La Parola nella celebrazione: verità dimenticate ed evidenze sospette, di Andrea Grillo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /08 /2022 - 09:40 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo, per gentile concessione, il testo della relazione tenuta dal prof. Andrea Grillo in occasione del Percorso di approfondimento e di formazione organizzato per i lettori dall’Ufficio liturgico della Diocesi di Tivoli nell’anno 2007/2008 e pubblicato, insieme agli altri interventi del corso stesso, nel volume La Parola di Dio nella vita della Chiesa. Percorso di approfondimento liturgico, a cura di Luca Rocchi, direttore dell’Ufficio liturgico della stessa Diocesi. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. I corsivi appartengono, invece, al testo stesso.

Il Centro culturale Gli scritti (23/12/2008)

“Inutile dare le proprie confetture
a una bocca amara”
ALDA MERINI

Io non ho confetture da darvi. Ma molte ne ha la liturgia e molte, moltissime sono in forma di parola. Eppure noi abbiamo la bocca amara. La nostra bocca è “amareggiata” (talvolta resa amarissima) da molte parole futili e leggere, banali e vuote che ascoltiamo e diciamo, dall’alba al tramonto, senza pudore e senza limite. E queste parole amareggiano e ammorbano bocca e orecchie, occhi e tatto. La Bibbia e il giornale – come già per Hegel e Barth – sono ancora la nostra necessità e il nostro problema. Ma noi abbiamo anche radio, telegiornale, DVD, CD, internet... tutti mondi di parole su parole. Anche la Scrittura, da questo universo di parole, risulta minacciata e stravolta.

Io, allora – in questo mondo e non altrove, senza pensare di essere dove non posso essere – vorrei semplicemente addolcire la vostra bocca e preparare in qualche modo il gusto per quella Parola che parla solo quando sappiamo desiderarla e gustarla.

Ora, so bene che voi non rimanete né inappetenti né insaziati di fronte alla Parola. Già ve ne nutrite, ma forse avete difficoltà a parlarne davvero agli altri, ossia a comunicare quel centro dell’esperienza della
Parola che non si lascia dire troppo facilmente e che si gusta e si comunica solo quando lo “celebriamo”. Allora vale la pena studiare un poco e dedicarsi – con un minimo di fatica – al tema
della Parola nella celebrazione.

1. Premesse di metodo

1.1. Una buona regola è quella di non usare le “parole” senza averle in qualche modo precisate o definite. A maggior ragione ciò vale per quella particolare parola che è “parola”.

1.2. Una definizione di parola, tuttavia, è molto difficile nel nostro discorso, poiché dobbiamo ammettere che “parola” significa molte cose, almeno tre. Parola nella celebrazione è anzitutto “vero soggetto della celebrazione”, ossia la parola di Dio, il Verbo di Dio incarnato, il Logos fatto uomo, Gesù il Cristo; è poi una parte della celebrazione, ossia la “liturgia della parola” rispetto al resto della celebrazione; infine è una dimensione che attraversa (insieme ad altre) l’intera celebrazione cristiana, segnando decisivamente con “parole” l’esperienza del culto cristiano.

1.3. Terremo sullo sfondo – come è inevitabile – il senso primo e primario di Parola/Logos. Ci occuperemo di capire bene i due sensi del termine “parola” che usiamo per parlare della liturgia della Parola e della Parola nella liturgia. È ovvio che le due cose sono strettamente connesse ed è difficile dividerle nettamente.

1.4. Bisogna evitare un errore di fondo: l’abbassamento della parola a semplice “strumento”. La parola come strumento per comunicare il pensiero è una visione troppo semplicistica e spesso del tutto falsa, che non rispetta il modo con cui facciamo ricorso al parlare. Il rapporto tra pensiero e parola è molto più complesso che non quello tra padrone e servo: anche di questo vuole parlarci la liturgia! Anzi, noi non entriamo neppure nella celebrazione cristiana, se pensiamo che la parola sia solo espressione esterna di ciò che la mente pensa “dentro” e “silenziosamente”.

1.5. Dividerò allora il mio discorso in due parti: prima la Parola nella Liturgia della Parola e poi le parole nella Liturgia in generale. Spesso gli operatori pastorali – ai diversi livelli – isolano la “parola” solo nella citazione della Scrittura, e non mantengono il legame necessario tra Parola e parole. La distinzione, anche qui, non può mai essere separazione.

