Meditazioni di don Achille Tronconi. La morte di Mosè al monte Nebo, La lotta con l'angelo di Giacobbe allo Yabboq, Il sacrificio di Isacco

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 12 /08 /2022 - 18:29 pm | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Indice

Meditazione di d. Achille Tronconi sulla morte di Mosè sul monte Nebo, commentando Dt 34, 1-12

Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutto il paese, Galaad fino a Dan, tutto Neftali, il paese di Efraim e di Manasse, tutto il paese di Giuda fino al Mar Mediterraneo e il Neghev, il distretto della valle di Gerico, città delle palme fino a Zoar. Il Signore gli disse: "Questo è il paese per il quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: Io lo darò alla tua discendenza. Te l'ho fatto vedere con i tuoi occhi ma tu non vi entrerai".
Mosè servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l'ordine del Signore. Fu sepolto nella valle nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor; nessuno fino ad oggi ha saputo dov'è la sua tomba. Mosè aveva 120 anni quando morì. Gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno. Gli Israeliti lo piansero nelle steppe di Moab per trenta giorni, Dopo furono compiuti i giorni di pianto per il lutto di Mosè. Giosuè, figlio di Nun, era pieno dello spirito di saggezza perché Mosè aveva imposto le mani su di lui. Gli Israeliti gli obbedirono e fecero quello che il Signore aveva comandato a Mosè.
Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia per tutti i segni e prodigi che il Signore lo aveva mandato a compiere nel paese d'Egitto, contro il faraone, contro i suoi ministri e contro tutto il suo paese e per la mano potente nel terrore grande con cui Mosè aveva operato davanti agli occhi di tutto Israele.

Mosè muore nel Signore. Ed è la fine di una vita, raccolta in un silenzio. E’ bellissimo. Non c’è niente più da dire. C’è quel corpo lì ormai morto, moribondo, offerto, sacrificato, donato. Arrivare alla fine e non c’è niente da dire! C’è una vita che è segnata, dentro quel corpo. E si muore così, raccolti nel silenzio, in solitudine perché c’è una vita che parla. La difficoltà ad accettare questa morte che anzi ci spaventa - tanto in silenzio e da soli - è proprio perché ci manca questa dimensione di una offerta di una vita. E’ una vita che parla. Che parla! Ed è bellissimo questo rapporto tra Dio e Mosè che si fa amicizia. Amico!

Nel momento finale di questa amicizia, anzi nel momento di questa pienezza, ci sono solo due cose, i loro doni. E’ bellissimo! Mosè che ha il suo dono, il suo corpo, la sua vita, il suo morire, come è stata un dono la sua vita. E’ lì. E’ lì! C’è questo altare sacrificale, c’è questo luogo di offerta e lui ha portato il suo dono, l’unico suo dono. Tutto il resto lo ha lasciato giù e lo darà a Giosuè. Tutto il resto è lasciato, ma l’unico suo dono è questa sua vita, è il suo corpo messo lì a sacrificio.

E i doni di Dio. Vedi questa terra, questa città, questo fiume? E’ il mio dono che io do alla tua discendenza, ai tuoi figli. Ecco c’è un compimento dell’amicizia fra Dio e Mosè che è splendido! C’è veramente una vita e c’è uno scambio di doni. I doni, i doni gratuiti, i doni totalmente gratuiti, l’amicizia.

Allora c’è questa ultima celebrazione dove ciascuno celebra la propria fedeltà all’altro, tra Mosè e Dio, una fedeltà che è fatta di doni ridotti all’essenziale. La nostra vita ci porta, ci induce a questo. Ci deve portare all’essenziale, al silenzio, alla nudità, all’estrema povertà dove c’è solo un corpo segnato dal susseguirsi di doni lungo la vita, pieno di cicatrici, pieno di ferite, pieno di gioie, ma un corpo consumato nel dono. Questo è il dono vero che stanno celebrando nel momento della morte. E’ questo che dovrebbe essere il momento della morte.

E l’altro aspetto fondamentale è questa fiducia di un uomo. Mosè non fa domande - abbiamo visto anche noi, in questi giorni, noi avremmo fatto mille domande: ma perché questo, ma perché quest’altro, ma perché io non posso entrare; e anche la spiegazione del dubbio, quelle lì sono tutte storie nostre, non sono le storie che ci sono tra loro due amici.

