L’iscrizione medioevale del chiostro di San Paolo fuori le mura a Roma e la vita monastica. Breve nota di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 27 /08 /2022 - 21:51 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte e fede e Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (28/8/2022)

L’iscrizione del chiostro medioevale della basilica di San Paolo fuori le mura recita:

«Questo luogo, decorato con tanto splendore, raccoglie sante milizie: qui studia, legge e prega la comunità monastica.
Il chiostro che rinchiude i claustrali prende nome dal verbo "chiudere"; una pia turba di fratelli che gioisce con Cristo è qui custodita.
Esteriormente, questa opera è la più splendente dell’Urbe; interiormente, risplende la Regola della famiglia monastica.
La bellezza del chiostro e tutt'intorno accresciuta dall’oro; sopravanza ogni altra, perché costruito con materiali mirabili.
Quest’opera fu già iniziata, seguendo l’ispirazione della sua arte, da Pietro, nato a Capua, che poi Roma onorò creandolo cardinale.
L’abate che Ardea generò, Giovanni, visse negli anni in cui il resto fu ben disposto, proprio dalla sua provvidenziale destra
»[1].

Le discussioni storico-artistiche ruotano intorno alle antiche origini della forma dei chiostri[2] e alla datazione di quello di San Paolo fuori le mura in particolare[3].

Non si deve, però, dimenticare l’interesse della iscrizione per comprendere il valore della vita monastica e la sua autocomprensione.

Nel monastero sono raccolte “sante milizie”, persone cioè che sono consapevoli che la vita è una lotta fra il bene e il male che si  compie nel cuore di ciascuno: è, quindi, prezioso che la battaglia sia comunitaria, che tutti si aiutano come fratelli per sconfiggere il male e crescere nel bene.

In questa battaglia “si studia, si legge e si prega”: è la comunità che studia, legge e prega. Che la preghiera sia una lotta – vedi le storie di Giacobbe – e che sia un’arma nella lotta è elemento forte del monachesimo e del cristianesimo in genere. Senza la preghiera non ci può essere vittoria.

Ma ecco che, accanto alla preghiera, stanno la lettura e lo studio. Lettura e studio certamente della Scrittura – che è anima della preghiera – ma anche lettura e studio per conoscere e amare il mondo e la vita.

Benedetto XVI ha più volte ripetuto che la regola benedettina non consiste solamente nell’Ora et labora, per quanto importantissimo, ma nell’Ora et labora et lege.

Senza questa importanza data allo studio dal monachesimo, non ci sarebbero la cultura occidentale e le università, che nascono da quelle schiere di persone che decisero che era necessario, per comprendere la teologia, studiare anche la filosofia, la letteratura, le scienze e il diritto.

Il testo ricorda poi il valore della “chiusura”: senza recinzione della vita, non c’è profondità e non c’è libertà. Questo vale per ogni situazione, di modo che la famiglia ha bisogno di spazi dove marito e moglie si parlino e si amino, senza presenza d’altri, è vero del lavoro che, per essere creativo, ha bisogno di spazi di silenzio, è vero della preghiera che non può essere demandata solo a momenti con altri, ma deve essere propria. Ed è vera, come segno, della comunità monastica che “difende” i suoi spazi da interessi estranei. È interessante che anche nella mitologia greca e latina ci sia il personaggio di Artemide/Diana che rifiuta di sposarsi e vuole che le sue ninfe non si sposino, perché non tutto è demandato all’amore della presenza dell’altro.

“Esteriormente, questa opera è la più splendente dell’Urbe”:il chiostro fa parte delle opere della comunità – venne fatto dagli scultori, ma certamente con l’aiuto del monastero. Perché la comunità conosce la dignità del lavoro. Il lavoro non è per i servi, non è solo una questione servile, alla maniera degli antichi romani, bensì è l’opera con cui ognuno, e tutti insieme i monaci, sono chiamato a rendere più bello il mondo.

La cura del cibo, dei giardini, delle architetture, dei luoghi di studio, della foresteria per l’accoglienza, della farmacia per i malati, tutto questo appartiene all’amore.

