1/ Islam e schiavismo: una storia dimenticata, di Gabriele Campagnano 2/ Corsari Barbareschi in Islanda: l’Incursione del 1627, di Gabriele Campagnano 3/ Schiavi Bianchi negli Stati Barbareschi (secoli XVI-XIX), da White Slavery in the Barbary States (1853) di Charles Sumner

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 19 /09 /2022 - 00:01 am | Permalink | Homepage
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1/ Islam e schiavismo: una storia dimenticata, di Gabriele Campagnano

Riprendiamo dal sito Zhistorica (https://zweilawyer.com/2012/02/13/islam-e-schiavismo-una-storia-dimenticata/ ) un articolo di Gabriele Campagnano, pubblicato il 13/2/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Storia dell’Islam e Impero ottomano. Cfr., in particolare

Il Centro culturale Gli scritti (18/9/2022)

N.B. de Gli scritti
A nostro avviso sarebbe meglio distinguere fra tratta degli schiavi sotto gli arabi e tratta degli schiavi sotto gli ottomani: talvolta Campagnano utilizza impropriamente il termine “arabi” per “musulmani” e, al posto di arabi, bisogna leggere “turchi” o “ottomani”. Alla invasione araba che si arrestò intorno all’anno 1000, fecero seguito, infatti, le invasioni turche con la creazione, nel tempo, dell’impero ottomano: i turchi, anch’essi musulmani, sottomisero al loro potere anche gli arabi, sebbene non presero mai schiavi dagli arabi, avendo entrambi la stessa religione. Come è noto, diversi abitanti del medio oriente e del nord Africa rimasero invece cristiani.

Il rapporto tra Islam e Schiavismo, cui numerosi storici avevano dedicato diversi volumi nei secoli scorsi, non ha riscosso grande interesse nelle ultime decadi.

Una storia dimenticata. Sovrastata dall’immagine da imbarcazioni ricolme di subsahariani che attraversano l’Atlantico per riversare il loro carico nelle piantagioni americane. Eppure parliamo di una storia molto più lunga, di un sistema che è andato avanti per più di mille anni (circa tredici secoli), sul quale la storiografia recente ha preferito indagare in modo superficiale pur essendoci una mole di informazioni incredibilmente vasta.

Quale che sia il motivo di questo improvviso scarso interesse per la questione – il senso di colpa per il commercio di schiavi operato dagli europei, la continua necessità di piegare la storia agli interessi politici, il perpetuarsi del mito del buon selvaggio ecc.- è necessario superarlo.

Il traffico di schiavi sahariani e sub-sahariani attraverso il Nilo era già piuttosto sviluppato in epoca romana. Una volta preso il loro posto in nord-africa, i musulmani lo migliorarono. L’uso delle piste del Sahara aumentò l’afflusso di schiavi anche dalle regioni dell’africa occidentale e, mano a mano che l’Islam estendeva i suoi confini, il limite dei territori “Dar El Islam” (i cui abitanti si erano sottomessi all’Islam) si spinse sempre più a sud. I territori al di fuori del “Dar el Islam”, detti “Dar el Harb”, erano, almeno in linea teorica, i soli dai quali i musulmani potessero prendere i loro schiavi.

Attorno al XII-XIII secolo, la zona del “Dar el Harb” era ormai coincidente con la “Bilad es Sudan”, ovvero la “Terra dei Neri”. Una fonte di schiavi quasi illimitata.

1. Schiavi Neri

I procacciatori di schiavi catturavano gli schiavi direttamente (specie le tribù nomadi), o tramite compravendite con i regni locali, come ad esempio quello del Ghana, l’Impero Gao o, in seguito, l’Impero del Mali. In questo caso, tutto quello che i musulmani dovevano fare era recarsi presso i vari mercati regionali (Gao, Aghordat, o altri locali) e acquistare i prigionieri catturati nelle guerre interne.

Oltre a questo, i regni vassalli venivano spesso costretti a pagare un tributo in schiavi. Il primo fu istituito nel 652 a carico del regno di Nubia, e prevedeva l’invio di 360 schiavi l’anno (un numero che probabilmente fu aumentato nel tempo), oltre a elefanti e altri animali selvatici. Il regno di Nubia continuò a pagare ininterrottamente per circa cinquecento anni.

Le Catture di Musa bin Nusair

Musa bin Nusair, uno dei più capaci generali arabi di tutti i tempi, ridusse in schiavitù 300.000 Berberi infedeli, di cui 30.000 divennero schiavi-soldato. Successivamente, durante la campagna che lo portò a disintegrare il regno Visigoto (711–15), Musa riuscì a riportare in nord-Africa 30.000 vergini gote.

Se, come nella maggior parte dei casi, l’acquisto veniva effettuato in territorio sub-sahariano, per gli schiavi iniziava una marcia di oltre 1.000 km a piedi, della durata di 40-60 giorni. Il traffico veniva gestito interamente dai Berberi o dalle già citate tribù arabe nomadi, che non avevano altra fonte di introito se non quella di scortare le carovane o depredarle. A causa della lunghezza del viaggio, delle condizioni atmosferiche terrificanti e della scarsità d’acqua e di cibo, la percentuale di schiavi morti durante il tragitto era enorme.

Mappa delle rotte sahariane del traffico di schiavi. 
Molte rimasero attive fino agli anni’30 del secolo scorso.

Henry Drummond, in Slavery in Africa (1889), dice:

Marciano tutto il giorno; di notte, quando si fermano per dormire, gli vengono distribuite poche manciate di sorgo. Questo è tutto ciò che mangiano. E il giorno dopo devono ricominciare la marcia.

In pratica, la razione giornaliera di cibo di uno schiavo era composta da poche manciate di sorgo grezzo. È una testimonianza importante, poiché per secoli e secoli la “dieta” degli schiavi doveva essere rimasta più o meno la stessa.

Alcuni studiosi, come Fischer (1975) e Baet (1967), hanno calcolato che circa il 50% degli schiavi non giungevano dai loro padroni, mentre altri parlano di 80%.

Sempre Henry Drummond ci fornisce un particolare raccapricciante:

Prima è stato giustamente detto che, se un viaggiatore dovesse perdere la strada che porta dall’Africa Equatoriale alle città dove gli schiavi vengono venduti, potrebbe ritrovarla facilmente grazie agli scheletri dei negri che la pavimentano.

Una vera e propria carneficina, specie se paragonata al 10% di morti complessive calcolato per i traffici europei lungo le rotte atlantiche. Un dato, quest’ultimo, molto attendibile, riportato nel 1785 da Thomas Clarkson’s nel libro Slavery and Commerce In the Human Species.

Riguardo allo schiavismo islamico, una fonte del XIX secolo dice:

La vendita di un singolo schiavo può costare la perdita di altre dieci vite – fra quelli che difendono i villaggi attaccati, la morte di donne e bambini per le epidemie e la morte dei figli, dei vecchi, dei malati che non riescono a tenere il passo dei loro guardiani, muoiono di stenti o finiscono uccisi a causa degli attacchi di tribù ostili

Le testimonianze di Cameron e Burton

A questa, si aggiungono le testimonianze del capitano V.L. Cameron e del nostro conoscente Richard Burton, che nei suoi scritti parla di 1000-2000 morti complessivi per catturare poco più di 50 donne. Anche Drummond è su cifre simili, visto che parla di 30.000 morti per 5.000 schiavi. Keltie, in The Partition of Africa (1920) reputa che per ogni schiavo che raggiungeva il mercato ne morivano almeno 6, mentre Livingstone parla di 10.

Alle morti per fame, fatica e soprusi devono aggiungersi quelle dovute ad una pratica particolarmente amata dai padroni musulmani: la castrazione.

Nel mondo islamico infatti ci fu sempre un’alta richiesta di eunuchi; da un lato erano considerati più adatti a svolgere un gran numero di mansioni, dalla guardia dell’harem alle funzioni amministrative, dall’altro, gli schiavi neri avevano nomea di possedere un appetito sessuale inarrestabile. Purtroppo, l’operazione era molto rischiosa. All’asportazione di pene e scroto (su bambini fra i 7 e i 12 anni) sopravviveva solo il 10% degli operati, anche perché il normale processo di cauterizzazione non poteva avvenire, visto che avrebbe automaticamente ostruito l’uretra. La percentuale del 10% sembra essere supportata da un dato riportato da Jan Hogendorn in The Hideous Trade. Economic Aspects of the ‘Manufacture’ and Sale of Eunuchs“:

I mercanti Turchi erano disposti a pagare 250-300 dollari per ciascun eunuco in Borno (nord-est dell’attuale Nigeria) in un periodo in cui il prezzo locale per un giovane schiavo non sembra andasse oltre i 20 dollari…

I più fortunati erano quelli destinati a servire come schiavi-soldati (furono centinaia di migliaia, forse milioni, nel corso dei secoli), che formavano una sorta di aristocrazia all’interno della massa degli schiavi. 