Mosè è lì che deve morire, ma non gli importa. Quello che gli importa non è che la sua vita sia arrivata a quel punto là. Quello che gli importa è che questa sua vita anche in questo momento ha di nuovo rinnovato la fiducia in Dio. Ha di nuovo rinnovato la fiducia in Dio. La morte come l’estrema consegna di un dono!

E Dio si fida di Mosè e non gli dà tante spiegazioni e non gli dice neanche perché non lo farà entrare e perché la sua vita deve finire su quel monte e perché deve guardare oltre. Anche lui si fida di Mosè, ma non della sua capacità di capire, ma della sua capacità di amare. Non ha bisogno di spiegare. Anche quando non capirò, anche quando non mi spiegherà, anche quando mi verrà chiesto di stare zitto, di non capire perché devo morire solo su un monte e da solo con tutte le prove… Ma vedetela la vita di questo Mosè: continuamente provato, non capito dagli uomini - continuamente - è di nuovo capace di celebrare la sua amicizia con Dio.

Meditazione di don Achille Tronconi sulla lotta fra Giacobbe e l’angelo al fiume Iabbok, tenuta il 20/11/98 durante il pellegrinaggio in Giordania della parrocchia di S. Melania, sulla riva del fiume Iabbok

GENESI 32, 23-33

Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: "Lasciami andare, perché è spuntata l'aurora". Giacobbe rispose: "Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!". Gli domandò: "Come ti chiami?". Rispose: "Giacobbe". Riprese: "Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele perché hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto!". Giacobbe allora gli chiese: "Dimmi il tuo nome". Gli rispose: "Perché mi chiedi il nome?". E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel "Perché - disse - ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva". Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all'anca. Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l'articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l'articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico.

Quando l’esegesi affronta questo testo si mette le mani nei capelli. E allora noi ci dobbiamo servire dell’esegesi biblica, ma poi abbiamo un altro riferimento, per fortuna. Per capire questo testo oltre l’esegesi - che sarebbe di per sé molto limitativa e qualche volta anche deviante, qualche volta, anche se è un servizio importantissimo, fondamentale, indispensabile; il testo va analizzato bene - l’altro riferimento che abbiamo, che è più grande dell’esegesi è proprio la cifra umana, cioè noi come siamo fatti.

E’ l’essere fatti ad immagine e somiglianza di Dio che ci aiuta a capire il testo. Il testo non è al di là della nostra cifra umana - anche se viene dall’alto - ma proprio dentro la nostra cifra umana riesce a farci capire meglio il testo. E qui, questa lotta con Giacobbe a Penuel, questa lotta di Dio con Giacobbe è un atto d’amore. E questo l’uomo lo capisce, capisce che la lotta è un atto d'amore e capisce che l’amore è una lotta.

E vedete qui ci sono in ballo due cose, proprio tipiche di questo atto d'amore.

Da una parte, dalla parte di Dio l’atto d’amore viene espresso proprio attraverso la benedizione - torniamo al discorso che abbiamo fatto anche per Mosè e per Abramo - cioè l’atto d'amore di Dio passa, si posa sulla persona, ma l’attraversa e va verso la sua generazione.

L’amore di Dio ti rende fecondo, ti rende padre, ti coinvolge nel suo amore, così tanto e così personalmente che tu diventi padre. Ecco allora la benedizione, Giacobbe lotta per la benedizione, ma non per lui! Ma per questo popolo che deve ancora, di nuovo, attraversare, fare il nuovo esodo. E lui ha bisogno della benedizione di Dio.

L’atto d’amore! E’ proprio qui l’atto. Dio, nel suo amore, non si ferma mai alla persona. Mai. Mai! Questa è una cosa bellissima, perché essere amati da Dio ti apre continuamente, non è da trattenere - l’inno ai Filippesi: "non è un tesoro geloso, non è una ricchezza tua, da tenere, da rubare al padre per tenerla per te", mai! Questo va riconosciuto: se tu ti senti amato, questo amore ti attraversa e ti rende fecondo. Questo è l'espressione d’amore.

L’altra espressione d’amore, invece, da parte dell’uomo, in questa lotta tra Dio e l’uomo, l’altra espressione d’amore da parte dell’uomo è proprio questa: quella di insistere. Quella di insistere! La preghiera! La preghiera nella sua insistenza, non nasce nella monotonia e nella ripetitività, ma l’insistenza della preghiera nasce proprio dal fatto di puntare su questo amore di Dio.

