Le discipline della comunione, di Olivier Clément
Riprendiamo da Consacrazione e servizio 11/2010, pp. 68-73, un articolo di Olivier Clément. L’articolo fa parte degli appunti inediti del noto teologo ortodosso, morto a Parigi il 15 gennaio 2009. Traduzione dal francese di Maria Campatelli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (25/11/2010)
La comunione ha bisogno di essere sostenuta con tutta una disciplina, anzi, una serie di discipline.
Un’umiltà che si fa rispetto
Prima ancora di parlare di comunione e di amore, c’è bisogno dell’umiltà e di quello che l’umiltà diventa, quando si rivolge all’altro, cioè il rispetto. Il rispetto rifiuta ogni curiosità interessata, ogni possesso delle anime. Alcuni impongono a se stessi dure ascesi per liberarsi dalle cupidigie carnali, ma cadono nella più squisita delle cupidigie, quella delle anime. È necessario scoprirle e superarle, soprattutto quando si esercita la paternità spirituale.
Tale rispetto esige rifiuto di ogni confusione, promiscuità, erotismo nella relazione con l’altro, sia che si tratti di erotismo del predicatore politico o religioso che fa ondeggiare la folla come se la possedesse, sia che si tratti di erotismo “spirituale” riconosciuto. Se l’ironia rischia di ferire l’altro e perciò deve essere evitata, spesso è indispensabile il senso dell’umorismo per ridimensionare noi stessi. Il rispetto è castità di tutto l’essere e nasce dall’umiltà. Afferma Isacco il Siro: “Quando davanti a Dio assumi l’atteggiamento della preghiera, devi sentirti simile alla formica, all’animale che striscia sulla terra ... Presentati a Dio con i sentimenti di un bambino ... “ (Sentenza 62). È necessario, dice lo stesso santo, “diventare come un essere che non conosce nulla, nemmeno la propria anima” (Sentenza 81).
Allora comprendo che nulla mi è dovuto e che tutto è grazia. L’uomo dopo il peccato si aspetta sempre tutto dagli altri e li trasforma in capri espiatori. Adamo nel momento della caduta, invece di pentirsi, accusa Eva: “La donna... mi ha dato dell’albero ... “ (Gen 3,12). Ma in definitiva accusa Dio stesso: “La donna che tu mi hai posta accanto” (Ibid). Solo un’umiltà ontologica in cui assumo realmente la mia condizione di creatura, può farmi comprendere che nulla mi è dovuto, poiché tutto mi è donato. Dio mi dona l’essere, e l’essere è grazia. Quando l’altro mi rivela il suo volto per un istante, la gratitudine gonfia il mio cuore: tutto è grazia. È quanto noi diciamo nel Padre nostro, pregando: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Se comprendiamo che Dio dona tutto, tutti i debiti vengono rimessi e il rispetto diventa stupore.
La vigilanza
La vigilanza spirituale, quando si volge verso l’altro, diventa stupore, risveglio, rivelazione. Sono meravigliato dal fatto che altri esistono nella calda luce di Dio.
Pensiamo all’ondata calma di amore quasi insostenibile, eppure sconvolgente, che ci confonde quando guardiamo dormire un bambino. Com’è possibile una tale meraviglia? Dio ha potuto creare - attraverso la carne di un uomo - quella bellezza che non è né carnale né spirituale, ma totale. Bellezza che va oltre ogni limite e si scioglie in un abbandono concentrato, perché il bambino dorme come solo i santi sanno pregare. Più tardi, nell’adolescente, nell’adulto, la bellezza si dissocerà, il cielo e la terra si opporranno, e per riconciliarli saranno necessarie lunghe lotte. Ma ora, tutto è offerto, e quello che fiorisce nel buio come una ninfea sull’acqua è davvero un volto d’eternità. Quando un uomo muore, spesso Dio gli restituisce il suo volto di bambino addormentato. Quando un uomo sa morire in se stesso per rinascere in Cristo, ritrova lo stesso volto e i bambini e gli animali selvaggi gli si fanno incontro, come ad alcuni santi - san Francesco, san Serafino di Sarov ... - allora i suoi occhi sono aperti.
L’ascesi della vigilanza permette di ritrovare questo sconvolgimento fondamentale davanti a qualsiasi volto, sia esso logoro o appesantito, proprio perché è tale. Dio ama quest’uomo qui e ora, con la sua banalità, vigliaccheria, solitudine, peccato. L’ascesi della vigilanza apre in noi lo sguardo del cuore, che partecipa allo sguardo di Dio.
Allora possiamo sentire dall’interno quello che Dio sente. “L’altro” diventa per noi immagine di Dio, e non per il nostro diletto, ma per la forte tensione ascetica, poiché essa è quasi sempre sfigurata dalle potenze del male, contro le quali ormai dobbiamo lottare su un nuovo campo di battaglia, con le armi del discernimento, dell'amore e della preghiera.
Preghiera e solitudine
La comunione ha bisogno soprattutto della disciplina della preghiera. Qui la tradizione è unanime: “L’amore nasce dalla preghiera”, “l’amore è il frutto della preghiera”. La preghiera purifica il cuore dalle “passioni” e lo dilata agli spazi trinitari. La preghiera libera dall’indifferenza e dall’opacità e rende vulnerabili alla rivelazione dell’altro, all’altro come rivelazione.