2. La Parola nella Liturgia della Parola

2.1. Il nostro sottotitolo recita: verità dimenticate ed evidenze sospette (es.: la lingua italiana in cui la Parola viene proclamata e ascoltata: verità dimenticata ed evidenza sospetta). Questa è la prima verità che dobbiamo riportare al ricordo. Ogni celebrazione cristiana ha a che fare con una “parola scritta” che è autorevole, poiché media essenzialmente non un sapere su Dio, ma Dio stesso, la sua presenza, la comunione con lui e il suo agire con noi e su di noi.

2.2. Riduciamo ai minimi termini questa esperienza: nella celebrazione si fa uso di un “testo”, di un “libro”, di una “scrittura”. La Parola indica anzitutto un “testo scritto”, che in quanto tale diviene autorevole, principio di identità personale e comunitaria.

2.3. Ma questa parola autorevole, scritta, aspetta che noi la leggiamo, la proclamiamo, le diamo di nuovo voce: la parola scritta e la voce attuale stanno così in un rapporto essenziale che non possiamo scavalcare: diremo allora che il modo in cui Dio si fa incontrare è l’ascolto e la lettura, la proclamazione e l’acclamazione di un testo scritto. Dio parla non come “testo scritto”, ma come “testo scritto e letto, proclamato e ascoltato, atteso e meditato”. È in questo “evento” che la Scrittura si fa
parola di Dio.

2.4. Se consideriamo questo primo aspetto, dobbiamo anche riflettere su una sorta di “superficialità ereditaria” che la nostra tradizione cattolica ha lungamente coltivato, ossia di una certa leggerezza nel dare il peso che spettava alla parola di Dio. Ma questo non ha significato altro che perdere il senso sacramentale della Parola proclamata, riducendola alla “parte didattica della messa”, perciò gran parte delle folle entravano solo dopo l’offertorio...

2.5. Ma vi è un altro aspetto: la Parola nella liturgia della Parola sta sotto il segno della “invocazione-evocazione”. Ossia, non è mai semplicemente documento da constatare, fatto obiettivo, resoconto o cronaca, ma evocazione interna a una invocazione. Sta sotto il segno della preghiera e non se ne può mai distaccare. Non si tratta di un catalogo di concetti biblici da inserire poi nella celebrazione, ma della riscoperta nel contesto dell’incontro celebrato con Dio del senso dei testi dell’AT e nel NT, nella correlazione che quella celebrazione propone tra il testo scritturistico e il contesto comunitario.

2.6. Se quindi siamo solo capaci di chiederci cosa accada alla Scrittura quando entra nella Liturgia, siamo già clamorosamente fuori strada. Vorrei farvi un esempio di questa nostra piccola e grande distorsione mentale, che dipende da una certa moda culturale (che dura da qualche secolo), ma anche dalla ostinazione con cui non vogliamo vedere la realtà. L’esempio sulla “istituzione della eucaristia” è per me sempre molto istruttivo: siamo così abituati a pensare che siano le parole a fondare le azioni, che in tal modo perdiamo ogni senso sacramentale e liturgico della vita cristiana. Il “testo” non è autonomo dal “contesto”, e la liturgia è il contesto che più sistematicamente si ricorda di questo principio! La “istituzione dell’eucaristia” non è semplicemente un testo scritto che fonda il senso di una azione rituale, ma anche, reciprocamente, una azione rituale che fonda il senso di un testo scritto!

3. Le parole della liturgia in generale

3.1. Che cosa è una parola? È l’insieme di tre dimensioni che si chiamano in modo complicato, ma che poi compensano della fatica che si è costretti a fare per capirli: il significante, il significato, il referente. Noi, di solito, percepiamo la delicatezza di tutte le sfumature nel rapporto tra la “forma” e il “contenuto”, salvo quando ci concentriamo soltanto su un aspetto e trascuriamo l’altro. Formalismo (ossia forme corporee senza contenuti mentali) e intellettualismo (contenuti mentali senza forme corporee) sono i due grandi abissi da cui oggi dobbiamo guardarci.