Quella preghiera nasce come atto di fede, prima di conoscere l’amore di Dio. Io conto su quello, miro su quello: "Devi darmi la benedizione, perché tu sei Dio, tu sei l’amore, mi devi amare". Questa è la forza - l’unica - l’unica forza che noi abbiamo: puntare direttamente sul cuore di Dio, sulla sua misericordia, sul suo amore. Tu non mi puoi non amare - è il grido di Giobbe, è il grido di Giacobbe - tu mi devi dare la benedizione. Va bene, mi fai penare tutta una notte, mi rompi le ossa, ma mi devi dare la tua benedizione.

Questo spezzare delle ossa, questo mio desiderio della tua benedizione mi segna il corpo. E - notate bene questa nota, glossa rituale per cui poi gli ebrei non mangiano il nervo sciatico - può sembrare una stonatura, ed è sicuramente un’aggiunta, però è molto bello perché quella esperienza mia, quello che ha segnato la mia persona, la mia vita, proprio perché passa, segnerà la vita dei miei figli. Io trasmetto questo segno.

Quindi la mia fecondità non è un atto teorico, ma nasce da una storia e da un’esperienza e viene trasmessa attraverso un’esperienza. E’ come io mi sento amato, è come accolgo l’amore così posso trasmetterlo ai miei figli. E questo è un discorso molto importante.

Allora la preghiera, l’insistenza, nasce dal fatto di sapere teoricamente, di sapere che c’è una benedizione da qualche parte. Dovrò lottare tutta una notte, dovrò farmi segnare le ossa, la carne, dovrò poi trasmettere questa lotta, questa fatica anche ai miei figli, ma sicuramente la benedizione c’è ed è per me. Perché io sono figlio, lui non può non benedirmi! Questa è la forza, l’unica, ricordatelo sempre! Altro che candele, ceri e giaculatorie… l’unica forza che io posso aver di fronte a Dio è questa qui: puntare direttamente su un mio diritto, l’unico mio diritto di figlio, quello di essere amato da lui - l’unico - e puntare su quello e da questo fare tessere la preghiera. Tessere la preghiera dentro questo.

E non mollare mai, anche se è notte, anche se tu devi andare in una terra nuova, anche se tu hai un popolo, hai una famiglia, hai dei figli e delle responsabilità nei confronti di qualcun altro, tu non devi mollare mai e verrà la benedizione.

Un’ultima nota molto bella di questo testo: l’amore non può - proprio per questo è una lotta, è l’amore questa lotta - l’amore non può non arrivare a chiederti il nome. Io voglio sapere il tuo nome, cioè io voglio guardarti negli occhi e questa è una cosa molto bella che significa: "A me interessa te".

Allora la benedizione è un atto d’amore che nasce dall’amore e a me non mi interessano, non mi interessano le conseguenze positive, i benefici che mi dà la benedizione - la terra dove scorre latte e miele - a me interessa te. Non mi perdo sul dono, mi interessi tu che sei il donatore. E allora io voglio te. Io voglio conoscere te.

E Dio qui non risponde, bellissimo! Dio non risponde! Dio non si rivela mai pienamente, mai! E allora dov’è il tuo nome? E lui benedice. Il tuo nome: il mio amore per te. E’ questo che faccio per te, questa storia, il mio amore per te. E’ questo per te. Allora vuol dire che questa traversata che è qui un momento solenne e glorioso è soltanto, come dice la liturgia, è soltanto l’anticipo di quello che noi vivremo dentro il suo nome, nella pienezza del suo nome.

Guai se noi nel frattempo dimenticassimo il desiderio di vederlo negli occhi questo Dio, veramente. E guardate qui torniamo al discorso iniziale: è la cifra umana che ci fa desiderare di guardare negli occhi chi siamo.

Qualche tempo fa qualcuno diceva ad un convegno sul volto fisico di Gesù - recentemente vi ho partecipato - diceva: "Io ho dato la mia vita per Gesù, per qualcuno che non riesco mai a vedere negli occhi". E questo per una cifra umana è una grossa povertà, è una grossa prova. Ma guai se venisse meno la vigilanza, il desiderio di questo! Ed è la nostra cifra umana che ce lo chiede. E’ iscritto nei nostri cromosomi, proprio fa parte della nostra realtà, che ci chiede questo tipo di amore. Guai se rinunciamo a queste cose. Anche nei confronti di Dio, guai. Allora la nostra carne diventa il luogo dove noi incontriamo Dio e con questa carne, dice Paolo, che vivo la mia fede, è con questa e non con un’altra, con questa, che vivo la mia fede.

