Il peccato e la grazia non appartengono semplicemente al singolo, di Andrea Lonardo
Pubblichiamo un articolo scritto da Andrea Lonardo per la rubrica “Paolo a Roma” del sito www.romasette.it
Il Centro culturale Gli scritti 5/10/2008
«Più fallace di ogni altra cosa è il cuore dell’uomo e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?» afferma il profeta Geremia (Ger 17,9). Paolo non solo eredita dall’Antico Testamento questa comprensione della complessità del cuore umano, ma ben più profondamente si accorge, a partire dalla sua fede nel Cristo, del motivo di questo.
Perché il cuore umano è tale? Perché è un guazzabuglio (come direbbe Manzoni)? Perché non lo si può semplicemente seguire, tanto in esso si combattono voci diverse?
Proprio la lettera che Paolo indirizza ai cristiani di Roma lo porta a riflettere sulla situazione di peccato nella quale versa la condizione umana. L’apostolo comprende, alla luce di Cristo, che non appartiene alla natura delle cose che tutti siano abitati dalla voce del male che, come una forza potente, agisce nell’uomo: «Tutti hanno peccato» (Rm 5,12).
Parlare del peccato è per Paolo così importante perché senza affrontare questo tema di petto non si può capire l’attuale situazione dell’uomo. Ma – si noti bene – per parlare del peccato, l’apostolo sente il bisogno di parlare di Cristo, di colui che lo sconfigge pur mettendolo in rilievo: «Se per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un uomo solo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini» (Rm 5,15).
In quel “molto di più” sta tutta la fede cristiana. L’uomo è partecipe del peccato del primo uomo: quel peccato arreca delle conseguenze che ogni generazione deve portare, proprio perché nessun uomo esiste in una individualità a sé stante, ma la colpa di ognuno arreca danno a tutti fratelli. Ma allo stesso modo e “molto di più” la grazia di uno solo, l’amore del Cristo stesso, viene da lui partecipata a tutti gli uomini.
Proprio questa concezione così realistica di un peccato che danneggia tutti è assente spesso nella coscienza dell’uomo. Ed è uno dei motivi per i quali il peccato sembra essere un male, in fondo, non così rilevante e decisivo. Ma allo stesso modo e “molto di più” anche la gioia e la consolazione della vita scompaiono se l’uomo si chiude in se stesso senza essere aperto alla grazia ed al bene che gli vengono dalla relazione con i fratelli e dalla comunione con Dio che il Cristo è venuto a donare, per grazia e senza che nessuno la meritasse.
Nel secolo scorso uno scrittore che ha usato tutta la sua ironia per difendere il cristianesimo G. K. Chesterton, ha voluto rispondere all’irrisione che spesso veniva - e viene - gettata sul tema del peccato originale: «Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni, nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì che Dio è senza peccato - cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno - ma, viceversa, negano il peccato dell’uomo che può esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero (come è vero) che un uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può trarne che una di queste deduzioni: o negare l’esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o negare qualsiasi presente unione fra Dio e l'uomo, ed è ciò che fanno tutti i cristiani. I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto».
Ma, insieme, Chesterton subito affermava che la dottrina del peccato originale è «l’unica visione lieta» della vita umana, perché ci ricorda che «abbiamo abusato di un mondo buono, e non siamo semplicemente intrappolati in una realtà malvagia».
Paolo scrive ai Romani, invitandoli a considerare quanto la situazione umana porti le tracce di una comunione spirituale che è stata incrinata fin dal primo gesto libero di un uomo sulla terra, ma, “molto più” riesce a far sollevare lo sguardo a quel Dio che ha voluto manifestare come tutti fossero rinchiusi nella disobbedienza «per usare a tutti misericordia» (cfr. Rm 11,32).