Ogni chiostro monastico, ogni giardino monastico, è destinato ad essere un Paradiso, anche se ciò non è, ultimamente, possibile in terra:

«Secondo [Bernardo di Chiaravalle], i monaci hanno un compito per tutta la Chiesa e di conseguenza anche per il mondo. […] A loro egli applica la parola dello Pseudo-Rufino: «Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe...». I contemplativi – contemplantes – devono diventare lavoratori agricoli – laborantes –, ci dice. La nobiltà del lavoro, che il cristianesimo ha ereditato dal giudaismo, era emersa già nelle regole monastiche di Agostino e di Benedetto. Bernardo riprende nuovamente questo concetto. I giovani nobili che affluivano ai suoi monasteri dovevano piegarsi al lavoro manuale. Per la verità, Bernardo dice esplicitamente che neppure il monastero può ripristinare il Paradiso; sostiene però che esso deve, quasi luogo di dissodamento pratico e spirituale, preparare il nuovo Paradiso. Un appezzamento selvatico di bosco vien reso fertile – proprio mentre vengono allo stesso tempo abbattuti gli alberi della superbia, estirpato ciò che di selvatico cresce nelle anime e preparato così il terreno, sul quale può prosperare pane per il corpo e per l'anima (Cfr. Sententiae III, 71: CCL 6/2, 107-108)»[4].

Scrisse Antoni Gaudì che è proprio della vita comune in Cristo produrre splendore e ricchezza, proprio a motivo del lavoro che non è volto al guadagno privato, ma è sacrificio per la vita della comunità stessa:

«La vita è amore, e l’amore è sacrificio. A qualsiasi livello si osserva che, quando una casa conduce una vita prospera, c’è qualcuno che si sacrifica; a volte questo qualcuno è un domestico, un servitore. Quando le persone che si sacrificano sono due, la vita del nucleo diventa brillante, esemplare. Un matrimonio, in cui i due coniugi hanno spirito di sacrificio, è caratterizzato dalla pace e dall’allegria, che ci siano figli o no, ricchezza o no. Se coloro che si sacrificano sono più di due, la casa brilla di mille luci che abbagliano chiunque ai avvicini. Il motivo della crescita spirituale e materiale degli ordini religiosi è che tutti i membri si sacrificano per il bene comune»[5].

E ciò è tipico del cristianesimo: dovunque le persone si radunano nella fede per una vita comune, lì si genera cultura e ricchezza: sarà poi la comunità cristiana a dover essere attenta a non farsi abbagliare dalla ricchezza, perché lei stessa non potrà non produrla. Questa è una legge storica verificabile infinite volte nel cristianesimo: dove esso si impianta ecco che produce necessariamente cultura e ricchezza.

“La bellezza del chiostro e tutt'intorno accresciuta dall’oro; sopravanza ogni altra, perché costruito con materiali mirabili”. Il chiostro appunto, utilizza anche l’oro. Non è un oro utilizzato contro la povertà, ma è esattamente utilizzato per il suo fine, che è quello di non essere monetizzato, bensì di rimandare alla bellezza stessa di Dio.

È nelle casseforti e nelle collane delle persone che l’oro non dovrebbe – ad essere pignoli – mai stare, mentre esso può essere utilizzato dove non è proprietà di qualcuno, ma è “sprecato” perché tutti ne usufruiscano.

“Esteriormente, questa opera è la più splendente dell’Urbe; interiormente, risplende la Regola della famiglia monastica”.Ma questa bellezza esteriore non solo non deve far dimenticare, ma anzi deve essere segno della vera bellezza della comunità monastica che è la sua Regola e l’osservanza di essa, l’amore dei fratelli e l’amore di Dio che tutti insieme coltivano.

Note al testo

[1] Questo il testo originale in latino: Agmina sacra regit locushic quem splendor honorat / Hic studet atque legit monachorum coetuset orat./ Claustralis claudens claustrum de claudo vocatur / Quo Chri-sto gaudens fratrum pia turba servatur./ Hoc opus exterius prae cunctispollet in Urbe / Hic nitet interius monachalis regula turbae./ Claustriper girum decus auro stat decoratum / Materiam mirum praecellit materiatum./ Hoc opus arte sua quem Romae cardo beavit / natus deCapua Petrus olim primitiavit./ Ardea quem genuit quibus abbas vixitin annis / caetera disposuit bene provida dextra Joannis.

[2] Si discute se l’antenato dei chiostri vada individuato nel peristilio della villa romana o nel quadriportico paleocristiano, ma potrebbe essere il quadriportico paleocristiano ad aver ereditato la forma del peristilio delle ville romane, di modo che i chiostri avrebbero all’origine l’esperienza di entrambi gli ambienti. Certo è che il “privato” dell’atrio romano è già insieme aperto e capace di dare il senso di uno spazio pubblico, e ciò diviene evidente nell’atrio paleocristiano e nel chiostro monastico che uniscono in sé sia l’ariosità che la funzionalità di uno spazio ben gestibile dalla comunità che lo edifica.

