Dodici, come le dodici tribù di Israele: Gesù ed il nuovo popolo di Dio, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito l'articolo che don Andrea Lonardo ha scritto il 27/5/2008 per la rubrica In cammino verso Gesù (la rubrica pubblica ogni due settimane un breve articolo di approfondimento sul Gesù storico e la rilevanza del suo vangelo) del sito Romasette di Avvenire
Il Centro culturale Gli scritti (28/5/2008)
Una sciocca superstizione vuole che non ci si debba sedere a tavola in tredici, perché nell’ultima cena di Gesù con i suoi Dodici apostoli uno di essi, Giuda, fu il traditore. Invece Gesù volle esplicitamente che i Dodici stessero con Lui in quella santa notte.
Unanimemente gli scritti neotestamentari ci attestano l’esistenza dei Dodici e la loro peculiarità all’interno dei discepoli di Gesù. Li ricordano ripetutamente i sinottici, che ci testimoniano i nomi degli apostoli, san Paolo parla di loro come di un gruppo particolare fra i diversi testimoni della resurrezione, (1Cor 15, 15), l’Apocalisse fa riferimento ad essi per descrivere simbolicamente cos’è la Gerusalemme celeste che vince il male: le sue “mura poggiano su dodici basamenti sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello”. Essa è cioè la Chiesa, opera “dall’alto”, da Dio, ed, insieme, opera della missione apostolica (Ap 21, 14), fondata sulla loro predicazione.
A livello della ricerca storica, il duplice fatto del tradimento di Giuda, nonostante il quale si continua a parlare dei Dodici, e della successiva elezione di Mattia, per ripristinare quel preciso numero, offre un ulteriore motivo per attribuire con sicurezza la loro istituzione a Gesù stesso.
Ma perché proprio “dodici” e non sette o otto o dieci? Il prof.Romano Penna, grande studioso del Nuovo Testamento, sintetizza così i dati condivisi dalla moderna ricerca: “Poiché all’interno di Israele il numero 12 non può avere altro riferimento che alle Dodici tribù costitutive di quel popolo, il gesto di Gesù rivela una forte e originalissima intenzione: quella di rifondare l’identità della propria nazione, che è il partner di una specifica alleanza con Dio. Ciò rivela dunque l’autoconsapevolezza di operare in strettissima relazione con Dio stesso”[1].
Prima che la Scrittura racconti dei dodici figli di Giacobbe, i capostipiti delle tribù, Israele non esiste ancora come popolo. Con Abramo ed Isacco siamo di fronte ad una famiglia, non ancora a quel popolo che Dio aveva promesso. Con Giacobbe appare, nella narrazione veterotestamentaria, il “popolo di Dio”. Anche per questo, Giacobbe riceverà il nuovo nome di “Israele”.
I “Dodici” scelti da Gesù sono l’inizio del “nuovo popolo di Dio”. Nel chiamarli in maniera particolare egli ha voluto sottolineare questa svolta che si compiva nella storia della salvezza; il Cristo li ha legati indissolubilmente a sé ed alla sua opera.
Nei secoli si incontra ripetutamente la critica rivolta a cristiani di non essere stati all’altezza della loro chiamata, ma sempre era rimasto fermo il rapporto di Gesù con la prima generazione cristiana. Era chiaro che laddove i cristiani avessero tradito Gesù, avrebbero al contempo tradito anche gli apostoli! Dall’età moderna, invece, incontriamo autori che si sono fatti sostenitori della tesi che Gesù sia stato semplicemente un rabbino del suo tempo. Egli non avrebbe avuto alcuna delle intenzioni che i vangeli gli attribuiscono, ma lo stravolgimento della figura di Gesù, non sarebbe opera degli evangelisti, bensì degli stessi apostoli e della loro predicazione dai quali i vangeli dipendono.
In questa maniera la presunta rottura viene retrodatata alle origini del cristianesimo: sarebbero stati i “dodici” stessi i mistificatori di Gesù, coloro che avrebbero alterato il suo messaggio.
Ciò che questa tesi trascura è che, se questo fosse vero, bisognerebbe ammettere che gli Apostoli sono stati infinitamente migliori e più interessanti del loro maestro! La straordinaria bellezza del vangelo sarebbe da attribuire a loro e non a Gesù stesso: Pietro, Giovanni e gli altri sarebbero i veri giganti, mentre Gesù non sarebbe che un semplice rabbino, al pari di Shammai ed Hillel, suoi contemporanei.
Si pensi, solo per offrire un esempio, al fatto, sottolineato recentemente da Albert Vanhoye, che troviamo l’esplicitazione dell’amore, come chiave interpretativa della vita del Cristo, soprattutto in Paolo ed in Giovanni: “[Nella lettera ai Galati] la fede si fonda sull’affidabilità «del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me». [...] La chiave del mistero viene data [così]: l’iniziativa travolgente di Cristo è stata una manifestazione di amore. I vangeli sinottici non esplicitano mai questo aspetto. Paolo lo esplicita. Il quarto vangelo vi insiste molto”[2].
Ma cosa vuol dire questo? Che il comandamento dell’amore è una invenzione apostolica o che piuttosto essi hanno compreso in profondità l’esistenza storica e reale del Cristo? Gli studi del grande esegeta belga, recentemente elevato al cardinalato, mostrano senza ombra di dubbio come Paolo e Giovanni abbiano attinto alla vita stessa di Gesù e non possano essere assolutamente ritenuti gli inventori dell’“agape”, dell’amore del Cristo.
Benedetto XVI, nella sua Premessa al Gesù di Nazaret, sintetizza tutto questo domandando: “Non è più logico, anche dal punto di vista storico, che la grandezza si collochi all'inizio?”[3].
Proprio Gesù ha voluto quei Dodici. E la meraviglia di ciò che essi raccontano non proviene dalla loro bravura, bensì dal loro ascolto del maestro. È stato Gesù a scegliere e chiamare i suoi, mentre avveniva l’inverso nel rabbinato dell’epoca, dove erano i discepoli a scegliersi i maestri. Non solo, ma ben più profondamente, egli chiede loro una sequela senza condizioni. Neanche il dovere di seppellire i propri cari può essere anteposto al comando di camminare dietro di lui. Tutto deve essere lasciato per essere con lui.
Ma questo è solo Dio a poterlo chiedere. Emerge l’enormità della richiesta ed, insieme, il mistero dell’identità del Cristo. Anche l’esistenza dei Dodici manifesta specularmente la novità dell’avvenimento cristiano, come ha colto in profondità il rabbino Jacob Neusner (che il papa ha potuto finalmente incontrare personalmente dopo aver letto appassionatamente i suoi libri, nel suo recente viaggio in America) nel dialogo immaginario di un rabbino, contemporaneo di Gesù, che si interroga su di lui: “Che cosa ha tralasciato Gesù?”. “Nulla”. “Che cosa ha aggiunto allora?” “Se stesso”[4]. Di questo i Dodici sono i testimoni.
Per altri articoli e studi di Andrea Lonardo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici
Note
[1] R.Penna, Gesù di Nazaret. La sua storia, la nostra fede, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, p.35.
[2] Albert Vanhoye, La fede nella lettera di Paolo ai Galati, in Rivista Teologica di Lugano XII 1/2007 123-138, precisamente p.126.
[3] J.Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano, p.18.
[4] J.Neusner, A Rabbi talks with Jesus, Doubleday, New York, 1993, p.96, recentemente ristampato in italiano con il titolo Un rabbino parla con Gesù, Paoline, Torino, 2007.