettiamo a disposizione on-line le due relazioni del dott.Giuliano Ferrara e di mons.Gianfranco Ravasi pronunciate durante il Dialogo in Cattedrale del 13 novembre 2007, in occasione della presentazione del libro Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (2/1/2007)
Indice
Intervento del dott.Giuliano Ferrara
Ringrazio tutti ma sono particolarmente emozionato per la solenne spiritualità del luogo, la vostra presenza, il tema che affrontiamo che per fortuna non è astratto ma concretissimo, e il punto di partenza è un libro. Sapevo che, contrariamente a quanto mi succede in genere in quanto ho un carattere piuttosto sfacciato, avrei provato una forte emozione per cui ho pensato di scrivere un testo, cosa che generalmente non mi capita di fare, per leggerlo, per esprimere quello che penso da lettore del libro del Santo Padre su Gesù di Nazareth e per scambiare le mie idee con voi. Ho cercato di curare l’emozione con una forte dose di sincerità e anche di modestia scrivendo ciò che mi sembrava, non tanto conveniente o convenzionalmente necessario in una occasione come questa, ma quello che mi ha ispirato la lettura e la rilettura del libro.
Se il Papa ha scritto un libro su Gesù ci deve essere un motivo forte. La Chiesa è già un libro vivente su Gesù, dipende da Gesù come il corpo dalla testa. La Chiesa segue Gesù, testimonia per lui e, secondo la parola dell’annuncio, testimonia in lui attraverso la fede, le opere, la carità, i sacramenti e soprattutto la liturgia. Tutto nella Chiesa si fonda sulla parola di Gesù annunciata nei vangeli, che per la Chiesa sono i primi e definitivi libri in cui Gesù si trova e, in parte per me in particolare ma credo per tutti i lettori dei vangeli, per tutti gli ascoltatori dei vangeli, enigmaticamente si nasconde.
La Chiesa è la tipografia universale di Gesù, cura da sempre l'ortografia del racconto che lo riguarda, Gesù è la sua A e la sua Zeta. La Chiesa legge da due millenni anche i libri più antichi della fede ebraica, il vecchio testamento, alla luce di quelli più recenti. Nella parola di Cristo Gesù e dei suoi apostoli, nelle lettere e negli atti, la Chiesa ritrova e riconosce come suo anche il patrimonio comune degli ebrei, il gran libro di Mosè, la sua legge, e i salmisti e i profeti e tutto il resto della Bibbia, tutto il resto di quei libri che diventano patrimonio comune di ebrei e cristiani. In apparenza, dunque, i libri su Gesù sono già stati scritti. Secondo la Chiesa, che sposa storia, teologia, filosofia e profezia, perfino le sacre scritture degli agiografi, che scrivevano secoli prima della nascita di Gesù di Nazareth, riguardano il suo avvento, l’intuizione profetica della sua persona. E allora? Perché il Papa ha scritto un libro su Gesù?
La risposta la dà lui stesso in modo apparentemente molto semplice. Il Papa, che è un teologo e un filosofo e uno storico, ha voluto dare un contributo personale alla ricostruzione del volto del Signore nel solco di decenni di studio e di sequela personale e comunitaria nella, con e attraverso la Chiesa del Signore. E il suo contributo è di una semplicità inaudita, sconvolgente. Questa caratteristica dei cristiani di essere semplici è la loro forza, è il centro gravitazionale agli occhi di una persona che è fuori dalla Chiesa, è fuori da una comunione pratica. Il Papa Benedetto XVI, che con una doppia firma in quanto autore si qualifica anche come Joseph Ratzinger, non si limita a credere nel Gesù dei vangeli, aggiunge qualcosa alla sua fede, aggiunge che la figura di Gesù Cristo è logica, è storicamente sensata e convincente, solo se esaminata e per così dire razionalmente argomentata alla luce dei vangeli.
Questo libro pone un atto di fede come apertura a un discorso di ragione e si inoltra nei meandri del metodo così detto storico-critico, il metodo con il quale la Chiesa ha aperto le sue porte prima con Leone XIII alla fine dell’800 poi con Pio XII con l’Enciclica “Divino afflante spiritu”, poi con il Concilio Ecumenico Vaticano II, la Costituzione dogmatica sulla rivelazione divina “Dei Verbum” e poi con i documenti del lungo regno di Giovanni Paolo II e del lungo regno teologico di Joseph Ratzinger, quelli sull’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Il Papa si incunea, si introduce dentro i problemi del metodo di lettura storico di ciò che era la figura di Gesù per arrivare a ribadire un atto di fede, per riproporre un vero uomo e vero Dio in quanto figura storicamente sensata e convincente. Il Gesù dei vangeli dunque, al di là di tutte le stratificazioni di lettura, di interpretazione che sono affidate ai paleografi, agli archeologi, ai linguisti e a ogni sorta di specialismo, il Gesù dei vangeli ha un profilo storico. Benedetto XVI dice in questo libro: “Et incarnatus est”, questa è la nostra religione, questa è la base e il fondamento della nostra fede; Gesù ha un profilo storico sensato e convincente, Benedetto XVI aggiunge, “più logico di qualunque altra ricostruzione possibile” se si riesce a combinare nell’esame l’atto di fede e l’atto di ragione.
