XXIX domenica anno B

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /10 /2006 - 10:37 am | Permalink | Homepage
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“Sedere alla mia destra o alla mia sinistra, non sta a me concederlo... Il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”.

Giacomo e Giovanni: si può stare con Gesù cercando il potere! Più sottilmente, non il potere, ma la gloria e la fama che circondano il potere.! Nelle tentazioni leggiamo che il maligno mostrò a Gesù tutti i regni della terra “con la loro gloria”. Sappiamo bene che, spesso, non è il potere che si cerca, perché poi non ci si vuole assumere le responsabilità che l’autorità comporta. Si vuole, infatti, delegare agli altri le questioni scottanti, per non essere ritenuti poi responsabili di ciò che accade.

Potremmo, immediatamente, porci una domanda su noi stessi per vedere la rilevanza di tutto questo: quali segreti di bene teniamo chiusi nel nostro cuore? Quando ci è capitato di fare del bene e di non averne mai, finora, parlato con alcuno? Sappiamo compiere un gesto di carità grande, desiderando che nessuno se ne accorga? Quale peso ha il sentirsi dire “grazie”, l’essere riconosciuti dagli altri, quando un servizio si deve protrarre nel tempo? (Cfr. la figura di S.Nicola di Bari, che butta i suoi tre sacchetti d’oro dalla finestra alle tre giovani, per non essere riconosciuto, a Roma, ad esempio, negli affreschi medioevali di S.Saba)

Non è facile da comprendere questa bramosia del potere, della notorietà – ne parleremo più in là. Perché piace ai più giovani essere visti a fianco di un personaggio famoso, farsi fotografare con lui, poter dire di averlo incontrato?

La liturgia della Parola di oggi non risponde direttamente a questa questione, ma ci fa incontrare ancora una volta il Signore. Egli è il “sommo sacerdote” – dice il brano di Ebrei odierno. Come commentava anni fa il teologo Ratzinger, non ancora cardinale: “Qui si manifesta che tutte le religioni hanno fallito!” Nessun sacrificio, nessun sacerdozio, aveva fin qui riconciliato l’uomo con Dio. Sacerdoti e culti romani e greci, maya ed aztechi, ebraici ed islamici, non hanno prodotto ciò che solo l’unico sacerdote, il Cristo, realizza. Ebrei è l’unico testo neotestamentario che chiama esplicitamente Gesù sacerdote, ma ci rivela ciò che, a loro modo, tutti gli scritti del NT ci insegnano.

Sarebbe facile capire che Cristo è la vittima: egli è, infatti, l’agnello, egli è il sacrificio ed il sacrificato. Ma perché sacerdote? Se egli è la vittima, allora – potremmo pensare – i sacerdoti sono gli uomini: il sinedrio, il potentato ebraico di allora, Giuda, Ponzio Pilato, i romani, noi con i nostri peccati. Perché egli non è solo la vittima, ma anche il sacerdote?

E’ il sacerdote, perché è egli stesso il centro propulsore del nuovo culto – ancora il pensiero di Ratzinger in Introduzione al cristianesimo. Il vero agente è Gesù in quel sacrificio. E’ a partire dal suo amore che egli si offre. E’ l’amore di Cristo – e non il sangue - il vero e nuovo sacrificio. Il suo sangue è la concretizzazione dell’amore, del suo amore. E’ la pura concretizzazione del suo amore. Non è un sacrificio che fa l’uomo perché Dio lo ami. E’ l’offerta di amore di Dio stesso per noi. Nasce dal cuore stesso di Dio. Ecco il fallimento di tutti i sacrifici precedenti offerti dall’uomo a Dio. Ecco l’inversione di ogni considerazione. Tutto nasce da Dio stesso.

Anche il nostro “culto” odierno non è, allora, caratterizzato dal fare noi qualcosa per Dio, ma essere disponibili, recettivi, perché Egli possa compiere la Sua opera in noi, perché possa conformarci a sé. Non quindi, l’abolizione del culto e del sacerdozio, ma un culto che ha al centro l’adorazione di Dio, l’amore e l’adorazione di Cristo stesso, la sua lode. “Avviciniamoci” – dice la lettera agli Ebrei – perché, al momento opportuno, possiamo essere toccati dalla sua grazia.