Nel frattempo allora - momento solenne, grandioso - gli cambierà il nome. Diventa Israele, colui che ha lottato con Dio - gli cambia il nome, momento solenne, ma non quello definitivo. E’ sempre il penultimo, non è mai l’ultimo, non è mai il definitivo.

Questo non dimentichiamolo mai. Il nome! Non lo conosciamo ancora il suo nome. Allora ecco il cammino. Da una parte un Dio che benedice, io che mi impunto tutta una notte - ricordatevi però che bisogna impuntarsi tutta una notte, fino all’alba, e non mollarci prima - poi arriva questa benedizione, arriva questo amore e di nuovo il gioco ricomincia, questo gioco dell’amore. C’è il rilancio, come per dirti: "Vuoi la benedizione, io per ora posso darti la benedizione". "No, io voglio il tuo nome, io voglio te!". Questo fa parte di un’altra storia! Si va avanti ancora, di benedizione in benedizione, di generazione in generazione, fino alla pienezza, dove tutti saremo in Dio. Questo è il cammino nostro, che non va mai dimenticato.

Meditazione su Genesi 22,1-19, Abramo e il sacrificio di Isacco, meditazione per alcuni preti e seminaristi della Diocesi di Roma al Foyer de Charité in Val d'Aosta, il 29 Luglio 1999

Genesi 22,1-19

Partiamo per un'altra avventura perché voglio insistere con questa visione diversa del Padre e dell'avere fede nei suoi confronti e sono così certo di questa posizione che voglio affrontare un brano terribile, che io ritengo la prova del nove: il sacrificio di Isacco. Un brano tremendo, da vivere con timore e tremore. Tanti autori hanno affrontato questo brano che è sempre stato il fascino e la spina: un padre che chiede il sacrificio del figlio.

Ho provato più volte a leggere questo brano con delle coppie di genitori con già dieci, venti anni di matrimonio ed è sconvolgente: non ne vogliono sapere. Soprattutto le madri. Effettivamente letto così... altro che Padre buono! Io invece lo trovo il brano più forte e significativo per dimostrare che in Dio non vi è crudeltà, ma che è vi è solo amore, un amore esagerato. E il brano che introduce Luca 15.

Premetto che la lettera agli Ebrei quando elenca gli antenati della fede, dirà che per fede Abramo fece ciò e che questo ne è un simbolo. Il simbolo della resurrezione, innanzitutto, ma è il simbolo del credere e della paternità.

Dopo queste cose Dio mise alla prova Abramo - mettere alla prova - e gli disse: “Abramo, Abramo” - come gli aveva detto all'inizio, nella chiamata. La doppia insistenza non è un segno di chi è sordo, perché Abramo è molto attento, ma è un segno di amicizia. Il nome ripetuto due volte indica il tenerci a chiamarti. 

Rispose: eccomi. E' splendida questa risposta: ci sono! Il mio essere è in risposta al tuo chiamare. Andando avanti nella vita si scopre che noi non dobbiamo fare qualcosa per Dio, dobbiamo solo non fuggire da dove siamo. Non soltanto dal luogo geografico o dal momento storico o cronologico della mia vita, ma non fuggire dalla situazione esistenziale, dalla vita, dal vivere. La prima obbedienza è vivere, anzi forse l'unica, perché vivere, e vivere poi da figlio è l'obbedienza completa. E dire: eccomi! Non fuggo nella fantasia, nella mia testa, nei miei pensieri, nelle mie parole... nelle mie illusioni di quello che potrei essere e non sono, di quello che mi immagino di essere, che desidero essere.

La mia illusione, la mia velleità, il mio delirio. Se gli altri fossero meglio, se la vita fosse così o cosà, allora starei bene, vivrei bene, sarei generoso, avrei tanti amici, non avrei difficoltà di rapporto! Una continua fuga! L'importante è non essere qui, adesso, con quelle persone lì, stramaledette, perché hanno dei limiti, perché sono peccatori, perché vanno capiti e perdonati, perché ci vuole pazienza. Eccomi, sono qui, presente, in questa situazione, non desiderandone un'altra.