Trovo questa una sfida, una proposta intellettualmente ed emotivamente estremamente feconda e importante. Il Papa dice nel corso di tutto il libro, ed è il senso del libro stesso (ma lo precisa e lo specifica nella prefazione metodologica), che senza argomentazione razionale, senza ricorrere criticamente al metodo storico, Gesù diventa un'astrazione interiore, perde il contatto con il tempo, con la storia, con il creato, con l'umanità e con il suo ethos; cosa devo fare? Chi sono io? Chi mi ama? Perde il contatto con la vita e con il suo significato, diventa una figura evanescente separata dalla realtà dell'essere e dall'essere della realtà. Non si capirà mai, se non c’è l’argomentazione razionale, se non c’è un contatto di una fede che si incultura e si incarna con il metodo storico, non si capirà mai che cosa volesse dire quando disse: “Io sono”.
Ma con il puro metodo storico, ed è l’altra faccia di questa straordinaria ambiguità che è connessa con un pensiero che civilizza, che educa alle alternative, con il puro metodo storico si possono formulare solo ipotesi su Gesù, le ipotesi di cui il Papa diffida: quella serie di ipotesi seguita ai grandi libri su Gesù degli anni ‘30 di Karl Adam, di Romano Guardini, di Giovanni Papini, che si affidano al puro metodo storico critico e a tecniche esegetiche specialistiche non razionalizzate spiritualmente, oltre che non santificate dallo spirito per quello che riguarda l’atto di fede. Quelle ipotesi su Gesù non sono astratte, sono molto concrete e precise ma si contraddicono, stanno (questa secondo me è la parte più bella dell’introduzione metodologica del Papa) irrimediabilmente nel passato.
Il metodo storico, dice il Papa, ha questa importanza per noi, radica la figura di Gesù sulla superficie della terra (questo è molto bello). C’è un Gesù che non solo abita la terra, e che è prezioso rintracciare attraverso il metodo storico, ma sta proprio sulla superficie della terra, è un uomo come gli altri, la calpesta, c’è, è visibile, è una sagoma distinguibile, è una sagoma umana che sale sulla montagna, che entra a Gerusalemme, che si mette a dorso di un asino, che consola, che impartisce ordini, che accenna all’uso della spada, che pacifica, che rinvia a un altro mondo, che annuncia un Regno. Persona fisica che abita la superficie della terra. Allora il puro metodo storico, in queste concretizzazioni, agisce come un effetto di banalizzazione e colloca Gesù irrimediabilmente nel passato dando alla parola una risonanza puramente filologica. La parola la si capisce solamente nel contesto del passato, e quindi le si toglie vita. Sono ipotesi che non hanno vita e che non abitano nel tempo presente. In questo caso sarà impossibile capire che cosa volesse dire Gesù quando disse: “Io sono la via, la verità, la vita”.
Io ringrazio il popolo cattolico, le istituzioni cattoliche, per le battaglie che abbiamo fatto insieme su alcuni temi eticamente sensibili e per un’amicizia che spero possa scavare in profondità nel corso del tempo. Ringrazio Lei per avermi dato non solo la possibilità di leggere questo libro ma di effettuare una lettura progrediente, non voglio dire una lettura comunitaria perché la comunione deve essere ratificata in modo sacramentale, però una lettura collettiva fatta di domande che venivano fuori una volta dai Salesiani di Udine, una volta in una parrocchia di Livorno, una volta nella Facoltà di Teologica nell’Italia centrale a Bologna. Ho avuto la possibilità di recepire questo libro, di parlarne con i miei collaboratori, di stimolare recensioni e articoli, di stimolare la ricerca intorno al libro.
Noi abbiamo anche intervistato il Rabbino Jacob Neusner che ha avuto un bel dialogo con il nostro collaboratore Andrea Monda, e mi avete dato la possibilità di entrare dentro questa straordinaria e, per gli intellettuali laici estranei alla Chiesa, misteriosa capacità di combinare un atto di ragione e anche di fede che hanno i cristiani che vivono oggi il problema della fede nel suo rapporto con la cultura del nostro tempo come storicamente l’ha vissuta la Chiesa, ma con una intensità particolare nel tempo degli ultimi due papati.