Il “razzismo” (perdonatemi l’uso altamente improprio della parola) verso i neri, ancora oggi più vivo nei paesi del nord-africa che da noi, era completo presso gli Arabi. Ibn Khaldun, uno dei massimi pensatori della storia islamica, scrisse:

Le nazioni dei Negri sono sempre adatte ad essere ridotte in schiavitù, perché le loro capacità sono abbastanza simili a quella degli animali stupidi.

Affermazione che fa il paio con un’altra considerazione: in arabo, la parola “Abd” vuol dire “Schiavo” e il plurale “Abeed” viene utilizzato per indicare i Neri.

Il flusso di schiavi verso il nord Africa aumentò ulteriormente alla fine del XVI secolo, quando l’eunuco Judar Pasha (uno spagnolo, probabilmente ebreo, catturato durante un raid e castrato) conquistò l’Impero Songhay. Nello stesso periodo, il traffico atlantico di schiavi si stava organizzando al meglio, ma non superò i 10 milioni di schiavi circa dal XVI al XIX secolo.

Dal VII al XX secolo, gli arabi presero solo dall’Africa 15-18 milioni di schiavi. Se contiamo un 80% di perdite lungo il tragitto, arriviamo ad una cifra vicina ai 75 milioni complessivi, cui vanno aggiunti milioni di uomini massacrati durante le razzie. Per quanto possa sembrare assurdo, una cifra superiore ai 100-120 milioni di persone in dodici-tredici secoli non è affatto esagerata.

A questo punto, molti di voi crederanno che l’avvento degli europei abbia diminuito i flussi sahariani, mentre in realtà gli arabi furono forti sostenitori anche dello schiavismo atlantico. Gli europei infatti non avevano grande esperienza nel procacciarsi schiavi, quindi si rivolsero a chi controllava tutti i traffici africani, ovvero gli arabi. La richiesta di schiavi si duplicò, e le attività dei cacciatori di uomini divennero più intense, andando sempre più addentro al continente africano. In sostanza, gli europei si recavano presso i mercati della costa orientale, o quelli più interni, e acquistavano gli schiavi presso i mercanti musulmani (80%) o presso i mercanti africani (20%, parliamo sempre di uomini catturati in lotte interne).

Altra bella mappa dei traffici trans-sahariani

D’altronde, gli arabi gestivano il commercio di schiavi anche verso i paesi asiatici (Cina compresa), proprio per la posizione strategica dei loro territori, a metà strada fra europa, africa e asia.

Le squadre di cacciatori di schiavi erano formate da trenta-quaranta persone bene armate, che potevano avere ragione di centinaia di indigeni nudi et ululanti. Un tipico raid ci viene raccontato sempre da Drummond:

Le genti con le lunghe vesti bianche e con il turbante (gli Arabi) erano state lì con il loro capo, chiamato Tippu Tib. All’inizio era giunto per commerciare, poi aveva iniziato a rubare e a portare via le donne. Chiunque si opponeva veniva fatto a pezzi o abbattuto con le armi da fuoco, e la maggior parte della popolazione fuggì quindi nella foresta. Gli Arabi rimasero lì in forze fino a che rimase qualche chance di cacciare e catturare i fuggitivi. Tutto ciò che non potevano usare lo distrussero o lo diedero alle fiamme – in breve, il villaggio fu raso al suolo. Poi gli Arabi andarono via. I fuggitivi ritornarono a ciò che rimaneva delle loro case e provarono a ricostruirle e rimettere in sesto le coltivazioni. Dopo tre mesi, le orde di Tippu Tib apparvero di nuovo, e si verificarono le stesse scene. Dopo altri tre mesi, ci fu un altro attacco. Tutto il paese dei Baneki fu afflitto dalla carestia e dalle peggiori miserie. In Africa, i risultati della carestia erano il più delle volte terribili epidemie, in particolar modo di vaiolo. Mi è stato detto che alcuni sono riusciti a fuggire verso ovest, ma solo un numero insignificante rispetto alle migliaia – potrei dire milioni – che trovai qui nel corso della mia prima visita

Rallentare la carovana o lamentarsi poteva portare a conseguenze molto spiacevoli:

Dopo uno o due giorni la fatica, le sofferenze e le privazioni ne avevano indeboliti moltissimi. Le donne e gli anziani sono i primi a fermarsi. Quindi, per terrorizzare questa disgraziata massa di esseri umani, i loro guardiani, armati di bastoni per risparmiare polvere da sparo, si avvicinano ai più esausti e gli assestano un violentissimo colpo al collo. Le sfortunate vittime emettono un gemito e cadono in preda alle convulsioni della morte.

Insomma, in 1300 anni era cambiato poco. D’altronde, fu proprio Maometto a dare vita allo schiavismo musulmano, quando massacrò gli uomini della tribù ebraica dei Banu Quraydhah e ridusse in schiavitù circa 800 donne e bambini. Egli stesso possedeva un buon numero di schiavi e concubine.

Carovana di schiavi e padroni musulmani del XIX secolo

2. Schiavi Bianchi

Nella storia dimenticata c’è una storia dimenticata, quella degli schiavi bianchi. Quando ne parlo, nella maggior parte dei casi il mio interlocutore sbuffa e nega una verità storica inoppugnabile. È un atteggiamento diffuso, anche in ambito accademico, e supportato dalla forza del politicamente corretto.

L’Europa del sud e quella orientale divennero un importante serbatoio di schiavi bianchi sin dall’VIII secolo. Ho già parlato delle 30.000 ragazze trascinate in africa dopo la distruzione della nobiltà visigota di Spagna, ma si tratta solo di una frazione del traffico complessivo attivato nei primi secoli dell’islam.

Quanto alle concubine (in sostanza si trattava di ragazze rapite, buttate in un harem e stuprate a piacimento), sappiamo che gli harem delle personalità più eminenti del mondo arabo potevano raggiungere delle dimensioni enormi. L’harem of Abdal Rahman III (912 – 961) era composto da 6.000 ragazze, di cui la maggior parte europee; quello dei Fatimidi presso il Cairo circa 12.000.

A queste, come ho già accennato, si aggiungevano schiere di eunuchi. All’inizio del X secolo, il Califfo di Baghdad possedeva 11.000 eunuchi, di cui 7.000 neri e 4.000 bianchi.

I cittadini bizantini non facevano dunque una fine diversa da quella dei poveri africani. Sappiamo che il Califfo al-Mutasim lanciò nell’838 una campagna contro la città – oggi in Turchia - di Amorium, facendo talmente tanti schiavi da essere costretto a venderli a lotti di 5 o 10 per sbrigare velocemente le operazioni.

J.W. Brodman , in Ransoming Captives in Crusader Spain: The Order of Merced on the Christian-Islamic Frontier (1986), dice:

Nell’attacco a Tessalonica del 903, i capi Arabi si spartirono o vendettero come schiavi 22.000 Cristiani. Quando il Sultano Al Arsalan devastò la Georgia e l’Armenia nel 1064, ci fu un massacro difficilmente quantificabile e tutti i sopravvissuti furono ridotti in schiavitù. Il Califfo Almoade Yaqub al-Mansur [il mecenate di Averroè] colpì Lisbona nel 1189, schiavizzando 3.000 donne e bambini. Il suo governatore a Cordoba attaccò Silves nel 1191, facendo 3.000 schiavi Cristiani.

Più o meno nello stesso periodo, il sultano Mahmud iniziò una serie di massicci attacchi contro i territori indiani. In tre spedizioni, dal 1002 al 1015, rifornì i mercati orientali (specie quello di Ghazni) con oltre 800.000 schiavi. Mahmud è anche famoso per la distruzione sistematica dei templi indu e buddisti che trovava sulla sua strada e per il massacro indiscriminato di qualsiasi popolazione gli si opponesse. 

Sappiamo che anche i Vichinghi, vista l’alta richiesta, da parte degli arabi, di donne europee, iniziarono a lucrare con un traffico di schiavi parallelo a quello sahariano e orientale, seguendo delle rotte analoghe a quelle che, secoli più tardi, utilizzeranno i pirati berberi.

Donna europea ispezionata da un cliente

I musulmani utilizzavano molto gli schiavi di origine slava, che chiamavano “Saqalib”. Una delle vie predilette per rifornirsi di questo prezioso bene era quella che passava dai Tartari di Crimea, convertitisi all’islam nel XIII secolo. I cacciatori di schiavi Tartari continuarono con le loro incursioni devastanti verso la Polonia e la Russia per circa trecento anni, dal 1450 circa alla fine del XVIII secolo. Durante questo periodo, 3.000.000 di europei furono costretti ad una marcia analoga a quella cui erano costretti i sub-sahariani.