La preghiera fonda la vera accoglienza, l’amore umile, che non è possesso ma rispetto che vivifica. La preghiera fa dell’uomo un “pacificatore dell’esistenza”. Niente è profano, ma solo ciò che è profanato. La preghiera permette di scoprire e di servire l’icona del volto, la fiamma delle cose...
Dobbiamo allora essere capaci allo stesso tempo di attenzione agli altri e a Dio, di servizio e di solitudine. Ogni uomo è invitato a quello che Pavel Evdokimov chiamava il “monachesimo interiore”, poiché il monaco è colui che in fondo a se stesso resta a tu per tu con Dio. Anticamente si sintetizzava la missione monastica così: “Dedicati a tutti, piangi con coloro che piangono, rallegrati con coloro che si rallegrano, ma in fondo a te stesso resta solo”: davanti a Dio, con Dio e in Dio. E, dato che Dio è amore e fonte d’amore, colui che per lui “si separa da tutti” si trova per la stessa ragione unito a tutti.
La preghiera ci apre allora alla disciplina della buona e indispensabile solitudine, la mia, ma anche quella dell’altro: è necessario che ognuno sia lasciato da solo. Noi non sappiamo lasciar soli gli amici, la moglie, i figli... perché siamo possessivi e vorremmo ricostruire intorno a noi il mondo dell’infanzia, di cui eravamo il centro.
Una solitudine non solo fisica. Anche se siamo soli, specialmente se siamo soli, siamo abitati, posseduti. Non siamo dei deserti, ma dei luoghi dove gli altri sono in noi e noi stessi siamo multipli.
Cosi non solo la solitudine è indispensabile alla preghiera, ma la preghiera è la vera solitudine. È necessario un apprendistato che implichi momenti di ritiro. Il santo finisce col portare in sé, in mezzo alla folla, un silenzio pieno, quello della vera solitudine. Allora nulla gli è più estraneo.
Un amore disinteressato
Tutto si riassume nello sguardo. Ad esempio quello della “Vergine della tenerezza”, l'icona della Madonna di Vladimir: una maternità tanto concreta, eppure trasfigurata, universale. Oggi si crede che la pietà sia umiliante, perché la si confonde con l’impietosirsi, mentre fondamentalmente è compassione, “sofferenza con”, accoglienza senza riserve, rifiuto di giudicare, amore disinteressato. Proprio dell’amore disinteressato oggi si ha forse maggior bisogno, in un’epoca in cui ogni amore è “sospetto”.
Se la sola espressione legittima dell’eros è la sessualità, come molti pensano, non c'è più fraternità, né maternità, né paternità, ma solo, al limite, l’incesto e l’omosessualità.
Un cristiano vede in ciò non l’avvenire di una umanità liberata, ma la decadenza dell’eros. Il pensiero ascetico preannuncia del resto quello di Freud: i vecchi monaci mettevano in guardia i loro discepoli contro le visite della propria madre perché non sappiamo, dicevano, quale relazione in realtà abbiamo con essa. Tuttavia, per questa tradizione, ciò è esistenza nella morte. Freud ha finito per comprenderlo: l’amore e la morte sono strettamente legati.
Ma, se Cristo ha vinto la morte, allora io non ho più bisogno di scappatoie. In lui, la morte non è più davanti a me, ma dietro di me, e posso tentare di vivere e di amare. Se il peccato, regressione più trasgressione, appesantisce e sfigura questo amore, esso resta pur sempre possibile e può partecipare umilmente all’amore liberatore che Dio ha per noi.
Se noi non riuscissimo a spezzare questa schiavitù per testimoniare qualcosa dell’amore disinteressato, tanto nelle nostre relazioni “alla pari” quanto in tutte le relazioni “verticali” simbolizzate dalla paternità, tutto si rinchiuderebbe, il mondo sarebbe chiuso su se stesso e ogni libertà sarebbe solo una schiavitù leggera.
Il pudore
Il pudore è indispensabile. Affermarsi come una presenza personale significa manifestarsi come volto e non come sesso. Il pudore non abolisce il mistero dei sessi, che affiora nel volto stesso e nella nobiltà del corpo modellato dall’abito. Questo deve esprimere. Ma vi è una gerarchia stabilita, in cui vincono le frontiere più “personalizzate” dell’essere - il volto e le mani -, mentre anche la giusta corrispondenza del corpo e dell’abito può rivelare, attraverso o contro le mode, una spontaneità personale.
Il pudore si estende a tutti i nostri rapporti con il mondo infraumano e si lega strettamente alla disciplina periodica del digiuno, che interrompe tra noi e il mondo la relazione della violenza e della consumazione. Pudore e digiuno facilitano la compassione, il rispetto, la venerazione senza i quali l’anima diventa opaca.
È bene prendere coscienza che incamminarsi su questo sentiero significa diventare vulnerabili a ogni dolore del mondo. Ogni uomo che esce dalla sicurezza del sonnambulismo viene ferito, prima o poi, dalla sofferenza del mondo. Ma poiché Dio si è fatto uomo ed ha preso su di sé questa sofferenza, per noi la via della vulnerabilità e della morte diventa risurrezione.
E noi possiamo pregare e agire per la salvezza universale: “Ecco, figlio mio, un comandamento che ti do: che nel tuo equilibrio la misericordia vinca sempre fino al momento in cui sentirai in te la misericordia che Dio prova per il mondo” (Isacco il Siro, Sentenza 48).