3.2. La parola “fonda” e “sfonda” la vita cristiana: ossia, dobbiamo capire che tutto ciò che la Chiesa è nasce dal rapporto con questa parola. Ma questo non significa né che la Chiesa dipenda anzitutto dai “significati” delle parole, né che dobbiamo trovare una parola che spieghi ogni aspetto della Chiesa: questo sarebbe capovolgere il rapporto, sarebbe una Chiesa che giustifica la Parola e non che si lascia giustificare da essa! In verità, questa parola è talmente forte e alta, talmente dolce e inebriante, che rimescola sempre il tutto della Chiesa, il suo ordine e i suoi programmi, le sue buone intenzioni e le sue prospettive. Non è una parola che inquadra e irregimenta, ma che articola e differenzia, che fa fare una esperienza di Dio in cui l’universale è solo attraverso il singolare, in cui a Dio si arriva sempre attraverso quel Crocifisso Risorto, che rilegge su di sé e attraverso di sé la legge e i profeti.

3.3. Il rito è autentico solo in rapporto alla Scrittura, ma la Scrittura è parola di Dio solo se accetta di farsi rito, incontro, proclamazione e ascolto, iniziazione e corpo ecclesiale. La parola della Scrittura diventa vita solo se si fa corpo nelle parole del sacramento. Solo così essa sfugge alla pretesa “gnostica” di dominare il testo. Il testo, quando non è più parola ma soltanto “significato”, è già diventato prigioniero della testa di chi lo legge e perciò non è più testo “ispirato”, ma nello stesso tempo ideologia e schiavitù, fondamentalismo e relativismo.

3.4. L’ordine della Scrittura, l’ordine del testo, è molto disordinato. Così il rito, che si compone di “ordines”, non risponde a idee chiare e distinte né a “concetti biblici”, ma rifigura la figura biblica, come incontro sorprendente, salvezza inattesa, buio rischiarato, promessa mantenuta. Dà coerenza a ciò che, di per sé, attende la coerenza dall’incontro celebrativo. Per usare una metafora, la Bella Addormentata che è la Scrittura aspetta un Principe azzurro che è anzitutto l’atto di proclamazione, lettura, ascolto, risposta della celebrazione.

3.5. Una considerazione troppo semplicistica della Scrittura spesso ci insegna troppo una cosa e troppo poco un’altra: se la Scrittura è ispirata, possono riconoscerlo solo una lettura ispirata, un ascolto ispirato, una recezione ispirata. Quello Spirito che “ha parlato per mezzo dei profeti”, ora “spira nella Chiesa”: e una cosa non sta senza l’altra. Lo Spirito, che ha scritto, si riconosce solo se è all’opera e al lavoro anche nel lettore, nell’uditore, nel celebrante. La Scrittura è in quanto scritta, letta, proclamata, gustata: c’è Scrittura solo in questa pluralità di azioni e non nell’operazione degna del museo di appendere un libro al muro e guardarlo (come si fa coi quadri). La predicazione spesso scivola inconsapevolmente in questo bel museo scritturistico, pieno di documenti preziosi del passato, conservati sotto teca, con sistemi di sicurezza e aria condizionata, ma senza vita, senza figli, senza esperienza.

3.6. Ricordando sempre che Parola è nella liturgia sia il soggetto sia una parte del tutto, allora diventiamo sapienti se ricordiamo anche come la Parola si fa parola nelle nostre parole e anche in tutto ciò che precede, accompagna e segue la parola. Il “testo” e il “contesto” sono in rapporto di reciprocità. Il testo senza contesto è privo di senso; il contesto senza testo non è orientato. Osserviamo allora alcuni rapporti tra la dimensione di parola (che chiamiamo il “verbale”) e la dimensione con cui comunichiamo, ma senza parole (e lo diciamo il “non-verbale”):

  • Parola/gesto;
  • Parola/musica;
  • Parola/silenzio.

La qualità dei gesti, delle musiche, dei silenzi non solo “orna” un testo, ma fornisce il contesto proprio o improprio di un testo!