In Muscovy and the Black Sea Slave Trade, H.J. Fischer dice:

…the first ordeal [of the captive] was the long march to the Crimea. Often in chains and always on foot, many of the captives died en route. Since on many occasions the Tatar raiding party feared reprisals or, in the seventeenth century, attempts by Cossack bands to free the captives, the marches were hurried. Ill or wounded captives were usually killed rather than be allowed to slow the procession. Heberstein wrote… ‘the old and infirm men who will not fetch much as a sale, are given up to the Tatar youths either to be stoned, or thrown into the sea, or to be killed by any sort of death they might please.’ An Ottoman traveler in the mid—sixteenth century who witnessed one such march of captives from Galicia marveled that any would reach their destination — the slave markets of Kefe. He complained that their treatment was so bad that the mortality rate would unnecessarily drive their price up beyond the reach of potential buyers such as himself. A Polish proverb stated: ‘Oh how much better to lie on one’s bier, than to be a captive on the way to Tartary’

La situazione non era differente nei balcani, dove gli Ottomani razziarono persone e beni per secoli. Il resoconto più accurato ce lo fornisce Alexandrescu-Dersca Bulgaru in Le role des escalves en Romanie turque au XVe siecle, (1987):

Nelle cronache contemporanee Turche, Bizantine e Latine, c’è l’unanime riconoscimento che, durante le campagne condotte per unificare Grecia, Romania latina e Balcani slavi sotto lo stendardo dell’Islam, così come durante le razzie Ottomane nei territori Cristiani, gli Ottomani ridussero in schiavitù masse di abitanti.

Il cronista Ottomano Ašikpašazade riporta che durante la spedizione di Ali pasha Evrenosoghlu in Ungaria (1437), e anche nel viaggio di ritorno della campagna di Murad II contro Belgrado (1438), il numero di prigionieri superava quello dei combattenti. Il cronista Bizantino Ducas dice che gli abitanti di Smederevo, che fu occupata dagli Ottomani, vennero tutti condotti via in catene. La stessa cosa accadde quanto di Turchi di Menteše arrivarono a Rodi e Cos e nel corso della spedizione della flotta Ottomana a Enos e Lesbo. Ducas cita anche dei numeri: 70.000 abitanti ridotti in schiavitù durante la campagna di Mehmed II in Morea (1460). Il francescano Italiano Bartolomeo di Giano (Giano dell’Umbria) parla di 60,000- 70,000 schiavi catturati nel corso di due spedizioni degli akinðis in Transylvania (1438) e di circa 300,000-600,000 schiavi ungheresi.

Se questi dati sembrano esagerati, altri sembrano più accurati: 7,000 abitanti ridotti in schiavitù dopo l’assedio di Tessalonika (1430), secondo John Anagnostes, e 10.000 abitanti portati via durante l’assedio di Mytilene (1462), secondo il Metropolitano di Lesbos, Leonardo di Chios. Allo stato attuale delle ricerche e dei documenti disponibili, non possiamo calcolare su quale scala gli schiavi siano stati introdotti nella Romania Turca con questo metodo. Secondo Bartholomeo di Giano, parliamo di circa 400.000 schiavi catturati fra 1437 to 1443. Anche accettando un certo grado di esagerazione, dobbiamo ammettere che gli schiavi ebbero un ruolo demografico importante nell’espansione Ottomana del XV secolo.

Possiamo stimare che, dal 650 al 1500 circa, gli Arabi abbiano ridotto in schiavitù un numero di “bianchi” (latini, goti, slavi) superiore ai 5 milioni.

Proprio all’inizio del XVI secolo si sviluppò una nuova minaccia per l’Europa, quella rappresentata dai Corsari Barbareschi.

Le loro continue razzie, spesso contrastate dai Cavalieri di Malta, ebbero come risultato la schiavitù di oltre 1 milione di europei nel periodo compreso fra il 1530 e il 1780. Molto interessati alle donne bianche, i Corsari Barbareschi si spinsero fino alla Groenlandia, ma una delle loro mete preferite rimase l’Irlanda che, secondo alcune fonti locali, fu praticamente decimata.

Nel 1544, l’Isola di Ischia al largo di Napoli fu razziata e 4.000 abitanti furono ridotti in schiavitù, mentre 9,000 furono presi a Lipari, al largo della Sicilia. Turgut Reis, il famoso pirata Turco, saccheggiò l’insediamento costiero di Granada (Spagna) nel 1663 portò via 4.000 schiavi.

L’attività dei Corsari Barbareschi fu così intensa da costringere i neonati Stati Uniti a pagare un tributo annuo di 60.000 dollari a partire dal 1784. Ovviamente, gli americani si liberarono presto di questo peso portando la guerra in casa dei Corsari. Alla fine della Seconda Guerra Barbaresca, gli americani si erano garantiti pieni diritti di navigazione.

Il colonialismo europeo in Africa portò alla fine dello schiavismo islamico (le conquiste francesi in Algeria furono dettate, in parte, dalla necessità di rendere sicura la navigazione mediterranea) nella parte nord-occidentale del continente, mentre la maggior parte dei territori orientali e l’Arabia si rifiutarono di cedere alle richieste di abolizione dello schiavismo nate in USA e in Europa.

Ancora nel 1890, nel Califfato di Sokoto si contavano 2 milioni di schiavi. All’arrivo in Etiopia, i nostri nonni trovarono 2 milioni di schiavi su 10 milioni di abitanti.

Secondo diversi studi, a tutt’oggi in Africa esistono centinaia di migliaia di schiavi. D’altronde, l’Arabia Saudita ha abolito la schiavitù solo nel 1962, la Mauritania nel 1980.

Alla luce di quanto detto, potrete ben comprendere il motivo per cui trovo del tutto scriteriata l’azione compiuta da tanti neri negli anni’60-’70, che per abbandonare il loro nome da schiavi si sono andati a prendere nomi arabi, ovvero i nomi dei loro veri padroni.

È l’ennesima dimostrazione che la storia è stata e sarà sempre la pietra angolare del concetto di cultura.

Bibliografia

Thomas Clarkson, Slavery and Commerce In the Human Species (1785);

Henry Drummond, Slavery in Africa (1889);

Keltie, The Partition of Africa (1920);

Fisher, C. B. and Fisher, H. J, Slavery and Muslim Society in Africa (1970);

Alan W Fisher, Muscovy and the Black Sea Slave Trade, in Canadian-American Slavic Studies, VI, 4:575-594 (1972);

Fisher, H. J., Central Sahara and the Sudan: the contribution of slavery. In The Cambridge History of Africa, Vol. 4, pp. 97–105 (1975);

Stephen Clissold, The Barbary Slaves (1977);

J.W. Brodman, Ransoming Captives in Crusader Spain: The Order of Merced on the Christian-Islamic Frontier (1986);

Alexandrescu-Dersca Bulgaru, Le role des escalves en Romanie turque au XVe siecle (1987);

Hogendorn, Jan, The Hideous Trade. Economic Aspects of the ‘manufacture’ and Sale of Eunuchs, in Paideuma 45 (1999): 137–160;

2/ Corsari Barbareschi in Islanda: l’Incursione del 1627, di Gabriele Campagnano

Riprendiamo dal sito Zhistorica (https://zweilawyer.com/2016/11/21/corsari-barbareschi-in-islanda-lincursione-del-1627/) un articolo di Gabriele Campagnano, pubblicato il 21/11/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. 

Per approfondimenti, cfr. le sezioni Storia dell’Islam e Impero ottomano. Cfr., in particolare

Il Centro culturale Gli scritti (18/9/2022)

Il porto corsaro di Salè a inizio XVII secolo. 
La “Repubblica di Salè”, gestita dai corsari,
ebbe una vita breve (1627-1668) ma intensa.
Era nell’isola oggi nota come Lundy.

Nel 1627, un gruppo di Corsari Barbareschi portò a termine una devastante incursione in territorio islandese

In quel periodo, l’Islanda contava circa 50.000 abitanti. Le navi nordafricane tornarono in patria con oltre 400 schiavi.

Dopo aver passato dieci anni al servizio di padroni arabi, berberi e turchi, 27 islandesi riuscirono a tornare a casa. Qui sotto troverete porzioni della narrazione fatta da uno di loro a tre anni dalla sua riduzione in catene. La cattura, il viaggio e la schiavitù attraverso gli occhi di chi la stava sperimentando in prima persona.

L’Incursione del 1627 fu probabilmente organizzata da Murat Reis il Giovane, al secolo Jan Janszoon van Haarlem. Jan era un corsaro olandese cui era stato affidato l’incarico di attaccare le navi spagnole durante la Guerra degli Ottanta Anni. La sua idea era però quella di lavorare in modo autonomo, arrembando navi provenienti da ogni paese (facendosi passare ora per spagnolo, ora per olandese o anche per turco). Il destino volle che, mentre batteva le coste delle Canarie (1618), fosse proprio un bastimento turco a catturarlo assieme al suo equipaggio. Alcuni narrano che Jan si convertì all’Islam di sua sponte, altri che fu costretto, ma il punto fondamentale rimane quello che Murat Reis divenne un corsaro di tutto rispetto.

In quel periodo, Algeri viveva prevalentemente di pirateria (che rimase, assieme al commercio di schiavi, la prima fonte di guadagno della città fino all’arrivo dei Francesi) e contava parecchi avventurieri olandesi (convertiti all’islam) al comando di imbarcazioni corsare, fra cui il comandante e il primo ufficiale dell’imbarcazione su cui serviva Murat Reis. Ben presto però, Algeri concluse diversi trattati con le potenze europee, perdendo la sua posizione privilegiata per il traffico di schiavi bianchi e merci rubate. Murat passò quindi a Salè, una vera e propria capitale corsara e, nel 1627, prese possesso per ben 5 anni dell’isola inglese (costa occidentale) di Lundy, che utilizzò come base per le sue scorrerie nei paesi nordici. Fu proprio un prigioniero danese a rivelargli la rotta per l’Islanda.