E' fortissima oggi la fuga nel virtuale, oggi che abbiamo queste possibilità tecnologiche - benedette da un verso, ma che come tutto quello che è tecnologico sono veramente strumentali (hanno ragione Galimberti ed in parte Severino). Il discorso della “tèchne” è proprio un discorso strumentale, che però sta sostituendo l'umano in tutto e per tutto. C'è gente che vive attaccata a questo terminale, il suo mondo è il terminale, il cyberspazio. E' tutto lì. E' una grossa tentazione, una delle più forti, perché finalmente ti dà il mondo che tu vorresti.

Ed è uno dei peccati più gravi, è la “ubris” greca, impugnare cioè il creato per dire: “Io ne farei uno meglio”. E dire: “Il virtuale è meglio del reale”. Ed io impugno il creato che tu hai fatto, la mia natura, i miei limiti e lo uso per dirti che mi hai fatto male, che dovevi farmi meglio e se sono così è a causa tua.

L'aggressione al Padre nel creato! Aggressione nella vita, nelle leggi fondamentali dell'amore, del rapporto. Tutto, attaccato perfino nel discorso del mangiare! Il desiderio che la vita sia virtuale, manipolabile, gestibile, inventata ogni giorno. Come ci dà fastidio che la vita non la inventiamo noi! Ci dà fastidio che la riceviamo, ci precede e ci travolge. Dovremmo riprendere queste umiltà, queste obbedienze, daccapo.

Non ne abbiamo più dentro, ecco perché non riusciamo a comprendere la Scrittura e le vicende della fede. Abbiamo perso la vita. E la sua capacità di insegnarci chi è il Padre e chi è il Creatore; un lavoro di ristrutturazione, di rifondazione grosso che toccherà alle prossime generazioni, Senza negare tutti i vantaggi che abbiamo dalla tecnica, anzi.

Nell'ascolto dell'appello di Dio Abramo dice: eccomi, ci sono, sono vivo, sono qui in obbedienza alla tua vita, alla tua parola, che non c'è differenza. Una delle bestemmie più grandi contro lo Spirito è di dire che il cristianesimo è contro la vita. Che la vocazione è contro la vita. Quando sentite dire questo è il demonio, non è Dio. O non è il caso dì scomodare il demonio che è più intelligente di quello che gli facciamo fare, siamo noi stessi allora. Noi abbiamo le vocazioni contro la vita, non Dio.

E lo dico proprio nei confronti di questo brano.
Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, il figlio che ami, Isacco. E' il Padre che parla. Se date una lettura umana, come purtroppo spesso accade, si vede un Dio sadico, crudele che dice dammi questo figlio, venuto dopo mille promesse, che ha portato vita e luce, che è segno di una generazione che dovrà essere più numerosa delle stelle del cielo, della sabbia e del mare.

E ribadisce tre volte tuo figlio, unico figlio, che ami. Sono appellativi che saranno di Gesù Cristo. Dio sta parlando del proprio Figlio. La tradizione antica l'ha letta subito questa cosa, ci sono dei commenti splendidi a riguardo. Noi vediamo Dio che vuole mettere alla prova Abramo.

Il figlio viene nominato quattro volte, persino col nome. Era chiaro che si riferiva ad Isacco, bastava lo avesse detto: prendi tuo figlio. Abramo non ne ha altri. La Bibbia non si dilunga così a caso, non è verbosa. Isacco! Che non si confonda, ne ha uno solo! 

Va nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò. La nostra carne (e intendo anche la nostra religiosità naturale perché la psiche ha questa predisposizione a questa religiosità naturale, ha bisogno della divinità, che è ben altra cosa dalla fede - è infatti un bisogno, mentre la fede è una libera risposta ad un dono che si riceve) dice: ecco la grande prova, questo Dio vuole da Abramo, che abbia la forza di dire “ti amo più di mio figlio e lo sgozzo mio figlio, così ti dimostro che ti amo”.

Noi pensiamo questo e dentro di noi nasce un rifiuto, giustamente, e diciamo che Abramo è proprio questo uomo così forte che sgozza il figlio per far onore a Dio! Pensare che questo brano, secondo gli esegeti nella tradizione jahvista, voleva essere il modo di definire che non è possibile un sacrificio umano e che la primogenitura, il figlio offerto, va offerto in un altro modo.