Alla sua fede, alla fede della Chiesa, alla testimonianza della cristologia di tutti i tempi, il Papa aggiunge un metodo di ricostruzione della voce e dell'immagine e dell'autocomprensione di Gesù, aggiunge una potente riflessione su che cosa sia la storia materiale e spirituale dell'incarnazione e della resurrezione, aggiunge - in una parola - la ragione. Stabilisce una concreta, viva alleanza scritturale tra il sapere della fede e la fede che il Papa mostra di avere nel sapere. Non è un libro chiuso, non è un libro che ridogmatizza la figura del Cristo sottraendo Gesù agli storici. Qualcuno ha criticato il Papa, che peraltro ha lasciato campo libero alle critiche perché ha definito con molta naturalezza il libro non magisteriale, per la ragione che restringe il campo, tende a ridogmatizzare la figura di Cristo, a mettere un accento definitivo sulla filiazione divina di Gesù di Nazareth e sul suo contatto e rapporto con il Padre. Questo complica la missione di chi crede che una fede pura, disincarnata, tutta spiritualizzata, possa stabilire un contatto soprattutto con l’umanità di Gesù, con Gesù maestro di morale, con Gesù maestro di bene. Ma io credo che il libro dimostri una grandissima apertura mentale e sia un tributo non meno alla fede personale e alla fede della sua Chiesa, alla custodia e al deposito della fede nella sua funzione papale e pastorale di quanto non sia un tributo al confronto, alla discussione pubblica, alla bellezza del sapere razionale.
Ma di quale ragione stiamo parlando? Il Papa non gioca con le parole, non le usa a caso, non dà loro troppa confidenza, le maneggia con cura, ne fa economia, le tratta con riguardo e con distacco. Il Papa sa che nel mondo moderno la ragione e la fede vivono vite separate. Si alleano, si combinano, si rimandano i problemi dentro questo libro, dentro la catechesi del mercoledì, dentro l’insieme dell’opera teologica del Card. Ratzinger prima e dopo l’assunzione della carica di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ma nel mondo reale, nel mondo esterno, fuori le mura, ragione e fede vivono vite rigorosamente separate. La ragione sperimentale, tecnica, la ragione come criterio autosufficiente della storia, questa ragione è ancora la regina della vita pubblica, del discorso pubblico, della autocomprensione del tempo in cui viviamo. Il Papa sa che questo tipo di ragione può vivere e vive solo in un universo scristianizzato o in via di radicale scristianizzazione. Sa che la fede è ancora largamente considerata sottomissione al mistero, buio che viene dal buio, resa a quell'oscurità da cui la ragione scientifica ci libera e ci emancipa, illuminandola. Sa che la fede è accettata solo come spiritualità individuale, come fede personale o come culto autorizzato di una comunità separata. Sa che la fede è considerata con atteggiamento guardingo, quando non irridente e sussiegoso, che è intesa come lo strato primitivo, bambino, immaturo dell'anima e dell'educazione umana.
Ma il Papa sa anche che questo mondo adulto, troppo adulto, sta invecchiando a vista d'occhio. Sa che anche ciò che è moderno tramonta e si rigenera. Che si può essere prigionieri della propria libertà e desiderare una libertà più grande e ricca di una prigione vuota. Sa che gli uomini e le donne della nostra epoca vivono nel crepuscolo del razionalismo e nella notte del relativismo, e che a questa mancanza di luce confusamente e pieni di incertezze si ribellano. Se il Papa propone la ragione come logos, se il suo Gesù incarnato diventa un significato anche per chi non crede, se questo Figlio del Dio vivente confessato da Pietro può essere inteso come figura storicamente sensata e convincente, è perché il Papa è ottimista e ha fiducia in una relazione di conversione con il mondo, come dimostra la mitezza della sua predicazione nell’inflessibilità, nell’intransigenza che riguarda gli elementi suoi fondamentali, come dimostra il suo tono, come dimostra il linguaggio del suo corpo, come dimostra in generale il linguaggio del suo Pontificato, come dimostrano i suoi atti magisteriali alti, i suoi atti più formali, l’attenzione alla cultura, il considerare centrale la liturgia, il credere che sia possibile ristabilire un contatto, non effimero, non di puro aggiornamento ma di vera e intensa capacità di scambio tra la Chiesa e il mondo.
D’altra parte nello scrivere questo libro il Papa doveva smantellare alcuni dogmi laici, per esempio quello che porta ad accettare Gesù come uomo e negare la possibilità messianica dell'incarnazione, negare la divinità di Gesù come suo messaggio in aenigmate: è un paradosso che deriva da una lettura contraddittoria e banalizzante dei vangeli - dice il Papa.
Accettare il carisma morale dei vangeli e negare il loro mistero, la resurrezione: è un modo insensato e non convincente di leggere la storia di Gesù di Nazareth nella luce della testimonianza evangelica che lo racconta - dice il Papa.
Accettare la storia cristiana come passato letto alla luce del fuggevole presente e negare la memoria cristiana, la testimonianza che si perpetua come eterno presente, come immagine mobile dell'eternità, come liturgia, come sacramento e come Chiesa: è assurdo, sembra a me questo il pensiero del Papa, perché quella storia nasce dalla memoria, è una verità come ricordo e riconoscimento, una verità filosoficamente forte come la verità metafisica in Platone, e attraverso la memoria si riproduce nel tempo. Il Papa dice, senza scandalo, senza minimamente voler cancellare l’importanza, il vigore, l’arricchimento che ha dato alla fede della Chiesa il metodo storico-critico, che lasciare nel tempo passato la parola vuol dire avere una visione unidimensionale della parola, ridurla sempre e soltanto a fatto umano, dividerla, non coglierne l’unità della Scrittura, l’unità dei diversi libri, dei diversi racconti degli agiografi.