Lettera scritta da Guttormur Hallsson in terra barbaresca e arrivata in Islanda nell’anno 1631

Vorrei farvi capire, in poche righe, come ce la siamo cavata io e i miei concittadini fino ad oggi.

Come ben sapete, sono stato catturato e strappato dalla mia terra il 6 luglio 1627. I pirati turchi radunarono tutte le persone catturate e fecero rotta verso sud, in direzione delle Isole Westman (Vestmannaeyjar), dove si avventarono sugli abitanti come lupi affamati di sangue su una carogna.

Bruciarono gli edifici, torturarono e uccisero molte persone e imbarcarono tutti quelli avevano catturato come crudeli segugi da caccia. Ma di sicuro conoscerete bene tutti questi fatti, che oggi immagino siano di dominio pubblico in tutta l’Islanda.

I Pirati Turchi ripartirono dalle Westman Islands, il 20 luglio. Sia l’Islanda che queste ultime sparirono dietro di noi.

In tutto c’erano tre navi, con a bordo un totale di 400 islandesi. Seguimmo i venti notte e giorno per tre settimane, finché non arrivammo in questa terra straniera. Era il 12 agosto. Il nome di questa terra è Arabia. Quello della zona in cui ci portarono è Barbaria (costa barbaresca). La città dove sono in questo momento è chiamata Arigiel o Arsiel (Algeri).

Durante il viaggio, soffrimmo momenti miserabili e disgraziati. Noi Islandesi eravamo sballottati da un posto all’altro, e dovevamo stare sdraiati quasi l’uno sull’altro nella stiva. La nave su cui ero imbarcato io trasportava circa cento persone, giovani e vecchi. Le grida e i lamenti di quelle povere anime vi avrebbero stupito. Sulla nave morirono due donne: la moglie di Rafn e una donna di Gautavík.

I Pirati gettarono in acqua, ancora viva, una donna anziana di Búlandsness. Altri due uomini morirono all’arrivo in Barbaria. E anche il Reverendo Jon e Katrìn, che erano stati catturati con me, morirono. Di tutti gli altri di cui sono a conoscenza (eccezion fatta per Jón Egilsson e Jón il falegname) solo pochi di quelli catturati nella parte orientale dell’Islanda sono già morti. Ma Dio solo sa quanto hanno sofferto.

Dopo il nostro arrivo ad Algeri, passammo una settimana imprigionati lì. Una grande folla veniva ad osservarci, perché avevamo delle caratteristiche fisiche molto rare per loro. Molte delle donne pagane (ossia islamiche), sia bianche che nere, avevano pietà di noi e scuotevano la testa piangendo. Qualcuna di loro diede monete o del pane ai bambini. Poco dopo, fummo portati a gruppi al mercato degli schiavi, per essere venduti come pecore.

Il primo a scegliere fu il re. In base alla tradizione, egli aveva diritto a 1/8 del bottino. In seguito, i prigionieri rimanenti furono portati al mercato dove si vendevano gli schiavi Cristiani.

Nessuno voleva comprarci. Pensavano fossimo gente stupida, debole e ignorante. Inoltre, non avevamo le abilità richieste per il duro lavoro richiesto in queste terre. Sapevano anche, ed era la verità, che dalla nostra umile isola non avrebbero ricevuto alcun pagamento in argento per il nostro riscatto, quindi nessuno si faceva il problema di comprarci. Alla fine capimmo che ormai eravamo destinati a vivere qui, come schiavi, fino alla morte.

Mercato degli Schiavi ad Algeri
in un'opera moderna

Alla fine riuscirono a venderci, separandoci così gli uni dagli altri, provocando pianti di dispiacere e urla di dolore. Nessuno di noi poteva più sapere cosa stesse accadendo agli altri. Solo con il trascorrere del tempo le persone vennero a conoscenza di ciò che era accaduto e dove si trovavano gli altri.

C’è un’enorme differenza fra i diversi padroni. Alcuni prigionieri hanno padroni buoni e gentili, ma alcuni sfortunati si trovano a servire tiranni con il cuore di pietra, selvaggi e crudeli, che li trattano sempre malissimo e li costringono al lavoro e alla fatica con abiti miseri e poco cibo; li tengono inoltre in catene dalla mattina alla sera.

Molti hanno dovuto sopportare percosse ingiuste. Solo Dio in Cielo sa cosa abbiamo dovuto soffrire noi Cristiani, in questo terribile luogo, per mano di questi crudeli criminali. Ora non dirò più nulla in proposito. Nostro Signore conosce la malvagità che trasuda da questa città. Non c’è nulla qui, a parte orrore e paura, lamenti e liti, morti e omicidi, superbia e arroganza e possessione demoniaca, giorno dopo giorno. Posso davvero affermare che qui noi viviamo dei tormenti terreni, ma che Dio, nella sua infinita grazia, ci aiuta ad andare avanti.

Il mio padrone oggi è un Turco piuttosto anziano, ma sua moglie è giovanissima e hanno quattro figli piccoli. Sono sempre stati gentili con me, specialmente la moglie, e non mi hanno mai insultato o colpito. Quando il padrone mi rimprovera urlando – e i Turchi si arrabbiano con estrema facilità – la sua rabbia scende velocemente grazie agli interventi pacati della moglie. Lode a Dio! Egli si è dimostrato clemente nei miei confronti, supportandomi quotidianamente in questa terra straniera.

Molti uomini dicono di aver sofferto qui, ma forse per le donne la sofferenza è ancora maggiore, perché questi diavoli spingono le donne e le forzano a rinunciare al loro Signore e Creatore. Ma Dio ha supportato molte donne in questa battaglia gloriosa, e queste sono riuscite a preservare la loro fede fino ad oggi, cosa per cui dobbiamo ringraziare Dio.

Le donne costano più degli uomini, e più sono giovani, più sale il loro prezzo. Il mio padrone mi ha pagato 60 dalers; altri costano 10, alcuni 200, altri 400 o 150 o 40 ecc. Molti dei Cristiani provenienti dagli altri paesi costano fra i 50 e i 70 dalers (moneta svedese e norvegese, da thaler, la moneta d’argento introdotta nel Regno di Boemia nel 1518 e divenuta di grande diffusione in tutta Europa. La parola dollar deriva proprio da thaler).

Molti Cristiani prigionieri hanno ottenuto la libertà grazie al riscatto pagato da amici o parenti. I soldi necessari passano attraverso le navi mercantili che arrivano qui dall’Italia, perché a queste è permesso navigare e commerciare qui e i Corsari non le attaccano.

Ma tutte le altre imbarcazioni che riescono a trovare, le prendono. Da quando sono qui, ossia due anni e mezzo, i Corsari hanno catturato più di 120 navi cariche di beni e persone (Tedesche, Inglesi, Olandesi, Francesi, Spagnole) e infatti hanno a disposizione un enorme numero di barche e schiavi. E quanto più guadagnano con la pirateria, più diventano più feroci e affamati.

I Turchi pensano che schiavizzare i Cristiani, rubare, uccidere, distruggere e indebolire la Cristianità siano parte del loro destino, un destino nobile ed eccelso.

Ci chiamano “diavoli” o “cani Cristiani”. Miei cari amici, è davvero dura qui! Sopportiamo un enorme peso e un grave dolore. I Turchi sono maledetti e senza Dio ogni giorno. Lo sono nel loro comportamento, nella loro arroganza altezzosa e fastidiosa. I capi Turchi pensano di essere le mani di Allah, e che nessun uomo sulla terra possa valere abbastanza per loro da togliersi il cappello al suo passaggio o esprimere riverenza nei suoi confronti.

Nelle loro moschee sono molto sfacciati. Se un Cristiano entra in una moschea, egli viene immediatamente preso e bruciato vivo. Se un Cristiano parla a un Turco, viene subito arrestato, legato a un cavallo e portato al luogo dell’esecuzione, dove viene bruciato o messo sul cavalletto. Da quando sono arrivato qui, molti Cristiani sono stati torturati e giustiziati in modo orribile.

Ci sono persone di ogni nazione qui nella Barbaria. Innanzitutto i Turchi, poi i Mori del Nord Africa e i Neri, ognuno dei quali ha una propria lingua. Poi ci sono gli Ebrei e quelli che hanno abbandonato il Cristianesimo per l’Islam. Gli schiavi Cristiani provengono da paesi diversi, in particolare ce ne sono a centinaia arrivati da Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, Olanda, Danimarca, Italia, Grecia e India, oltre a quelli catturati in paesi più piccoli, isole e luoghi remoti. Si parlano talmente tante lingue differenti che non saprei da quale iniziare.