Eppure continuiamo a leggerlo facilmente come la grande prova e pensiamo che Abramo ha veramente in mente che Dio vuole che suo figlio venga sgozzato. Questo ha creato tanti problemi ai commentatori, fino ad arrivare al punto che i commentatori della religione ebraica, sia il Midrash, ma anche quelli dopo, dicessero addirittura che è morto e poi è risorto...

E aggiungo che nella lettura fatta dalla tradizione ebraica, Isacco per un loro calcolo particolare, non è un bambino ma è un adulto, bellissima immagine! Ed essendo adulto ha l'età di Gesù, sui trent'anni, la piena maturità, lettura fatta anche dai padri che hanno pescato nella tradizione ebraica. Pensate dunque a due adulti che stanno salendo il monte e non ad un padre cruento con un bambino.

Ma a noi viene da pensare che Dio nella nostra vita chiede delle prove; questo è un criterio umano, carnale, da cui Dio è lontanissimo. Sono nostre proiezioni, nostri fantasmi, nostre patologie, paure: del padre e della madre che ci uccidono, ci emarginano, ci buttano via. Che non piacciamo al Padre.

Sono idee nostre, non è questa la prova, vedremo cosa è invece la prova. Abramo accetta questa prova perché lui sa che Dio non gli farà mai uccidere il figlio, non sa come, non lo sa, è questa la fede. La fede non è dimostrare che io sgozzo mio figlio per amore tuo; la fede è credere che tu non vorrai mai la morte di mio figlio, anche se mi stai dicendo di condurlo al sacrificio.

lo credo così tanto al tuo essere Signore della vita, al tuo essere amore, al tuo essere Padre, che faccio tutto quello che mi stai dicendo, così come suona, perché ci credo così tanto a te che vado fino alla fine e in qualche modo, non so come, perché Tu sei Dio, e i tuoi pensieri non sono i miei pensieri, le tue vie non sono le mie vie, Tu risolverai il problema, a modo tuo, non negando mai il tuo amore, la tua natura. Questo è quello che ha provato Gesù portando la croce fino all'ultimo.

Ma non pensiamo mai che Abramo abbia pensato davvero di sgozzare un figlio, per amore di un Dio. La fede, quella del fatalismo, della carne, direbbe: che fede, sacrificare così il figlio!

E' la fede di un cretinissimo testimone di Geova che fa morire il figlio per non fargli fare una trasfusione: quella è la fede della carne. Ho vissuto una volta una esperienza del genere in cui io e una nonna abbiamo fatto togliere la patria potestà a due genitori che stavano facendo morire la figlia in nome di Geova. E mi citavano questo brano. Da lì ho cominciato a macchinare in testa che dovevo trovare un'altra spiegazione: non è questa!

La fede non è obbedire ciecamente a un Dio che mi dà un ordine. Dio è fedele a se stesso: non mi chiederà mai qualcosa che vada contro la vita, contro l'amore. Mai! Poiché Dio è fedele a se stesso non può fare a meno di amare. Lui ha deciso di essere l'Amore. Non possiamo pensare niente altro di Lui che questo. Non diamogli un altro volto. E non è romanticismo o nostra debolezza, il volere avere un Dio che comunque mi ami.

Perché torniamo all'altro discorso di un moralismo stupidissimo che ha portato tanto danno alla nostra vita cristiana e spirituale. Io devo non fare i peccati non tanto perché c'è un Dio giudice giusto, ma perché sono innamorato di Lui. Per amore non devo peccare, non per terrore. E' tutto un altro livello. L'amore porta tutto a un altro livello. Ed è a questo livello che noi dobbiamo vivere la nostra fede, il nostro rapporto di figli nei confronti del Padre.

Smettiamo di essere dei carnali, dei non credenti. E' quello che dice Gesù a Tommaso: smettila di essere un non credente ma un credente. A questo livello! Vieni a questo livello, poniti in questa dimensione. La carne è carne: devi rinascere dall'alto e dallo Spirito o non capirai mai questo Dio, questo Padre, la sua chiamata, cosa ti sta chiedendo. Siamo sordi perché siamo in un’altra sintonia e non riusciamo a percepirlo. Ma Dio parla. E finché non facciamo lo sforzo verso la verità, che è che Dio ama in questo modo, non potrò mai essere in grado di capire cosa mi sta chiedendo. Inutile che continui a dire: dimmi cosa devo fare! Perché mi sto rivolgendo a un Dio che non è il Dio di Gesù Cristo, ma è la mia proiezione, è il mio idolo. Gli idoli sono muti, come dicono i salmi. E noi passiamo la vita con un muto, non con una parola vivente. E diciamo: non parla!