Eppure sono questi i dogmi moderni: accettare Gesù come uomo e negare la possibilità messianica dell’incarnazione, accettare il carisma morale dei vangeli e negare il loro mistero, prendersi la storia cristiana ma negare la memoria, la realtà presente, la parola che ha un’eco che le sopravvive e la prolunga, e consente quella lettura progrediente della storia di Gesù. Sono i dogmi fissati da quella parte del pensiero e della cultura moderni che considerano la ragione un idolo onnipotente, signore della materia e dello spirito, e il dubbio sistematico l'unica verità possibile, l'unico assoluto in un contesto di interpretazioni della realtà fatalmente relative e soggettive, legate alla casualità della nostra esistenza come particelle della natura. Dicono: datemi l'umanità di Gesù, e tenetevi il disegno messianico. Datemi il discorso della Montagna e tenetevi la Pasqua. Datemi la storia di un maestro di morale e tenetevi l'identità che egli rivendicò e i suoi discepoli testimoniano da duemila anni, datemi l'uomo di Nazareth e tenetevi la Chiesa che ha fondato.
Questo laicismo programmatico e dogmatico esige che la fede sia confinata nel privato. Considera oscurantista, cioè contraria al progresso illuminato dalla sapienza razionale senza limiti, la confessione pubblica della fede e specialmente quell'argomentazione razionale che può intrecciarsi con la fede, che può ammettere la possibilità della verità di fede, che accetta l'orizzonte del mistero e lo scruta come un limite insuperato e forse insuperabile. Guai, nel mondo laico, nel mondo dove è prevalente questo laicismo dogmatico, ad abbracciare un’argomentazione razionale che preveda un limite alla ragione.
Ecco il punto cruciale da affrontare nella lettura del libro del Papa. Non è solo un libro ecclesiale, un manifesto di carità e di amore, una nuova testimonianza di fede. Senza la fede cristiana quel libro non sarebbe stato nemmeno pensabile, non sarebbe mai stato scritto. Ma in virtù della sola fede questo libro non sarebbe stato scritto così, non avrebbe questo carattere storico, teologico e filosofico. Sarebbe un libro di dottrina e di edificazione, destinato al popolo di Dio e alla sua casa che è la Chiesa. Invece è un libro per il mondo. E' un libro che entra decisamente nel campo della cultura profana, che propone un metodo per leggere la scrittura, nella fiducia che di Dio si possa fare anche scienza, che l'inafferrabilità irriducibile del divino, la sua alterità e lontananza, possano essere, se non conosciute, almeno dette, scrutate, indagate, scavate, trasmesse.
Non è questo che hanno tentato di fare i padri e i dottori della Chiesa? Non è questo lo sforzo dei filosofi e dei teologi cristiani del medioevo, che si consideravano nani seduti sulle spalle dei giganti, che elaboravano i misteri della fede nella luce razionale della vecchia metafisica classica? Non è questo il senso delle grandi dispute sulla Chiesa e i sacramenti, sulla fede e sulla scrittura, sull'obbligo politico e sulla salvezza individuale, che divamparono nel tempo della riforma protestante e della riforma cattolica e che attraverso il concilio tridentino sono arrivate fino al concilio del secolo scorso? E' vero che la fede non si dona attraverso i soli libri, che la grazia entra nell'esistenza intera e non nella sola mente, ed è vero che un artista contemporaneo per troppa fede, in nome di una fede radicalmente spiritualizzata e totalmente disincarnata, ha addirittura crocifisso i libri in effigie. Ma è anche vero che Dio regna dal legno della croce, ed è dal legno che vengono i libri.
Il Papa chiede un anticipo di simpatia ma accetta le critiche, toglie il suo libro su Gesù dal perimetro del suo magistero. In questo è ironico. Il vero senso della sua disponibilità ad essere contraddetto è nascosto nel suo discorso, deve essere ricavato dalla lettura dell'intero libro. Quando dice: criticatemi pure, il Papa in realtà vuole dire: guardate che vi sto contraddicendo, guardate che vi porto un Gesù non pacificato, risorto e vivo oltre la morte, dunque incredibile stoltezza, incredibile follia, ma stoltezza e follia razionalmente degne di fede.
A questo punto potreste obiettarmi: e tu che c'entri con il libro del Papa, se il libro del Papa è quello che tu dici? Come fai ad entrare in un discorso sul Figlio del Dio vivente se non credi? E la mia risposta è questa. La mia ragione mi dice il suo limite. Se non lo riconoscessi sarei padrone della mia vita e della mia morte, sarei un nichilista.