Gli Islandesi catturati nella parte orientale dell’isola furono messi in vendita, dopo aver separato gli uomini dalle donne, per primi. Le aste andarono avanti fino al 28 Agosto, giorno in cui quasi tutti gli Islandesi orientali erano stati venduti.

Subito dopo, furono condotti al mercato degli schiavi gli Isolani delle Westman. Il mercato era un quadrato fatto di pietre circondato da posti a sedere. Il terreno era lastricato di pietre che sembravano scintillanti. Erano così perché venivano pulite ogni giorno, così come le case, e talvolta anche tre.

Questo mercato era nei pressi del palazzo dove risiedeva il Re locale, in modo che questi potesse raggiungerlo nel più breve tempo possibile. Alcuni prigionieri che sono qui da molto tempo (quelli rimasti Cristiani), mi hanno infatti raccontato che le leggi del luogo sulla divisione dei prigionieri sono le seguenti.

Innanzitutto, il comandante del vascello sceglieva due prigionieri per sé stesso. Poi il Re (se possiamo definirlo così) prendeva 1/8 degli uomini, 1/8 delle donne e 1/8 dei bambini rapiti durante l’incursione. Solo successivamente, gli schiavi rimasti venivano divisi in due gruppi, uno per i proprietari della nave e gli altri per i pirati (coloro che avevano portato a termine la razzia).

Noi, poveri Isolani delle Westman, fummo condotti al mercato degli schiavi in due gruppi da trenta. I Turchi controllavano il capo e la coda dei gruppi e contavano le teste dopo ogni angolo, perché gli abitanti della città non si facevano problemi a rubare gli schiavi quando ne avevano la possibilità.

Arrivati al mercato, ci sistemarono in circolo e ispezionarono le mani e il viso di ciascuno di noi. Poi il Re scelse da questo gruppo quelli che voleva per sé (1/8 del totale, come abbiamo già detto). La sua prima scelta fra i bambini fu il mio povero figlio undicenne, che non dimenticherò mai finché vivo anche per la grande profondità del suo intelletto. Quando me lo strapparono dalle mani, gli chiesi, in nome di Dio, di non rinnegare la sua fede e non dimenticare gli insegnamenti cristiani. Mi rispose, con grande dispiacere: “Non lo farò, padre mio! Possono usare il mio corpo come vogliono, ma terrò la mia anima fedele al mio buon Dio.”

Gli altri Islandesi furono spostati da un posto all’altro, e uno dei Turchi condusse due gruppi di dieci persone intorno a una colonna di pietra, dove urlò qualcosa che non riuscii a comprendere. Portarono mia moglie e me, assieme ai nostri due figli più piccoli (1 anno il primo, solo 1 mese il secondo), nel palazzo del Re, e lì rimanemmo seduti, con i nostri figli in braccio, per oltre due ore. Passammo la notte seguente nelle prigioni del Re. Da quel momento, non ho più saputo nulla del destino occorso agli altri Islandesi. Ah! vorrei tranquillizzare e incoraggiare le persone con le mie parole, ma non ce la faccio.

E anche che io parli o meno di queste cose, la mia sofferenza rimane la stessa.

Nel secolo precedente a quello dell’Incursione, l’Islanda aveva passato un periodo molto movimentato. Cristiano III, Re di Danimarca dal 1535, introdusse il Protestantesimo nel suo regno, che comprendeva anche l’Islanda. A parte alcune infiltrazioni però, la dottrina di Lutero fu resa obbligatoria anche nell’isola solo nel 1538.

I due vescovi cattolici islandesi, Ögmundur Pálsson e Jón Arason, si opposero con violenza alla decisione reale. Pur essendo spesso in lotta fra loro per il predominio temporale e spirituale sugli isolani, i due si allearono contro il nemico comune.

Ögmundur fu il primo a cedere, soprattutto a causa del suo protetto Gissur Einarsson (destinato ad assumere la sede vescovile dopo di lui), che manifestò ben presto simpatie luterane. Il vecchio vescovo si accorse troppo tardi dell’errore commesso, visto che nel 1541 fu catturato dai soldati danesi e portato in Danimarca, dove morì l’anno seguente. Per qualche tempo l’Islanda rimase “divisa” fra un vescovo Cattolico, Arason, e uno Luterano, Einarsson, ma alla fine prevalsero il Luterani

Il tema delle razzie barbaresche e della schiavitù bianca è stato lasciato ai margini della storiografia per molti decenni.

Pochi sono a conoscenza del fatto che il termine razzia deriva proprio dall’arabo ghaziyya, una declinazione magrebina di ghazwa, e vuol dire “incursione”.

Ad oggi però, diversi storici si stanno interessando all’argomento. “I Viaggi del Reverendo Olafur Egilsson” sono ad esempio disponibili in una eccellente traduzione inglese stampata solo un paio di mesi fa.

3/ Schiavi Bianchi negli Stati Barbareschi (secoli XVI-XIX), da White Slavery in the Barbary States (1853) di Charles Sumner

Riprendiamo dal sito Zhistorica (https://zweilawyer.com/2015/08/10/schiavi-bianchi-negli-stati-barbareschi/) una traduzione di Gabriele Campagnano di un brano di White Slavery in the Barbary States (1853) di Charles Sumner, pubblicata il 10/8/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. 

Per approfondimenti, cfr. le sezioni Storia dell’Islam e Impero ottomano. Cfr., in particolare

Il Centro culturale Gli scritti (18/9/2022)

Gli Schiavi Bianchi, o, meglio, la Schiavitù Bianca negli Stati Barbareschi (c.d. schiavismo bianco) fu un fenomeno che conobbe il suo apice fra XVI e XVIII, con il consolidarsi di entità statuali basate quasi esclusivamente sui bottini della guerra di corsa e la cattura ed il commercio di schiavi.

Qualche anno fa ho scritto un articolo sullo Schiavismo Islamico, in particolare sulla tratta e sulle rotte sahariane delle carovane degli schiavisti arabi, ma ho solo accennato alla questione dei milioni di europei che, nel corso dei secoli, caddero in mano a questi ultimi e agli Ottomani (a partire dalla fine del XV secolo).

Il testo su cui sto lavorando si intitola White Slavery in the Barbary States (1853) di Charles Sumner, uno dei senatori più importanti nella storia degli USA. Repubblicano e collaboratore di Abraham Lincoln, Sumner era un convinto abolizionista e, in tutta la sua opera, paragona la schiavitù dei neri negli Stati Uniti meridionali con quella dei bianchi nei territori nordafricani. A volte il parallelo è ardito, altre volte sensato, ma in ogni caso stimolò (e stimola tuttora) una riflessione storica, politica e sociale sul concetto di schiavitù.

 L’obiettivo di Zhistorica

Purtroppo molti storici di oggi sono costretti a fare i conti con un politicamente corretto che stringe sempre di più la libertà della ricerca, ed è per questo motivo che ho sempre avuto una fortissima attrazione per i testi antichi, specie quelli redatti fra il XVIII e l’inizio del XX secolo (per quanto ricchi di influenze anticlericali, antisemite o, per gli odierni standard, razziste). Sareste sorpresi di vedere in che modo questi documenti siano stati ritagliati, ripuliti e riproposti al pubblico come opere originali dal professore di turno. Con i volumi della Zhistorica, invece di appropriarmi di testi altrui, ho l’obiettivo di ripristinare il testo originale (tramite traduzione o, in caso di lingua italiana, “modernizzazione”) e arricchirlo con box di commento e link ipertestuali che possano agevolarne la lettura.

L’estrattoda White Slavery in the Barbary States (1853) di Charles Sumner:

L’argomento che voglio prendere in considerazione è la Schiavitù Bianca ad Algeri o, forse, sarebbe meglio chiamarla Schiavitù Bianca negli Stati Barbareschi.

Visto che Algeri era il suo centro, il suo nome è entrato nell’uso comune quando si parla di Schiavitù Bianca. Questo non comporta alcun problema, visto che parleremo, per l’appunto, di Schiavitù Bianca, o Schiavitù dei Cristiani, presso gli Stati Barbareschi.

Il soggetto potrebbe non essere particolarmente interessante, ma di certo è innovativo. Non siamo infatti a conoscenza di altri tentativi di sistematizzare il materiale frammentario che lo riguarda in un saggio omogeneo.

Il territorio che oggi facciamo rientrare nella denominazione «Stati Barbareschi» ha una storia importante. Iscrizioni classiche, archi diroccati e antiche tombe – le memorie di età differenti – rappresentano ancora una testimonianza istruttiva degli sconvolgimenti che lo hanno interessato.

Un’antica leggenda Greca lo considera la dimora del terrore e della felicità. Si trovava lì il rifugio della Gorgone, che con i suoi ricci di serpente trasformava in pietra tutto ciò che guardava; il giardino delle Esperidi, con i suoi pomi d’oro. È anche lo scenario di avventura e mitologia. Lì Ercole lottò con Anteo, e Atlante sosteneva, con le spalle doloranti, l’arco del cielo.