Il profeta, nella prima lettura, ci mostra la solitudine di Cristo. Egli è, “come una radice in terra arida, deserta”. Egli è solo. Non c’è vita intorno a lui che lo sostenga. Noi la conosciamo questa solitudine. Anche nelle famiglie più unite, più belle, incontriamo quei momenti dove uno non si sente capito, dove si trova a dover affrontare un evento da solo. Dove qualcosa di nascosto deve essere portato da uno solo, senza che l’altro riesca a partecipare. Non è cosa facile la comunione. La si può desiderare, ma non è detto che sempre ci sia data.

Questa solitudine talvolta ci appare come maledizione. Cristo la trasforma in responsabilità, in offerta di se stesso. Egli, solo ed unico, ama dove nessuno ha amato. Egli, l’amore stesso di Dio, riempie del suo amore il deserto. Torna in mente una bellissima espressione di don Tonino Bello che così spiegava la Trinità: ”La Trinità non è 1+1+1=3, dove l’unità si è perduta. La Trinità è 1x1x1, che da come risultato sempre 1”! Il Padre vive per amore del Figlio ed il Figlio per amore del Padre. Tutto è ricevuto e tutto è dato. In quel “per” c’è una piccola immagine del mistero dell’amore trinitario.

Possiamo così tornare alla nostra domanda iniziale: Perché il potere ha sempre attirato l’uomo? Potremmo rispondere: Perché l’uomo vi ha cercato una scappatoia per vincere la solitudine e la paura di morire! Io sono vivo – dice il potente – non perché sono amato ed amo, ma perché sono conosciuto, sono riconosciuto, sono lodato. E’ la garanzia illusoria di essere importante, di contare qualcosa, di “essere amato e di amare”. E’ un modo per fuggire dalla paura di non essere – o di essere soli, il che è lo stesso!

Preparando un articolo per Internet su Tolkien ed Il Signore degli Anelli, mi ha colpito la sua ripetuta affermazione che il cuore del racconto non sta nella lotta per il potere, non sta nella guerra che deve essere combattuta fra bene e male, ma in un desiderio umano molto più profondo, quello dell’immortalità. Il Signore degli Anelli – afferma – tratta del desiderio di immortalità e dei modi sbagliati di cercare di raggiungerla! Gli elfi sono quasi immortali, vivendo di memoria, rimpiangendo un passato che non c’è più. Gli uomini cercano un’immortalità che è solo un prolungare indefinitamente la propria vita. Il Signore degli Anelli – senza mostrarlo direttamente – vuole invece indicare, secondo il suo stesso autore, una vita come incontro con “l’Unico che è sempre presente, pur non essendo mai nominato”. E’ il presagio di una vita terrena e di una eternità pensate come comunione con Dio. E’ la coscienza di una vita come ricevuta dalle stesse mani di Dio e come destinata ad una pienezza di incontro con Lui. E’ una vita che si può spendere, e non difendere, perché la si sa ricevuta da Lui.

“Il Figlio è venuto per servire, non per essere servito”. La nostra vita vive di questa nostalgia, vorrebbe accogliere in pienezza questa possibilità, mostrataci da Cristo stesso. Il convegno di Verona appena concluso ha voluto porre dinanzi a tutti l’evento della resurrezione, nella sua identità profonda. Non semplice ritorno alla vita, ma risposta di amore del Padre al Figlio che ha amato dando la propria vita sulla croce. La morte è vinta perché la vita di Dio, che è amore, discende fin nella morte: è questo amore che sconfigge la morte, facendo entrare in essa la potenza dell’amore di Dio. La stessa morte è riempita dall’amore.

Giacomo e Giovanni vivranno questa accoglienza piena del mistero di Cristo. Il loro cammino non si fermerà a quest’episodio evangelico. Giacomo sarà il primo apostolo ad essere martirizzato, durante una vacanza del potere romano in Giudea, quando il sinedrio potrà valersi del suo potere ristabilito, anche se per poco, e condannarlo a morte. Giovanni, forse, verrà a Roma. Il luogo detto oggi di S.Giovanni a Porta Latina ricorda la sua tentata uccisione. Ma, se anche questo episodio dovesse essere inautentico, sappiamo dall’Apocalisse che egli fu fatto prigioniero dal potere romano ed esiliato a Patmos, dove scrisse l’Apocalisse, il libro della persecuzione e del martirio della Chiesa – oltre che delle sua stessa prigionia e testimonianza. Con le loro vite riempirono dell’annuncio di Cristo il deserto e la solitudine della persecuzione. Anche essi impararono ad amare ed a riempire della testimonianza dell’amore di Cristo anche l’ultimo istante della loro vita, in attesa della pienezza del Regno.