La mia ragione mi dice che sono un credente, sebbene non disponga di una fede personale e confessionale praticamente vissuta. Credo nel concetto matematico e fisico di infinito, che segna il mio limite e lo descrive. Credo che mio padre e mia madre non siano l'origine biologica del mio DNA ma un semplice e irrisolto mistero d'amore. Credo che l'altro, la persona umana o anche solo il suo progetto o anche solo il suo ricordo, sia titolare di diritti che sono al tempo stesso i miei doveri, e che questo ciclo della delicatezza e del rispetto tra le generazioni sia stato messo a punto, nella sua massima perfezione, dentro la civilizzazione cristiana del mondo. Credo che non tutto sia negoziabile e relativo. Ed è già un bel credere, ve lo assicuro.
In più credo nella fede degli altri, la rispetto e la amo, in un certo senso la desidero. L'inesistenza della mia fede non mi porta a considerare la fede, anche e soprattutto la fede dei semplici, dei piccoli, come una variante della superstizione o del fanatismo. Se poi la fede degli altri mi si presenta con il vigore e la passione razionale di un magnifico libro di teologia, se il sapere della fede e la fede nel sapere di un Papa mi insegnano qualcosa di prezioso che attraversa la storia ma non la esaurisce e in essa non si esaurisce, crescono a dismisura la mia inquietudine, la mia curiosità e la mia fiducia.
Intervento di mons. Gianfranco Ravasi
Ci sarà una differenza tra il mio intervento e quello di Giuliano Ferrara: io riprenderò per certi versi i paludamenti del teologo, dopo questa bella riflessione e testimonianza che abbiamo ascoltato. Mi muoverò, perciò, all’interno del testo di Benedetto XVI cercando di raccogliere l’iniziale provocazione del Card. Ruini quando, sulla scia del titolo di questa serata, ha evocato una serie di componenti: il nesso storia-fede, l’aspetto della “storia dell’effetto” della presenza cristiana all’interno della nostra cultura e infine, sia pure marginalmente, la dimensione esistenziale del credente, dimensione che affiorava ininterrottamente in filigrana anche nel discorso di Giuliano Ferrara.
Una premessa
Di fronte agli orizzonti così enormi, mutevoli e complessi che sono evocati dal libro, passibili di molteplici itinerari, vorrei soltanto proporre una riflessione molto limitata attorno a due componenti, dopo però aver fatto una premessa che parte dalla pagina intensa e straordinaria di Matteo 16 con quella celebre domanda: “Ma voi chi dite che io sia?”.
Questa domanda, che sotto certi aspetti continuamente serpeggia all’interno delle pagine dell’opera Gesù di Nazareth, potrebbe essere rilanciata con le parole di uno scrittore ormai dimenticato e che fu anche mio caro amico, Mario Pomilio, nel suo Quinto Evangelio quando concludeva così quel romanzo: “Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte a questa costante domanda: Ma voi chi dite che io sia?”. Penso, e la testimonianza di Giuliano Ferrara credo sia significativa, che questa domanda sia inevitabile per il credente, ma anche per la persona che vuole andare al di sopra della superficie degli eventi e dell’esistenza stessa. Cristo è una figura che in qualche modo inquieta e provoca se lo si lascia incrociare con la propria esistenza.
A questo proposito mi sembra emblematica la testimonianza di un autore russo, forse minore, non credente, nel suo poema intitolato I Dodici. Siamo nel 1918 e questo autore, Aleksandr Blok, scrive nel suo diario dopo aver concluso la sua opera: “Quando l’ebbi finita mi meravigliai io stesso: Perché mai Cristo, davvero Cristo? Ma più il mio esame era attento più distintamente vedevo Cristo. Purtroppo Cristo! Purtroppo proprio e ancora Cristo!”. La sua era un’opera di distacco, di presa di distanza dal Cristo, ma “purtroppo” era ancora Lui che entrava in scena.
Nel libro del Papa c’è un’altra domanda che è fondamentale accanto a quella di Matteo 16 ed è l’interrogativo di Giovanni 6,67 che interpella la libertà. Ogni incontro con Cristo è una provocazione alla libertà, alla scelta, non a una adesione cieca e fanatica: “Volete andarvene anche voi?”.
Questa domanda serpeggia anch’essa, come la precedente, nella storia dell’umanità.
Alla ricerca del Gesù reale
Come dicevo, il libro permette infinite piste di riflessione.
Vorrei scegliere per il mio sviluppo una frase soltanto, che a prima vista sembra del tutto secondaria e che io ritengo abbastanza capitale e fondamentale: “Ho voluto fare - scrive il Santo Padre - il tentativo di presentare il Gesù dei vangeli come il Gesù reale”.
Attenzione a questo aggettivo perché “reale” non è completamente sinonimo di storico. Quanti milioni di cinesi sono certamente reali, ma non saranno mai storici perché non lasceranno mai una traccia documentaria tale che permetta allo studioso di ricostruirne l’esistenza a livello storiografico. Proprio per questo motivo noi dobbiamo cercare di ricordare che, ed è questa la sfida del libro, noi siamo alla ricerca sì del Gesù storico anche col metodo storico-critico, con la strumentazione disponibile, ricostruendone le coordinate storico-culturali, sociali, geografiche, ecc. Ma alla fine noi non avremo in pienezza il Gesù reale. Abbiamo bisogno di un altro canale di conoscenza, di un altro percorso attraverso un’altra strumentazione.