Gli esuli Fenici portarono sulla sua costa lo spirito del commercio; e Cartagine, che quei girovaghi fondarono lì, divenne la signora dei mari, l’esploratrice di regioni lontane, la rivale e vittima di Roma. Lì la forza e la furbizia di Giugurta avevano contrastato per un breve periodo la potenza di Roma, ma alla fine l’intera regione, dall’Egitto alle Colonne di Ercole, era stata annessa alla vorace repubblica dei tempi antichi.

La popolazione fiorente e il suolo fertile lo avevano reso un immenso granaio. Era ricco di città famose, una delle quali fu il rifugio e la tomba di Catone, fuggito dalle usurpazioni di Cesare.

Più tardi, alcuni dei vescovi più santi diffusero lì la Cristianità. Il fiume dei Vandali, che prima aveva devastato l’Italia, passò poi in quel territorio, e le armate di Belisario ottennero lì le più grandi vittorie.

Successivamente dall’Arabia arrivarono i Saraceni, messaggeri di una nuova religione, e con i potenti mezzi di conversione rappresentati dal Corano e dalla spada, si riversarono su quelle coste diffondendo la fede e gli insegnamenti di Maometto.

Il loro impero non rimase all’interno di questi ampissimi confini, ma, sotto Musa, entrò in Spagna e arrivò fino a Roncisvalle, alla «dolorosa sconfitta», e batté la cavalleria Cristiana di Carlomagno in difficoltà.

L’autore dell’opera

Il potere Saraceno non ha più la sua unità o la sua forza. Guardando il territorio in oggetto, all’alba delle storia moderna, quando i paesi Europei appaiono nelle loro nuove identità nazionali, possiamo individuare cinque diverse entità politiche o stati: Marocco, Algeri, Tunisi, Tripoli e Barca. L’ultimo, di poca importanza, viene spesso incluso in Tripoli, ma tutti insieme costituiscono ciò che erano, e sono ancora, gli Stati Barbareschi.

Questo nome è stato talvolta riferito ai Berberi, o Berebberi, che costituiscono una parte della popolazione, ma preferisco seguire l’autorità classica di Gibbon, il quale pensa che questo termine, inizialmente concepito dall’orgoglio dei Greci per indicare gli stranieri, e infine riservato solo a coloro che erano selvaggi od ostili, sia ormai condiviso come denominazione locale per la costa settentrionale dell’Africa. Gli Stati Barbareschi portano dunque la loro antica fama nel loro stesso nome.

Questi Stati occupano un posto importante nel mondo; a nord, bagnati dal Mediterraneo, possono avere scambi immediati con l’Europa Meridionale, tanto che Catone fu in grado di mostrare al Senato Romano fichi freschi raccolti nei giardini di Cartagine; confinanti a est con l’Egitto e ovest con l’Oceano Atlantico, e a sud con le vaste e indefinite sabbie del Sahara che li separa dal Sudan e dalla Negrolandia.

Hanno una posizione geografica che dà loro grandi vantaggi rispetto al resto dell’Africa – ad eccezione forse dell’Egitto – essendo loro permesso di comunicare facilmente con le nazioni Cristiane, e così, come anche in passato, entrare in contatto con l’ultimo avamposto della civiltà.

Con Negroland, o Nigritia, si intendeva l’ampia fascia di territori che si estendeva dall’oceano atlantico all’africa centrale, appena sotto il deserto del Sahara e sopra la Guinea

Il clima è un’altra attrattiva della regione, che sfugge al freddo del nord e al caldo soffocante dei tropici, ed è ricca di aranci, limoni, olive, fichi, melograni e fiori meravigliosi. La sua posizione e le sue caratteristiche invitano a una comparazione tanto singolare quanto suggestiva. È infatti posizionata fra il 29° ed il 38° parallelo nord, occupando in pratica la stessa posizione degli Stati Schiavisti dell’Unione che ora sembrano estendersi, ahimè, dall’Oceano Atlantico al Rio Grande. Gli Stati Barbareschi probabilmente occupano una superficie di 700.000 miglia quadrate, una misura analoga a quella occupata da quelli che potremmo chiamare Stati Barbareschi d’America.

E le similitudini non finiscono qui. Algeri, per lungo tempo il più detestabile luogo degli Stati Barbareschi, il centro principale della Schiavitù Bianca, una volta definito da un cronista indignato «la roccaforte del mondo barbarico» è collocato vicino al parallelo di 36°30’ latitudine nord, in linea con quello che è stato definito il Compromesso del Missouri, che segna la linea di confine della Schiavitù cristiana, in America del Nord, a ovest del Mississipi.

Si possono identificare altri punti di contatto, meno importanti, fra i due territori. Entrambi sono bagnati dall’oceano e dal mare per la medesima estensione, ma con una differenza: le due regioni sono bagnate dalle acque in modo diametralmente opposte, la Barbaria Africana a nord e a ovest, quella Americana a sud ed est.

Non ci sono due territori della stessa estensione, sulla faccia della terra (e un esame delle mappa vi convincerà di quello che sto dicendo) che presentano così tante caratteristiche simili, sia che consideriamo la latitudine in cui sono situati, la natura dei loro confini, la loro produzione, il clima, o le «peculiari istituzioni domestiche» che hanno trovato accoglienza in entrambe. Introduco questo parallelo farvi comprendere il più possibile, la posizione e le caratteristiche precise del territorio che era il centro del male che sto per descrivere.

Di certo sarebbe interessante comprendere per quale motivo la schiavitù Cristiana, abolita in tutta Europa e in quelle parti del globo che giacciono sulla medesima latitudine, sia riuscita a stabilirsi in entrambi gli emisferi nei medesimi paralleli di latitudine, tanto che Virginia, Carolina, Mississipi e Texas dovrebbero essere considerati l’equivalente americano di Marocco, Algeri, Tripoli e Tunisi.

Questa insensibilità nei confronti delle richieste di giustizia e umanità, presente in entrambe le regioni, deriva forse dalle similitudini in fatto di clima, di indolenza dell’istruzione, di debolezza e di egoismo.

Gli Stati Barbareschi, dopo il declino del potere Arabo, sono stati avvolti dall’oscurità, resa ancora più palpabile dalla luce, sempre più accesa, proveniente dalle nazioni Cristiane.

Osservandoli nel XV secolo, nel crepuscolo della civiltà Europea, sembrava che a governare le vite degli arabi ci fossero poco più che bande scalcagnate di ladri e pirati – i «ratti di terra e ratti d’acqua» di Shylock – che governano le vita degli Ismaeliti.

Un antico viaggiatore descrive Algeri come «un covo di grandissimi ladri, riuniti in un organo dal quale, effettuata confusa divisione dei compiti, essi governano». E ancora un altro scrittore, contemporaneo dell’orrore che descrive, la definisce «il teatro di tutte le crudeltà e il santuario dell’iniquità, che tiene prigionieri, in miserabile schiavitù, centoventimila Cristiani, quasi tutti sudditi del Re di Spagna.»

La loro abitudine di schiavizzare i prigionieri, presi in guerra e durante le azioni di pirateria, alla fine ha condotto contro questi stati la sacra ostilità dei Cristiani.

Ferdinando il Cattolico, dopo la conquista di Granada, e nonostante fosse preso dalle enormi scoperte di Colombo che stavano dando alla Castiglia e all’Aragona un nuovo mondo, trovò comunque il tempo di effettuare una spedizione in Africa sotto il comando militare del grande ecclesiastico Cardinale Jimenes.

Si dice che questo valoroso soldato della Chiesa, nell’effettuare la conquista di Oran nel 1509, si prese l’indicibile soddisfazione di liberare oltre trecento schiavi Cristiani.

I successi delle armate spagnole portarono il governo di Algeri a richiedere aiuto al di fuori del paese. In quel periodo, Horuc (Aruj) e Hayradin (Haradin), figli di un vasaio di Lesbo, erano diventati famosi corsari. In un periodo in cui la spada di un avventuriero spesso portava fortune più grandi di quelle che potevano essere ottenute da uno sforzo non violento, loro erano temuti per le loro abilità, il loro coraggio e la loro forza. Algeri chiese aiuto a loro.

I corsari lasciarono il mare per dominare la terraferma o, meglio, con incursioni anfibie presero possesso di Algeri e Tunisi mentre continuavano le loro scorrerie per mare. Il nome di Barbarossa, con cui sono conosciuti fra i Cristiani, è uno dei più terribili della storia moderna.

Infestarono i mari con le loro navi pirata, ed effettuarono scorrerie sulle coste spagnole e italiane fino a che Carlo V fu sollecitato a prendersi l’impegno di sconfiggerli. Le varie forze dei suoi ampi domini furono impiegate in questa nuova crociata.

«Se l’entusiasmo» dice Sismondi «che armò la Cristianità dei primi giorni era ormai quasi estinto, un altro sentimento, più legittimo e razionale, ora univa l’Europa in un voto. La sfida non era più riconquistare la tomba di Cristo, ma difendere la civiltà, la libertà e le vite dei Cristiani.»