[3] Silvestro (S. Silvestro, Una nuova ipotesi sul chiostro di S. Paolo fuori le mura e due inedite attribuzioni ai Vassalletto, in “Νέα ‘Ρώμη. Rivista di ricerche bizantinistiche” 5 (2008), pp. 259-275) propone di mutare l’antica tesi di Giovannoni il quale riteneva che «i Vassalletto principiarono […] a operare a S. Paolo, dove provvidero a realizzare le arcatelle nord, poi il cantiere paolino fu interrotto e la bottega si trasferì al Laterano. Di lì a qualche anno, grazie a una nuova campagna di lavori, si giunse anche al completamento del chiostro ostiense. Sulla base del confronto stilistico, Giovannoni assegnò ai Vassalletto anche il portico di S. Lorenzo fuori le mura, eretto sotto Onorio III (1216-1227), in modo analogo ai parati claustrali di S. Giovanni e di S. Paolo» (S. Silvestro, Una nuova ipotesi sul chiostro di S. Paolo fuori le mura e due inedite attribuzioni ai Vassalletto, in “Νέα ‘Ρώμη. Rivista di ricerche bizantinistiche” 5 (2008), p. 262). Giovannoni riteneva dunque che il chiostro della basilica di San Paolo fosse stato «iniziato da Pietro di Capua tra il 1193 e il 1208 e, dopo una pausa, […] portato a termine da Giovanni di Ardea nel periodo intercorrente tra il 1208 e il 1241, in un lasso di tempo che copre al massimo quarantotto anni» (S. Silvestro, Una nuova ipotesi sul chiostro di S. Paolo fuori le mura e due inedite attribuzioni ai Vassalletto, in “Νέα ‘Ρώμη. Rivista di ricerche bizantinistiche” 5 (2008), p. 263).
Silvestro, a partire dal fatto che sono attestati due Pietro Capuano, uno zio ed un nipote (p. 271), propone di leggere nell’iscrizione il nome del nipote che divenne cardinale nel 1219, in maniera da non ritenere più necessario dividere in due periodi così lontani da loro la costruzione del chiostro. Secondo Silvestro l’iscrizione andrebbe letta allora: «Tempo fa il cardinale Pietro nato a Capua, che Roma apprezzò, iniziò quest’opera con la sua arte. Ardea generò colui che come abate Giovanni visse in quegli anni e dispose bene le cose rimanenti con l’accorta mano destra» (p. 272).
Silvestro afferma anche: «Tale soluzione appianerebbe l’artificioso intervallo tra i due interventi nel chiostro e accorcerebbe la distanza tra i primi epistili paolini (in questo caso di competenza esclusiva dei Vassalletto, senza Nicola d’Angelo) e il gruppo dei monumenti affini: portico di S. Lorenzo fuori le mura, chiostro del Laterano e lato nord di S. Paolo» (p. 272).
Per quel che riguarda i marmorari autori, poiché tre lati del chiostro risultano di fattura diversa dal quarto, sono state proposte diverse ipotesi: «L’ipotesi di Claussen è che i primi tre lati siano di Nicola d’Angelo e Pietro Vassalletto, che intorno al 1200 avevano impresso la propria firma sul candelabro della stessa chiesa. Entrambi i lavori sono stati portati avanti dai due maestri. […] Dopo la morte di [Nicola d’Angelo], i due Vassalletto, il padre (forse Pietro) e il figlio che si firmano nel chiostro lateranense, passarono all’ala nord del chiostro di S. Paolo» (pp. 268-269).
La Silvestro propone, invece, una volta raccordati maggiormente i tempi, che siano i due Vassalletto, un padre e un figlio, a compiere insieme i lavori del chiostro della basilica di San Paolo.
Fra gli studiosi non vi è unanimità nel comprendere l’intera dinastia dei Vassalletto marmorari, fra i quali si annovera un Romanus che potrebbe essere identico con un primo Basiletto, mentre certi sono Pietro Vassalletto che firmò il candelabro di San Paolo - "Ego Nicolaus de Angilo cum Petro Bassaletto hoc opus co(m)plevi", suo figlio Iacopo (detto da taluni Vassalletto II) e, infine, Nicola.
Del chiostro di San Paolo sarebbero autori Pietro e il figlio Iacopo.

[4] Benedetto XVI, Spe salvi 15.

[5] A. Gaudí, Idee per l’architettura. Scritti e pensieri raccolti dagli allievi, a cura di I. Puig-Boada, Jaca Book, Milano, 1995, p. 277.