Per inciso devo dire che la storiografia contemporanea ha abbandonato l’esclusivo ricorso al mero e semplice procedimento documentario classico, proprio di una certa storiografia positivistica. Lo storico di oggi non ha nessun imbarazzo, se deve interpretare e ricostruire la figura di qualcuno, ad assumere componenti che fanno parte di scienze differenti come l’antropologia e persino la psicologia, così come la sociologia diventa indispensabile. Eppure sono discipline che hanno statuti e percorsi differenti. Perché non allegare allora, per la ricostruzione di questo Gesù reale, che non abbia solo lo scheletro ricostruito attraverso la metodologia storico-critica o attraverso altre strumentazioni di tipo storiografico, anche il percorso teologico, la dimensione mistica strettamente e rigorosamente intesa?
È un po’ questa la sfida fondamentale e basilare del libro di Benedetto XVI. Certo è indispensabile avere a disposizione anche quella strumentazione che ci viene offerta, come dicono gli studiosi, dalla cosiddetta “nuova ricerca” oppure dalla “terza ricerca”. La prima cerca di rintracciare, di raccogliere, di verificare e di vagliare attraverso i criteri di storicità tutta la documentazione possibile; l’altra cerca di ricomporre le coordinate concrete in cui è immersa la figura di Cristo, attraverso uno studio accurato del mondo giudaico che è quasi il grembo nel quale la presenza di Gesù storico si manifesta.
Proprio queste vie hanno permesso di abbandonare quella che gli esegeti chiamano l’“antica ricerca” che quasi dissolveva la figura di Cristo riducendola soltanto ad una larva spiritualista o mitica, attraverso una ricerca apparentemente razionale, in realtà dissolvente della realtà stessa di Cristo. Questa “antica ricerca” era considerata come una sorta di vento che spazzasse via tutti i miti, tutta la teologia, ma in verità essa è ormai solo un reperto di un passato storiografico decisamente superato dalla “nuova” e dalla “terza” ricerca.
Il “luogo” del Gesù reale
Evocheremo solo due componenti di questo Gesù reale che il Papa introduce in maniera particolare nelle sue pagine. La prima: il luogo di Gesù. Qual è il suo vero orizzonte completo? Certo, il suo primo “luogo” è quello giudaico, ma lo è anche la cultura greco-romana su fondale molto remoto; ci sono poi componenti topografiche che rendono percepibile la carnalità di Cristo. Ma c’è un altro orizzonte che è indispensabile se non vogliamo avere un corpo amputato di Cristo, una figura monca. Ed è per esempio la sua relazione unica col Padre: un “luogo” in cui si situa la figura del Gesù reale è il mistero di Dio in cui egli si immerge e si rivela immerso. “Io e il Padre siamo uno”, siamo una sola realtà. Ed è qui che scaturisce la differenza radicale rispetto a Mosè.
Certo il Gesù storico assomiglia e ha tratti comparabili con Mosè.
Lutero usava quell’espressione abbastanza curiosa in un latino abbastanza stravagante: egli è “Il Mosissimus Moses”, un Mosè all’ennesima potenza.
Eppure Cristo è molto più di Mosè che vede Dio soltanto alle spalle, all’interno di quella grotticella, come narra il libro dell’Esodo, intuendolo solo mentre si allontana. Cristo, invece, dichiara di essere figlio, e notiamo bene che questa componente non è un rivestimento glorioso dogmatico, è il cuore della coscienza del Gesù reale. L’essere il Figlio è troppo e sistematicamente annodato nell’interno del suo messaggio e del suo stesso autoporsi.
Da questo punto di vista è folgorante Giovanni quando vuole riassumere questo orizzonte del rapporto di Gesù con Dio. Egli lo fa al termine di quel gioiello che è l’inno del prologo, Giovanni 1,18: “Nessuno Dio l’ha mai visto, proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre Lui ce lo ha rivelato”. In questo momento mi viene in mente il dialogo tra Kafka e Janouch quando questi gli dice: “Per te Cristo che cosa è?” e Kafka risponde: “E’un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non cadervi”. E’ l’idea di un orizzonte divino.
Un altro esempio di questa trascendenza insita alla figura di Cristo è la sua parola. E’ significativo che il Papa sia ricorso alla testimonianza del libro del rabbino Neusner. La parola di Cristo dal punto di vista storico-critico è certamente una parola intrisa e rivelatrice di iridescenze bibliche, di rimandi sistematici al linguaggio giudaico e questa è la sua componente storica. Ma indubbiamente c’è qualcosa di più.
Difatti è significativa l’evocazione che il Papa fa dell’opera Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù di Jacob Neusner, che immagina di mettersi sulla strada che sale verso il monte del discorso della Montagna.
