Michail Novosëlov, fucilato settant’anni fa e la risposta deludente di Tolstoj, di Adriano Dell'Asta

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 03 /09 /2022 - 20:53 pm | Permalink | Homepage
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Ripresentiamo sul nostro sito l’articolo pubblicato dall’Osservatore Romano del 13 settembre 2008 con il titolo originale “La risposta deludente di Tolstoj. Settant'anni fa veniva fucilato Michail Novosëlov perseguitato nella Russia sovietica e canonizzato nel 2000”. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (14/9/2008)

 

Nella notte tra l'11 e il 12 luglio del 1922 un gruppo di agenti della Gpu si presenta a casa di Michail Novosëlov per eseguire un mandato di arresto a suo carico; l'accusa è quella di aver contribuito alla diffusione di un appello con il quale la Chiesa ortodossa russa mette in guardia i propri fedeli dal movimento collaborazionista della cosiddetta "Chiesa viva", un strumento sostenuto dal regime per distruggere la Chiesa. Gli agenti non trovano il ricercato che, da quel momento, per circa sei anni, riesce a mantenersi in clandestinità: un fenomeno non unico ma comunque eccezionale per l'Unione Sovietica di quegli anni, dove basta evocare il nome della polizia politica per destare il terrore e dove i credenti sono uno dei bersagli preferiti del nuovo regime.

Nel 1928 arriva l'arresto e, nel 1929, una prima condanna a tre anni di reclusione sotto l'accusa di attività antisovietica; come elemento particolarmente pericoloso, Michail Novosëlov li passa non in un lager ma in un carcere di isolamento. Allo scadere della pena, invece della liberazione arrivano altre due condanne, a otto e poi ancora a tre anni; il detenuto non le sconterà sino in fondo perché il 17 gennaio 1938 verrà condannato alla fucilazione. Le sue tracce, a questo punto, si perdono nel nulla, per diventare poi una luce inestinguibile con la canonizzazione, avvenuta nel 2000.

Quello che abbiamo appena riassunto è un pezzo della biografia di un credente russo, una biografia come ce ne sono tante nella storia del xx secolo: con lo stesso accanimento del potere, con la stessa resistenza dei credenti - che al regime sanno opporre, come normale, un coraggio e una solidarietà che hanno dell'incredibile - con la stessa incertezza non sulla fine, che è di regola il martirio, ma sui luoghi e sui tempi della fine stessa.

Anche se il suo destino fu per molti versi assai comune, Novosëlov non era un personaggio comune. Nel 1902 aveva iniziato la pubblicazione della cosiddetta "Biblioteca filosofico-religiosa", una collana di libri che, secondo le sue intenzioni, doveva contribuire a rispondere "dal punto di vista cristiano alle domande sollevate dalla vita": in una quindicina d'anni, all'alba della rivoluzione, era riuscito a pubblicare una cinquantina di volumi e due periodici. Per questa attività, e per l'animazione di diversi gruppi ecclesiali, nel 1912 era diventato membro ad honorem dell'Accademia teologica di Mosca e nel 1918 era stato invitato a partecipare al Concilio della Chiesa ortodossa russa.

Ma che Novosëlov non fosse un personaggio comune è cosa che risulta ancor più evidente se si considera che, prima di questa attività e di questi riconoscimenti ufficiali, non era stato affatto un comune e ubbidiente fedele della Chiesa ortodossa.

Nato nel 1864 in una famiglia con solide radici ecclesiali e un ottimo livello culturale, dopo aver ricevuto una brillante formazione umanistica ed essersi laureato in storia e filosofia all'università di Mosca, Novosëlov si era avvicinato alle idee di Tolstoj, sino a condividere non solo la sua generosa pratica di vita - con il trasferimento in campagna fra i contadini - ma anche le inaccettabili trasformazioni che il grande scrittore voleva imporre alla dottrina e all'esperienza cristiana. Questa infatuazione, tipica di molti giovani intellettuali russi alla fine del xix secolo, lo aveva portato ad avere qualche guaio con il regime zarista - un breve arresto tra il dicembre del 1887 e il febbraio del 1888 - ma soprattutto gli aveva fatto assumere tutto l'armamentario dell'ideologia tolstojana che, negando tra l'altro la realtà della resurrezione di Cristo, aveva indotto il giovane Novosëlov a negare la stessa immortalità personale.

Fortunatamente Novosëlov non era rimasto a lungo prigioniero di questa infatuazione; a liberarlo da essa aveva contribuito proprio ciò che ne costituiva l'essenza, il suo moralismo razionalista e astratto, rifiutato dai contadini (che respinsero i giovani tolstojani, come qualche anno prima avevano respinto i giovani populisti) e incapace di rispondere veramente alle domande della persona concreta e di accettarne davvero il mistero. Del resto, era stato proprio sulla questione della persona che Novosëlov non era mai riuscito ad accettare sino in fondo l'ideologia di Tolstoj.