Fede è custodire in me l'esperienza di un Padre che mi ama, per cui vado dappertutto, anche se mi sembra che quella malattia, quella croce, quella scelta, sia per me non vita. lo credo che è Lui il primo custode della vita e che non vorrà mai togliermela, ma custodirla per donarle pienezza. Questa è la fede di Abramo. Questa la sua forza; per questo ci è padre, Abuna, padre nostro nella fede. Ci genera alla fede perché per primo ha creduto a questo volto del Padre, a questo Dio che è amore, dimostrandolo nella sua vita. Ogni volta che è stato messo alla prova o ha avuto difficoltà, non ha mai dubitato che Dio gli fosse amico. E tutta la sua vita ruota intorno a questa certezza.

E come tutte le altre volte in cui Dio chiamava Abramo, lui mette in atto. Abramo si alzò di buon mattino c'è un compito da fare, un'obbedienza da compiere, non una crudeltà - sellò l'asino, prese con sé due servi ed il figlio. Isacco - bastava dire il figlio -spaccò la legna per l'olocausto - non è preso dal panico, agisce con un po' di trepidazione, perché non sa a che cosa va incontro, ma non è straziato dal dolore all'idea di dover sgozzare il figlio - si mire in viaggio. Tutte le volte che Dio chiama bisogna mettersi in viaggio. C'è sempre un luogo da lasciare.

Non vi è discussione in Abramo. Non chiede spiegazioni: “Ma come farai? Sei sicuro? Vuoi davvero questo?” Questa è fede. Scusate se mi ripeto, ma è troppo forte: fede non è obbedire ad un comando, fede è credere che Dio mi ama. E' ostinarsi nonostante la vita, l'evidenza, il dolore che provo, la paura, la difficoltà, nonostante nessun altra garanzia umana, che comunque Tu sei con me e Tu sei per me. E allora prendo mio figlio, mia moglie, la mia vita, il mio futuro, la mia felicità e lo porto dove vuoi tu. Non temo di darteli. Non l'obbedienza ad un comando, come un automa. Cosa abbiamo reso la fede? L'obbedienza ai comandi più pazzi, più folli... Dal punto di vista umano, anche psicologico, e spirituale è più facile credere ad un comando che credere ad un amore. Che credere di essere amato.

La vita cambia nel momento in cui sarete certi di essere amati. Cambia completamente. C'è un raccontino di un autore francese che dice: la paura bussa alla porta, la fede è andata ad aprire ed ha visto che non c'era nessuno. Quante cose sono fermate dalla nostra paura perché non ci sentiamo amati e dall'ansia di fare qualcosa per poter essere amati, per conquistare, per sedurre. Anche con Dio ci proviamo. Non solo con i preti, anche con Dio. Che pace e che libertà sentirsi amati!

Il terzo giorno - un viaggio di tre giorni, quindi. Abramo ha potuto davvero alimentare e verificare questa sua fiducia. La vera prova è questa, non è solo il momento in cui è lì con il figlio ed il coltello in mano. La prova è non star lì a pensare a cosa avrebbe potuto fare Dio, e che cosa doveva fare lui. Io immagino questo cammino insieme a suo figlio in silenzio a pregare, a recitare i Salmi (magari i Salmi ancora non c'erano, ma quelli che sarebbero diventati i salmi!). Pregare e lodare questo Dio certi del suo amore, con anche Isacco - Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo - la tradizione vuole che poi vi sia stato costruito il tempio di Gerusalemme, naturalmente non è così. C'è un legame anche con il luogo dove poi Gesù muore, il Gòlgota, una bella tradizione. 

Allora Abramo disse ai suoi servi: fermatevi qui con l'asino ed io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo - pregheremo davanti al nostro Dio - e poi ritorneremo da voi. Ma se era convinto di sgozzarlo perché gli avrebbe detto "ritorneremo"? Certi commenti sono proprio da spanciarsi, se non da arrabbiarsi e dicono che era una mossa strategica per non dire al bambino: “Ti sgozzo”. Non sta bene, allora è meglio dire “torneremo”.