Un fedele corpo di fanteria dalla Germania, i veterani di Spagna e Italia, il fiore della nobiltà Castigliana, i Cavalieri di Malta, con una flotta di quasi cinquecento vascelli provenienti da Italia, Portogallo e anche dalla lontana Olanda, sotto il comando di Andrea Doria, il più grande comandante navale di quel periodo andò verso Tunisi. La spedizione, sotto gli occhi dello stesso Imperatore e con il permesso e la benedizione del Papa, era costituita da uno degli eserciti più completi mai visti.

Barbarossa si oppose con coraggio, ma con forze inferiori. Mentre cedeva lentamente agli attacchi Cristiani, la sua sconfitta fu accelerata da un’inaspettata rivolta interna.

Confinati nella cittadella c’erano molti schiavi Cristiani, che, sostenendo il diritto alla libertà, ottennero una sanguinosa emancipazione puntando l’artiglieria contro i loro vecchi padroni.

La città si arrese all’Imperatore, i cui soldati però si concessero i disumani eccessi della guerra. Il sangue di trentamila abitanti innocenti tinse di rosso la sua vittoria.

In mezzo a queste scene di orrore ci fu uno spettacolo che gli offrì una certa soddisfazione.

Diecimila schiavi Cristiani gli andarono incontro, non appena fu entrato in città, e si inginocchiarono davanti a lui, omaggiandolo come loro salvatore.

Nel trattato di pace che seguì, fu stipulato espressamente che tutti gli schiavi Cristiani, di qualsiasi nazionalità, dovevano essere liberati senza riscatto, e che nessun suddito dell’Imperatore sarebbe dovuto finire in schiavitù.

La manifesta generosità di questo impegno, la magnificenza con cui fu portato avanti, e il successo da cui fu coronato, portarono all’Imperatore più omaggi di qualsiasi altro evento accaduto durante il suo regno.

Ventimila schiavi, liberati dal trattato o dalle armi, elogiarono il suo nome in Europa. È probabile che, in questa spedizione, l’Imperatore fosse governato da motivi non molto più alti della volgare ambizione o della fama; ma i risultati che ottenne, ovvero l’emancipazione di così tanti Cristiani dalla crudeltà delle catene lo mettono, assieme al Cardinale Jimenes, fra i primi Abolizionisti dell’era moderna.

Questo accadeva nel 1535. Solo pochi anni prima, nel 1517, egli aveva concesso a un mercante Fiammingo il privilegio di trasportare nelle Indie Occidentali 4.000 schiavi neri dall’Africa.

Si dice che Carlo V sia vissuto abbastanza da pentirsi di tale decisione sconsiderata.

Di sicuro non si ricorda una singola concessione, fatta da re o Imperatori, che abbia prodotto risultati a lungo termine più disastrosi di questa. Il Fiammingo infatti vendette il suo privilegio a una compagnia di mercanti Genovesi che organizzò un traffico di schiavi sistematico fra Africa e America.

Così, mentre da un lato aveva mosso una imponente forza militare per contrastare le scorrerie del Barbarossa e per abolire la schiavitù Cristiana a Tunisi, l’Imperatore aveva, dall’altro, gettato la pietra angolare di un nuovo sistema schiavistico in America, in comparazione al quale l’enormità che aveva cercato di sopprimere appariva triviale e fuggitiva.

Esultante per la conquista di Tunisi e con l’ambizione di soggiogare tutti gli Stati Barbareschi, estirpando così la piaga della Schiavitù Cristiana, nel 1541 l’Imperatore guidò una grande spedizione contro Algeri.

Ancora una volta il Papa aggiunse la sua influenza allo schieramento militare. Ma la natura si mostrò più forte sia del Papa che dell’Imperatore. In vista di Algeri, una tempesta improvvisa fece a pezzi la sua flotta imponente, e fu costretto a tornare in Spagna, frustrato, senza poter portare alcuno dei trofei di emancipazione che avevano coronato la sua spedizione precedente.

Il potere degli Stati Barbareschi era in quel periodo al suo apice.

I corsari divennero il flagello della Cristianità, mentre il loro tanto temuto schiavismo portò nuovi terrori.

Le loro scorrerie non erano più confinate al Mediterraneo. Penetrarono l’Oceano e raggiunsero gli Stretti di Dover e il Canale di St. Giorgio. Dalle bianche scogliere inglesi, e anche dalle distanti coste occidentali dell’Irlanda, abitanti inconsapevoli venivano ridotti in schiavitù.

Il governo Inglese fu spinto a fare degli sforzi per fermare queste atrocità. Nel 1620, una flotta di diciotto navi, sotto il comando del Vice-Ammiraglio inglese Sir Robert Mansel, fu spedita contro Algeri.

Ritornò senza essere stata capace, secondo il linguaggio dell’epoca «di distruggere quei fottuti pirati» sebbene avesse ottenuto la liberazione di quaranta «poveri schiavi, che provarono a far passare per gli unici presenti in città.»

«Le attività della flotta Inglese» dice Purchas «ebbero il supporto di uno schiavo Cristiano, che nuotò dalla città fino alle navi.»

Questa spedizione ricorda quella di Carlo V non solo per questo, visto che anche quella ricevette la fondamentale assistenza di schiavi ribelli, ma anche perché possiamo osservare un’analoga condotta ambigua nel governo che la decise.

Fu infatti nel 1620 – anno caro a tutti i discendenti dei Padri Pellegrini di Plymouth Rock come un’epoca di libertà – che una flotta Inglese cercò di salvare gli Inglesi tenuti in schiavitù ad Algeri proprio mentre i primi schiavi neri venivano introdotti nelle colonie Inglesi del Nord America. Fu l’inizio di un sistema orrendo, il cui lungo catalogo di umiliazione e sofferenza non è ancora completo.

La spedizione di Algeri fu seguita, nel 1637, da un’altra, guidata dal Capitano Rainsborough contro Salé, in Marocco. Vedendola arrivare, i Mori trasferirono in tutta fretta circa mille schiavi, cittadini Inglesi, a Tunisi e Algeri.

Come riportato in Osborne’s Voyages–Journal of the Sallee Fleet, vol. II. p. 493: «Alcuni Cristiani schiavi che si trovavano a riva, fuggirono dalla città e raggiunsero le navi a nuoto.»

Anche le lotte intestine di Salé aiutarono la flotta, e la causa dell’emancipazione trionfò velocemente. Duecentonovanta prigionieri Inglesi furono riscattati. Fu anche estorta una promessa al governo di Sallee, che si impegnò a emancipare gli sventurati prigionieri venduti a Tunisi e Algeri.

Un ambasciatore del Re del Marocco visitò l’Inghilterra poco dopo e, mentre girava per le strade di Londra per raggiungere il luogo della sua audizione a corte, era accompagnato da quattro cavalli barbareschi dotati di ricche bardature e di selle ancora più ricche, con briglie impreziosite di gemme. Portava anche alcuni falchi, e «molti degli schiavi che aveva portato le seguivano a piedi vestiti di bianco» (Strafford’s Letter and Despatches, vol. II. pp. 86, 116, 129).

L’importanza dell’impresa di Salé può essere dedotta dalla grande gioia con cui fu salutata dagli Inglesi. Per quanto non fosse stata di grandi dimensioni, si era comunque trattato di una guerra di liberazione. Poeti, ecclesiastici e governanti erano uniti nel complimentarsi per il risultato raggiunto.

Ispirò anche Waller a scrivere un poema intitolato The Taking of Sallee, in cui la sconfitta del nemico schiavista viene descritta così:

Hither he sends the chief among his peers,
Who in his bark proportioned presents bears,
To the renowned for piety and force
Poor captives manumised, and matchless horse
.

Diede soddisfazione a Laud, e riempì d’esultanza la mente oscura di Strafford. «Sallee, la città, è presa» disse l’Arcivescovo in una missiva a quest’ultimo, allora in Irlanda, «e tutti i prigionieri a Sallee e in Marocco consegnati; così tanti, dicono i nostri mercanti, che, in base al prezzo di mercato, valevano almeno diecimila sterline.»

Strafford vide nella popolarità di questo trionfo una nuova opportunità di elogiare i disegni tirannici del suo padrone, Carlo I. «L’azione di Sallee» rispose all’Arcivescovo, «le assicuro che è piena di onore».

Le coste inglesi erano ora protette, ma i suoi cittadini che si trovavano in mare continuavano a essere preda dei corsari Algerini che, secondo lo storico Carte, ora «portavano i loro prigionieri Inglesi in Francia, li portavano in catene via terra fino a Marsiglia, per poi imbarcarli in sicurezza verso Algeri.»

I crescenti problemi, che colpirono e poi posero fine al regno di Carlo I, non potevano distogliere l’attenzione dalla disperazione degli Inglesi vittime degli schiavisti Maomettani.

Al culmine dello scontro fra Re e Parlamento, in favore di questi Cristiani ridotti in catene si levò una voce onesta, quella di William Waller, il quale esclamò in Parlamento:

Dai numerosi appelli che riceviamo dalle mogli dei miserabili prigionieri presso Algeri (quelli Inglesi sono stimati essere fra quattro e cinquemila), appare fin troppo evidente che evitare la schiavitù in casa nostra non ci salverà dall’essere fatti schiavi fuori dal paese.