Alcune vie per diventare più sciolti in queste differenze così importanti diventano assolutamente preziose per poter apprendere stili di “presa di parola” adeguati al culto cristiano. Insomma, dobbiamo imparare a vedere delle differenze:

  1. la parola va sempre considerata come una preziosa fonte di identità: ogni parola detta/ascoltata ci “forma”!
  2. per questo motivo occorre sorvegliare il nostro rapporto con il giornale, la TV, i CD, il cellulare... noi siamo tutti vittime di una nuova comprensione del rapporto tra le parole e le cose: potremmo chiamarla la irresponsabilità del “nominare” rispetto ai “legami”. I legami vivono di parole accurate e non sono mai immuni rispetto ad una distrazione comunicativa strutturale. Anche il “cuore” che vuole il rapporto immediato con Dio è un legame che dipende da un adeguato (o inadeguato) regime comunicativo, verbale e non verbale.
  3. una sana provocazione a questa attenzione ecclesiale dovrebbe scaturire dallo studiare le pubblicità televisive, gli spot pubblicitari, per scoprire i simboli efficaci nella loro struttura profonda. È normalmente il “non verbale” di uno spot a manifestare il vero “valore” in gioco nella storia raccontata. Il suo linguaggio visibile comporta una vera “cattura” da parte di un “legame invisibile” che nasconde la logica commerciale: il linguaggio invisibile determina alla fine un legame visibile. Il linguaggio sulla “ubiquità” del “mondo intorno a te” comporta il “legame” con la casa telefonica che ti sussurra che se vuoi contare devi appartenere a quella “compagnia telefonica”, cui rispondi con il “passa a” quel competitore del tuo fornitore di servizi telefonici.
  4. Coltivare l’obiettivo ambizioso di lasciarsi iniziare dalle parole accorate e accurate della fede celebrata e non da quelle dei legami fittizi della indifferenza commerciale. Per questo occorre capovolgere le priorità inconsce e deleterie con cui si pretende di offrire maggiore “iniziazione” intervenendo continuamente a “spiegare” i simboli liturgici. È proprio la medesima logica dello spot televisivo e del rito liturgico a pretendere che essi possano essere efficaci solo se non vengono esplicitamente spiegati nel contesto della azione. Prima o dopo deve esservi una spiegazione, ma mai durante l’azione. L’efficacia pubblicitaria impone il silenzio sul vero messaggio, e noi ubbidiamo, mentre non dovremmo; l’efficacia liturgica ha la medesima logica, e noi disubbidiamo, mentre dovremmo riscoprire la forma specifica della comunicazione rituale, che viene infranta da ogni indebita spiegazione che si sovrapponga all’azione simbolico-rituale.
  5. Teologicamente, tutto quanto abbiamo detto ci convince di una cosa importante: dobbiamo superare l’idea del “minimo necessario” come approccio di fondo alla esperienza celebrativa cristiana: la forma non deve mai scadere a semplice formula! L’antico nome della parola nel sacramento è “forma”. Purtroppo per lungo tempo lo abbiamo ridotto a “formula”, ma dobbiamo riconoscere che vi è una “forma verbale” che riguarda tutte le parole della celebrazione, e una “forma rituale” che riguarda tutta la comunicazione che avviene con le parole e con altri linguaggi, del tatto, del gusto, dell’odorato, dell’udito e della vista. Se cominceremo a coltivare una “liturgia del massimo gratuito”, riservando i “minimi necessari ad esperienze marginali e non centrali”, avremo immediatamente chiaro come il primato della “Parola” non significa affatto il primato delle “parole”. Il Logos, per essere riconosciuto come principio e fine, ha bisogno di celebrazioni in cui le liturgie della parola non siano meramente “didattiche” ma luoghi di “presenza sacramentale” e che tutta la liturgia della Chiesa possa riscoprire, intorno alle proprie parole, un contesto di spazi e di tempi, di figure e di forme per accedere alle quali occorre ristabilire un primato diverso da quello della parole. È il “tatto” il primo organo della liturgia. Solo il tatto sa garantire all’azione simbolico-rituale di non scadere né nell’aridità intellettualistica che ha l’ansia di tradurre ogni linguaggio in parole chiare e distinte, né nell’oscurantismo tradizionalista, che ammette solo quelle forme di comunicazione che lasciano al soggetto soltanto emozioni e passioni, senza volontà e senza comprensione.