Come racconterà diversi anni più tardi un altro protagonista di quell'esperienza: "Una volta - negli anni Ottanta, quando Novosëlov era ancora tolstojano - si conversava in gruppo con Tolstoj, e si passavano in rassegna i fondatori delle grandi religioni, come avveniva spesso nei circoli tolstojani: Budda, Confucio, Lao-tze, Socrate e così via. Qualcuno disse che sarebbe stato bello poterli conoscere da vivi, e chiese a Tolstoj chi avrebbe desiderato incontrare vivente. Tolstoj fece dei nomi ma, con grande meraviglia di Novosëlov, non menzionò Cristo. Lui allora gli chiese: "E non vorrebbe vedere Cristo, Lev Nikolaeviè?". Tolstoj gli rispose bruscamente, deciso: "No, assolutamente. Debbo confessare che non avrei nessuna voglia di incontrarlo. Era un tipo tutt'altro che piacevole". Queste parole suonarono così inattese e aspre, che tutti rimasero in silenzio, imbarazzati. Novosëlov non le dimenticò mai, perché lo avevano colpito mortalmente, nel profondo del cuore".

Conseguenza di questa negazione era infatti lo spalancarsi di fronte al giovane Novosëlov di un abisso di freddezza impersonale, con dottrine apparentemente ben costruite e di alta spiritualità, ma incapaci di lasciare spazio alla complessità della vita e alla sua sete di un senso e di una felicità che fossero veramente alla portata di tutti, senza per questo dover attendere la futura rivoluzione e senza pretendere dall'uomo virtù sovrumane accessibili solo a pochi eletti.

Fu sull'orlo di questo abisso che Novosëlov trovò nuovi maestri; come ricorderà lui stesso sarà qui decisivo, tra gli altri, l'incontro con Solov'ëv che "alla mia domanda: "Qual è la cosa più importante e necessaria per un uomo?", rispose: "Essere il più possibile assieme al Signore. E se possibile, essere sempre con Lui"".

Era l'incontro con un cristianesimo che, per non essere ridotto a istituzione burocratica - questa era la critica di Tolstoj alla Chiesa, che Novosëlov non avrebbe mai dimenticato - non era però nemmeno trasformato in un progetto morale e intellettualistico, ma sapeva tornare al suo cuore, a quella persona di Cristo - incontrabile nella Chiesa e la cui vita è comunicata attraverso i sacramenti - che invece Tolstoj non era mai stato capace di accogliere per la propria pretesa di produrre qualcosa di meglio.

Era da questa accoglienza che dipendeva la possibilità di restare fedeli o meno al cuore del cristianesimo, alla sua essenza e al suo metodo: "Come storicamente Cristo per adempiere la sua missione ha avuto bisogno di un corpo, così anche adesso per continuare la sua missione Egli ha bisogno di un corpo visibile e tangibile. Oggi il Corpo di Cristo è la sua Chiesa"; così avrebbe detto più tardi Novosëlov nelle sue Lettere agli amici, una raccolta di venti epistole scritte mentre era alla macchia, tra il 1922 e il 1927, per confortare gli amici e per comunicare a tutti quale fosse l'essenza della vita cristiana e su cosa si fondasse la possibilità di sopravvivere anche nelle condizioni tremende dei primi anni del potere sovietico, quando la persecuzione non conosceva tregua e quando neppure i più alti valori umani tradizionali bastavano più a sostenere l'esistenza.

In queste lettere - di cui la Fondazione Russia cristiana ha curato una antologia per la serie de "I libri dello spirito cristiano" della Bur (Michail Novosëlov, Lettere agli amici, Rizzoli, Milano 1996) - Novosëlov riscopriva la Chiesa, come organismo in cui ogni membro riceve la propria vita da una forza non fatta da mano umana; e grazie a questa riscoperta invitava quindi a superare la tentazione di ridurre la Chiesa stessa a un'organizzazione la cui forza e il cui funzionamento dipendono dalle virtù e dalle capacità dei suoi membri. "Nella concezione di razionalisti e mistici la comunità cristiana è un'organizzazione e nient'altro. I membri di questa organizzazione sono legati fra loro come i membri di qualunque organizzazione: dalla comunanza dello scopo, da convinzioni e certezze. L'annuncio cristiano invece ci indica una comunità di ben altro tipo, la comunità come organismo, la comunità come persona vivente di Cristo".

Il non aver capito l'essenza della Chiesa e la centralità della Persona di Cristo era stato l'errore comune dei progressisti (razionalisti tolstojani o altro) e dei conservatori (i mistici) prima della rivoluzione; e questo sarebbe stato il rischio dei credenti dopo la rivoluzione, quando, di fronte alla potenza del regime e di fronte a tanti tradimenti e debolezze, proprio questa incomprensione avrebbe impedito a molta gente di capire che in realtà "il cristiano non è salvato né dalla pietà né dalla moralità come tali, ma dalla grazia ricevuta per fede, che a sua volta genera in lui i frutti della pietà e della moralità".

Quello che aveva ridato speranza a Novosëlov, dopo le ubriacature del razionalismo tolstojano, e quello che lui voleva comunicare ai cristiani perseguitati, come estrema ragionevolezza della vita, era che il cristianesimo, "la concezione del mondo più ragionevole tra quelle che conosco", non è essenzialmente una dottrina e non dipende dalla condivisione di alcune idee, ma dal vivere tutti la stessa realtà: "Quando il razionalista dice: "io vivo", intende dire che si è legato a Cristo. Quando l'uomo di Chiesa dice: "io vivo", in questo modo vuol dire e dice: "io vivo, ma non sono più io che vivo, Cristo vive in me" (Lettera ai Galati, 2, 20)".

Ed è una comunione di vita così reale che, come ha mostrato il martirio di Novosëlov, il cristiano rivive nella propria carne la croce del suo Cristo, fino a riviverne anche la resurrezione e a trasmetterne l'esperienza a tutto il mondo.

(© L'Osservatore Romano - 13 settembre 2008)