Pubblicazioni che sostenevano la loro causa, datate 1640, 1642 e 1647, continuavano ad avere vigore. Il rovesciamento di un’oppressione così odiosa fu oggetto meritevole degli sforzi di Oliver Cromwell. Nel 1655 – quando, fra lo stupore degli stati Europei, la potenza inglese si era già affermata nell’Atlantico – Cromwell mandò nel Mediterraneo una flotta di trenta navi, sotto il comando dell’Ammiraglio Robert Blake.

Si trattava della più imponente forza navale inglese ad aver spiegato le vele in quel mare dal tempo delle Crociate. Il suo successo fu completo. Uno degli agenti esteri del governo disse:

Il Generale Blake ha ratificato degli articoli di pace ad Algeri che includono Scozzesi, Irlandesi, Jarnsey, e Garnsey men, e tutti gli altri uomini soggetti all’autorità del Protettore.

L’Ammiraglio riuscì anche a liberare tutti i prigionieri che erano lì. Molti prigionieri olandesi fuggirono e arrivarono a nuoto fino alla flotta. Con Algeri, Blake non ebbe bisogno di sparare un colpo, mentre con Tunisi le cose andarono diversamente. Il governatore (Bey) della città si era infatti rifiutato di liberare gli schiavi europei, e Blake aveva risposto distruggendogli due batterie costiere e colandogli a picco nove imbarcazioni.

Di conseguenza, alla fine tutti i prigionieri Inglesi furono liberati. Il Protettore, nel suo eccezionale discorso di apertura del Parlamento dell’anno successivo, annunciò che era stata firmata la pace con le nazioni «profane» di quella regione.

Secondo me questo è stata l’impresa che più di ogni altra ha dimostrato in modo impressionante la cura con cui il Protettore aveva cura dei suoi cittadini. E a questa alludeva giustamente Waller quando affermava che c’erano “terribili notizie per tutti i pirati e i rapinatori”.

Il suo governo fu seguito “dall’effeminata tirannia” di Carlo II, la cui restaurazione fu inaugurata da un fallito tentativo di attacco ad Algeri guidato da Edward Montagu I conte di Sandwich. Questo fu seguito da un altro, con risultati più positivi, condotto dall’Ammiraglio Lawson nel 1661.

In un trattato del 3 Maggio 1662, il governo dei pirati stipulò espressamente che:

Tutti i sudditi del Re di Gran Bretagna, ora schiavi in Algeri, o in ogni altro territorio sotto il suo controllo, saranno liberati con il pagamento del prezzo a cui sono stati venduti la prima volta; e per il futuro nessun suddito di sua Maestà potrà essere portato, venduto o reso schiavo ad Algeri e nei suoi territori.

Seguirono altre spedizioni, e altri trattati, nel 1664, 1672, 1682 e nel 1686. La loro ricorrenza e reiterazione ci dimostra come queste non avessero impressionato i barbari.

Insensibili alla giustizia e alla libertà, gli Stati Barbareschi tenevano in bassa considerazione l’obbligo di essere fedeli ai trattati relativi alla limitazione dei saccheggi e dello schiavismo.

Le lamentele dei sofferenti prigionieri inglesi continuarono ancora per lunghi anni. Un inglese, nel 1748, si espresse così:

Ah, come possono i figli della Britannia ascoltare insensibili
Le preghiere, i singhiozzi e i lamenti (immortale infamia!)
Dei loro concittadini, affondati nell’oppressione,
Che chiedono aiuto con l’anima amareggiata,
Chiamando la Britannia, la loro cara terra natia,
La terra della libertà!

Resta comunque da dire che, durante tutto questo periodo, la schiavitù dei neri, trasportati verso le colonie su navi battenti bandiera Inglese, continuò.

Nel frattempo, la Francia aveva sommerso Algeri di ambasciate e bombardamenti. Nel 1635 si trovavano lì centinaia di prigionieri Francesi. Monsieur de Sampson fu inviato con la missione di liberarli, ma non ebbe successo.

Ad Algeri, gli schiavi gli furono offerti “al loro prezzo di mercato“, che lui si rifiutò di pagare. Successivamente, nel 1637, arrivò Mounsier de Mantel, chiamato “il nobile capitano, e la gloria della nazione Francese“, al comando di “quindici navi del re e l’ordine di liberare gli schiavi Francesi“. Anche lui però tornò a mani vuote, lasciando in catene i suoi compatrioti.

Seguirono diversi trattati, conclusi alla svelta e altrettanto velocemente infranti, fino a quando Luigi XIV fece per la Francia ciò che Cromwell aveva fatto per l’Inghilterra.

Nel 1673, con la conclusione di un buon trattato commerciale, i rapporti tra Francia e Algeri erano ritornati a livelli discreti, ma nel 1681 una nave nordafricana catturò un’imbarcazione francese vicino alle coste della Provenza. L’Ammiraglio Abraham Duquesne inseguì i corsari con sette navi fino all’isola di Scio, dove il Pascià locale si rifiutò di consegnare sia l’imbarcazione che i pirati e iniziò addirittura a sparare sui vascelli francesi. Per tutta risposta Duquesne bombardò la città con tale violenza da costringere il Pascià a una tregua perché potesse riferire la questione direttamente al Sultano. Risolta la questione con cessioni da entrambe le parti, l’estate successiva Duquesne attaccò direttamente Algeri, dove c’erano diverse migliaia di schiavi francesi. Fece lo stesso anche nel 1683, questa volta con maggior successo.

Il bombardamento mise Algeri in ginocchio, distruggendo case, moschee e anche il palazzo del Dey, che fu costretto a inviare un missionario francese per chiedere la resa (assieme a settecento schiavi francesi liberati per l’occasione). Dopo tre mesi di negoziati, Hadgi-Hussein (soprannominato “Mezzo Morto” dai francesi) uccise il Dey e si proclamò nuovo capo. Per dare subito prova del nuovo corso, fece legare molti schiavi francesi alla volata di alcuni pezzi di artiglieria; sulla flotta francese arrivò una pioggia di arti e budella, compresi quelli del missionario francese che stava facendo da emissario nella trattativa. La risposta di Duquesne non risparmiò nessuno. Prima il porto e poi l’intera città furono ridotti a un cumulo di macerie. Lo stesso Dey rimase ferito in una delle esplosioni. Con l’approssimarsi di settembre, Duquesne rientrò in patria, lasciando però un buon numero di vascelli a bloccare il porto.

Alla fine, gli Algerini chinarono il capo, e nell’aprile del 1684 firmarono delle durissime condizioni di resa, comprensive dell’invio di un’ambasciata di notabili che facessero atto di sottomissione a Luigi XIV.

Voltaire dichiarò che, con questo accordo, la Francia era divenuta rispettata lungo le coste africane, mentre prima era conosciuta solo come fonte di schiavi.

Lo storico menziona un episodio che, sfortunatamente, mostra come i Francesi di quel periodo, per quanto impegnati ad ottenere l’emancipazione dei loro connazionali, avessero poco a cuore la causa della libertà intesa in senso generale.

Un ufficiale della vittoriosa flotta cristiana stava ricevendo gli schiavi bianchi cristiani portati davanti a lui e ormai liberi. Egli notò che molti erano Inglesi, i quali, pieni di vuoto orgoglio nazionalista, sostenevano di essere stati liberati senza il consenso del Re d’Inghilterra.

L’ufficiale Francese convocò gli Algerini e, riconsegnando loro gli Inglesi, disse «questi uomini aspirano a essere liberati in nome del loro Sovrano. Il mio non offre loro la sua protezione. Li consegno di nuovo a voi. Sta a voi dimostrare quanto tenete in considerazione il Re d’Inghilterra.»

Gli Inglesi furono quindi ricondotti subito in catene. Il potere di Carlo II non era sufficiente, così come non lo era il senso di giustizia e di umanità dell’ufficiale Francese o del governo Algerino.

I tempi sono troppo stretti, anche se ci sarebbe materiale a sufficienza, per trattare i diversi sforzi Francesi contro gli Stati Barbareschi. Né posso approfondire le determinate azioni dell’Olanda. Uno dei suoi comandanti navali più grandi, l’Ammiraglio de Ruyter, nel 1661 costrinse Algeri a liberare diverse centinaia di schiavi Cristiani.

L’incoerenza, che abbiamo spesso rimarcato, si evidenzia anche nella condotta di Francia e Olanda. Entrambi i paesi, mentre da un lato facevano ogni sforzo per liberare gli schiavi bianchi (loro concittadini), dall’altro erano crudelmente impegnati a vendere schiavi neri agli schiavisti Americani.

Ad ogni modo, nelle sortite portoghesi del XV secolo (Ceuta fu presa nel 1415), in quelle spagnole del XVI (penso alla presa di Algeri da parte di Carlo V) e, soprattutto, nelle azioni inglesi e francesi del XVII e XVIII secolo, troviamo i prodromi di quello che è passato alla storia come “periodo coloniale”.