Si asside anche lui e ascolta e trova molti elementi che lo catturano, che lo conquistano, che gli fanno sentire una sintonia indiscutibile col Gesù storico. Ma alla fine la sua non è adesione al Gesù reale; anzi egli si spaventa e c’è alla fine il rigetto di Gesù di Nazareth perché egli si accorge giustamente che c’è una frase radicale: “Io vi dico”. Per un ebreo quella frase è qualcosa di più della semplice autorevolezza di un personaggio, è l’’anî dibbartî degli oracoli profetici, quando il Signore entra in scena e afferma: “Io l’ho detto” con una pienezza di verità.
In questo senso, potrei citare un altro personaggio lontanissimo dall’esperienza cristiana anche se le sue radici erano tali, cioè André Gide nello scritto Numquid et tu, che è l’evocazione delle origini protestanti di questo scrittore, origini poi rinnegate. Anch’egli ha un’espressione parallela allo sconcerto di Neusner, capace di mostrare come la parola sia un luogo in cui il Gesù reale rivela qualcosa di diverso e di inedito: “Signore non perché mi sia stato detto che eri il Figlio di Dio io ascolto la tua parola. Ma la tua parola è bella e al di sopra di ogni parola umana ed è da questo che io riconosco che forse tu sei il Figlio di Dio”. La parola che diventa epifania del divino.
Si potrebbe rimandare anche alla preghiera di Cristo. Perché il papa ha dedicato così largo spazio al “Padre Nostro”? Proprio per mostrare l’originalità del Gesù reale anche in questo ambito. Certo, Matteo modula il Padre Nostro sulla formula del giudaismo (propria del Gesù storico) che invoca nel Qaddish Dio come “Padre nostro”. Luca, invece, col semplice Pater greco vuole dare un’impronta nuova: è l’abbà aramaico del linguaggio di Gesù, che si rivolge a Dio come “babbo”, nell’intimità assoluta, nel dialogo di spontaneità per cui cadono tutte le distanze, la trascendenza stessa si annienta e si comprime. Cristo insegna ai suoi discepoli ad entrare nella realtà del suo stesso orizzonte, del suo “luogo” trascendente.
Il “tempo” del Gesù reale
Secondo movimento della nostra riflessione: il “tempo” di Gesù, che è certamente la sua storia, sono le sue vicende, sono tutti quei dati che riusciamo a ricostruire. Il prologo di Giovanni ci permette di vedere come il tempo di Cristo comprenda la “carne”, cioè l’esistenza umana e la stessa cronologia. Ci sono persino alcune coordinate che in qualche modo ci permettono di raccordare Cristo all’Impero Romano stando al capitolo 3 di Luca, che presenta persino i funzionari sia religiosi che politici del giudaismo di allora. C’è la possibilità di ricostruire qualche intersecazione con la storia profana del tempo, ma soprattutto c’è la ricostruzione della stessa storia “esistenziale”, continuamente riflessa nell’interno delle parabole.
Ma il prologo di Giovanni ci fa capire che c’è un altro tempo. Il testo giovanneo ha due dichiarazioni capitali. Innanzitutto l’incipit: “In principio c’era il Logos” che nel linguaggio biblico significa che il Logos è “nell’eterno, fuori del tempo”, il Logos è proteso verso Dio ed è Dio.
Quindi si afferma la divinità del Logos. Ma c’è un altro punto capitale.
E’il versetto 14 che dice: “Il Logos [eterno] divenne carne” che nel linguaggio di Giovanni vuol dire l’esistente.
Allora il tempo di Gesù è quello storico; esso è importantissimo, non lo dimentichiamo, altrimenti cadiamo nello gnosticismo, facciamo di Cristo una figura soltanto divina e trascendente che decolla dalla realtà e procede verso cieli mitici e mistici. I suoi piedi, invece, hanno continuato ad impolverarsi per le strade della Palestina, si preoccupava di parlare di realtà che egli incrociava ininterrottamente con il suo sguardo.
Eppure è fuori di dubbio che in Lui c’è un’altra unità di misura, un altro tempo. In Lui si unisce eterno e storia, assoluto e contingente, infinito e geografia.
A questo punto possiamo scoprire questo tempo diverso che diventa fondamentale anche per il nostro approccio al Gesù “reale”. Ricorreremo a un testo di Jorge Luis Borges. Questo scrittore argentino ha scritto una poesia intitolata Giovanni 1,14, che comincia così: “Io che sono è Cristo che parla l’E’, il Fu e il Sarà, / Io che sono l’Eterno/ accondiscendo al linguaggio / che è invece tempo successivo e simbolo”. Cristo è sopra, è fuori del tempo, eppure è nel tempo. E’ nella divinità, eppure conosce la malattia, la sofferenza e questa è forse la caduta più drammatica e più necessaria per affermare la storicità di Gesù e anche la sua realtà, cioè la sua morte.