4. Conclusione: La parola nella celebrazione è parola d’amore, Spirito che attraversa la lettera senza poterla scavalcare o addomesticare

La parola della celebrazione resta anzitutto parola d’amore. Per concludere, possiamo fare riferimento ad una recente riflessione proposta da J.L. Marion[1], che ha indagato la tradizione della teologia mistica negativa con gli strumenti della linguistica e sulla base di un’analogia con il “discorso erotico”, che si concentra sul senso delle parole “ti amo”.
Nella relazione erotica, infatti, i livelli di linguaggio coinvolti sono almeno tre: si tratta di dire tutto, di non dire nulla, di agire sull’altro e di lasciarlo agire su di me: lode, canto, giubilo, silenzio sono le forme ecclesiali di tale relazione d’amore, dove la parola è immersa in un contesto d’amore. Non solo comunica concetti d’amore ma è l’Evento, l’incontro e la comunione con questo amore.
Proviamo a soffermarci su ognuna di queste soglie:

  1. nella relazione erotica con l’altro voglio dirgli tutto, con tutti i registri di tutte le lingue. Posso chiamarlo con tutti i nomi, con tutti i diminutivi o accrescitivi, con i vezzeggiativi e con tutte le metafore, anche con i nomi meno appropriati, fino a spingere agli estremi il nominare stesso;
  2. ogni denominazione è nel contempo superata, e per questo i nomi prendono sovente la china del vocabolario infantile, stupido, tautologico, insensato. Non dicono nulla, dicono la indicibilità dell’altro che amo/mi ama.
  3. infine, è la stessa relazione a farsi parola comune, parola del piacere dell’incontro, reciproca ammirazione, relazione piena e pacata.

Queste tre figure del linguaggio dell’amore possono essere raffrontate nella via affermativa, in quella via negativa e nella via eminentiae, che corrisponde nel modo più chiaro al linguaggio della lode nella celebrazione. Potremmo dire, allora, che nel celebrare non si tratta anzitutto di affermazione o di negazione, ma di istituire/riconoscere il rapporto con la fonte dell’amore e della identità. Nella celebrazione per la parola non è importante «né dire, né negare qualcosa di qualcosa, ma agire sull’altro e lasciarlo agire su di me»[2].

In questa dinamica tra diversi sensi della “parola” vediamo anche apparire, sia pure da lontano, l’antica questione della “lettera” e dello “Spirito”. La parola, nel suo tenore letterale e isolato, è impotente a comunicare l’essenziale. Può farlo solo se ricollocata in un contesto appropriato, in una serie di “altre” comunicazioni che permettono alla lettera, senza nulla perdere di ciò che è, senza dover essere mutata, di trasfigurarsi al contatto con altre comunicazioni. È il “contatto” a liberare il concetto dalla sua freddezza, così come il concetto libera il contatto dalla sua indefinitezza. L’eccesso di caldo del contatto è temperato dal freddo del concetto; l’eccesso di gelo del concetto è riscaldato dalla intimità del contatto.

Qui, conclusivamente possiamo riconoscere la provocazione che avevamo assunto all’inizio: sono le pratiche comunicative, in particolare le pratiche simbolico-rituali, a costituire uno dei grandi campi in cui un testo, nell’essere efficace, trova strutturalmente “davanti a sé” la propria verità. La ricchezza di una tale prassi celebrativa cristiana costituisce un punto qualificante e originario di una ermeneutica che, per poter essere nuova, deve essere profondamente fedele a quella antica; ma che, viceversa, per poter essere fedele alla tradizione, deve poterne mostrare una versione nuova. Proprio qui la continuità è al prezzo di una certa discontinuità, ma la discontinuità è solo al servizio di una profonda continuità. Lettera e Spirito non si oppongono, ma piuttosto si intrecciano. Non si può attingere lo Spirito se non nell’umiltà della lettera, ma non si può rispettare veramente la lettera se non lasciandola attraversare dallo Spirito che è novità. Così la Chiesa è impegnata, nelle sue pratiche differenziate, a continuare creativamente e fedelmente quanto ha appreso dal suo Signore.

Quella Parola che è Amore mi parla alla maniera di un amante all’amata, e io le rispondo amorevolmente, con mie parole, abilitate dalla sua e riconoscenti e ammirate verso di essa. Ecco la logica che mette insieme i tre sensi di “parola” da cui eravamo partiti e ai quali alla fine siamo anche riusciti a tornare, spero con la bocca meno amara.


Note

[1] Cfr. J.-L. MARION, Parlare d’amore. Teologia e mistica: l’ineffabile e
i sensi, “Il Regno”, 47/8 (2002), 277-284.

[2] MARION, Parlare d’amore, 283.