C’è Cristo che prova e sperimenta tutta la gamma possibile della sofferenza. Gli evangelisti da questo punto di vista sono stati molto significativi perché hanno fatto vivere a Cristo tutta l’esperienza del limite. Il dolore e la morte sono la nostra carta d’identità, Dio per definizione non soffre e non muore. Ebbene, c’è un Cristo che ha paura della morte, un Cristo che è abbandonato dagli amici, un Cristo che prova tutta la sofferenza fisica in tutta la sua gamma oscura, un Cristo che arriva anche a quel punto terminale del silenzio del Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Matteo e Marco fanno morire Gesù dopo questo grido: “Lanciato un forte urlo, spirò”. E’ una brutta morte, proprio per questa sua storicità, per il legame “carnale” di Cristo con noi.
Altrimenti l’incarnazione non ci sarebbe se Cristo non muore, ed è per questo che l’eresia gnostica, accolta anche dal Corano, immaginerà che sulla croce muoia un sosia e non Cristo, perché è troppo sconcertante che egli muoia in quella maniera.
Ma ecco che subito dopo c’è l’alba della Pasqua. Anche quando non sente più il Padre e anche quando muore, Cristo non cessa di essere il Figlio, ed è per questo che c’è poi quel mattino, c’è la risurrezione che ripropone l’altro “tempo” di Gesù, cioè l’eterno. E’ curiosa una frase del romanzo L’ultima tentazione di Cristo dello scrittore greco Kazantzakis in cui la morte di Cristo viene descritta così: “Levò un grido. Tutto s’è compiuto”. E l’autore continua:”Ma fu come se dicesse: Tutto comincia”.
Questo è vero perché in Giovanni Tetélestainon vuol dire “tutto è finito”, non è “la fine”, è “un fine” e quindi un principio, è ormai l’aprirsi della trascendenza. Ecco perché sulla croce, per Giovanni, Cristo muore e risorge intrecciando profondamente la storia con la “realtà” piena del suo essere uomo e Figlio di Dio.
Proprio perché Cristo non è soltanto “storico”, come un grande personaggio del passato, come una figura remota conoscibile attraverso gli itinerari e la strumentazione della storiografia, ma ha anche in sé questa presenza dell’eterno, ecco allora la possibilità che egli sia nostro contemporaneo. E’ ciò che afferma quella frase indimenticabile e bellissima, citata dal Papa, presente in Ebrei 13,8: “Gesù Cristo lo stesso ieri, oggi e per sempre”.
Questa eternità ce lo fa incontrare sistematicamente ed è per questo che il filosofo Kierkegaard nel suo Diario del 1839 scriveva di Cristo: “Lui viene ancora oggi in cerca dei miei traviamenti, ove io mi nascondo a lui e mi nascondo agli uomini”. E’ per questo che i cristiani autentici sono pronti a dare tutto per lui, a nutrire per lui un amore viscerale come per una persona che ti accompagna nella vita, ad avere con lui un legame d’amore che suppone la contemporaneità, la simbiosi totale ed assoluta. Bonhoeffer, il grande teologo martire nei campi di concentramento nazisti diceva: “Cristo non è tale solo per se, in sé ma anche pro me”. Il Cristo reale è quello che ci permette di averlo anche accanto, in una sorta di intreccio mani con le mani, cuore col cuore.
Alla fine vorrei ritornare alla domanda da cui sono partito. Il libro del Papa è certamente un testo che vuole, proprio perché ci ripropone il Cristo reale, definire tutta la forza di questa figura. Vuole presentarne anche l’elemento di scandalo, rispetto alla correttezza formale delle categorie che sono proprie anche della filosofia e della teologia.
Aveva ragione il vecchio Simeone, quando aveva preso il bambino Gesù tra le braccia e aveva definito quel neonato come “un segno di contraddizione”. Ci sono, appunto, quelli che lo sentono contemporaneo e arrivano a morire per lui o comunque condividono il peso e la fatica quotidiana portandone la sua stessa croce ogni giorno, e ci sono quelli che lo sentono così contemporaneo e fastidioso da rigettarlo, come faceva lo scrittore americano Henry Miller che si era fatto incidere sulla suola delle scarpe due croci per poter calpestare tutti i giorni questo segno fondamentale cristiano.
In conclusione, riprendo la testimonianza finale molto bella di Giuliano Ferrara, quel suo credo finale e anche la testimonianza di tanti altri che, senza arrivare alla condivisione piena del Gesù reale, si accorgono che non è sufficiente il Gesù storico. E lo faccio ancora una volta con le parole di Borges. Egli incarna tutti coloro che sono seriamente in ricerca e che, incrociando Cristo per le strade della loro esistenza, non ne escono indenni. Cito, dunque, alcuni versi del Cristo in croce di Borges: “La nera barba pende sopra il suo petto, / è un volto duro, ebreo. / Il volto non è quello dei pittori, / io non lo vedo, / eppure insisterò a cercarlo / fino al giorno / dei miei ultimi passi sulla terra”.