Come si fa a pensare queste cose? Li ho letti tutti, sono su quella linea lì, mi veniva la gastrite! E' una bugia. Perché avrebbe detto una bugia Abramo? E' un uomo che parla pochissimo in tutta la Scrittura, e quello che dice è vero, è certo. Perché dovremmo credere a una strategia? O al fatto che pensava che Dio lo avrebbe fatto risorgere? Pensiero impossibile a quell'epoca! Si sono inventati di tutto tranne la cosa più ovvia: che Dio all'estremo non gli avrebbe chiesto quello. Non sapeva in che modo, ma avrebbe evitato la morte. Dio non vuole la morte di nessuno, la morte è entrata per il peccato, non dimentichiamolo.

Ed è scritto chiaro. Ho dovuto faticare per arrivare a questa lettura libera, e spoglia, così come suona. Non ho patente da esegeta. E' la mia lettura. Ho questo da darvi.

Poi proseguirono, Abramo prese la legna per l'olocausto, la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco ed il coltello e poi proseguirono tutti e due insieme - Isacco è d'accordo. Infatti molti commentatori dicono che si era offerto, che non gli importava di morire per il suo Dio... Queste cose sanno di carne, di noi, non di Dio: invece sono insieme, d'accordo nell'andare a cercare quel Dio che loro credono, il Dio che li avrebbe comunque salvati, un Dio di salvezza. E' bellissimo.

Ho usato una volta questo brano per spiegare che cosa è il padre spirituale. Perché si va insieme verso la salvezza, non si dice semplicemente al proprio figlio spirituale “quella è la strada”, ma gli si dà la mano e con in mano i segni dell'obbedienza al Padre, che sono il fuoco ed il coltello, si accompagna questo figlio, verso la sua storia. La facciamo insieme, ma è la sua storia. Non so cosa gli chiederà il Padre, ma io sono accanto a lui sapendo che mi sta chiedendo di portarlo al Padre.

E un'altra cosa: un figlio è sempre da sacrificare, da offrire se vuoi che diventi adulto. Non è semplice, perché è una parte di te che se ne va. Ma non è una frustrazione, una delusione, un fallimento: fa parte del grande gioco dell'amore. Se lo si vede così, si accetta che un figlio cresca e vada per la sua strada. Altre motivazioni non reggono. Tu ami quel figlio, che è una parte di te e lo lasci andare proprio per amore: solo l'amore può far portare Isacco in cima al monte! Solo l'amore. Come si può pensare che amando un figlio lo stai portando allo sgozzamento da un Dio crudele con i denti da vampiro che ti aspetta il figlio e tu che glielo porti tranquillo?

Questo brano cerco di non commentarlo, perché poi mi agito e ne fanno le spese coloro che mi ascoltano. Non sono nato timido! E' il mio dramma.

Proseguirono - Abramo non ha ingannato il figlio, non gli ha raccontato una storia: un padre non può ingannare. Un padre che inganna è un padre finito. Va bene un padre che rimprovera, che sta in silenzio, che è esigente, ma non che inganna. Infatti il bambino preferisce dire che è lui cattivo, piuttosto che il padre lo ha ingannato. Perché è la base per il futuro: se anche mio padre mi inganna, io non ho futuro.

Per qualche tempo ho seguito i bambini violati dai propri genitori ed è stata una esperienza che ti fa capire che ne va del suo futuro. Non ti racconteranno mai di essere stati violentati dai genitori, perché ne va del loro futuro, non per amore del padre o della madre. Perché la cosa su cui deve costruire la garanzia che ha per affrontare la vita è il padre, il suo amore, non può dire “non esiste neanche quello”; che cosa farà dopo?

Non te lo diranno mai direttamente, non per pudore di una sessualità che a loro non importa più di tanto, non per vergogna, ma perché dirlo a se stesso uccide il suo futuro. Ecco perché è la violenza più tremenda: non uccidi solo il presente ma anche il futuro.

Isacco - che giustamente era uno che ragionava - si rivolse al padre Abramo e disse: Padre mio. - io ti riconosco come padre - Rispose: “Eccomi” - non vengo meno alla mia paternità nei tuoi confronti, al mio amarti, custodire la tua vita, non sto scappando dal mio essere padre, non mi sto trasformando in uno sgozzatore di bimbi o un fanatico integralista della divinità e dice “Eccomi... figlio mio”. Queste parole sono importanti, non sono banali. Benedetto il giorno in cui abbiamo avuto la Scrittura! Come faremmo senza un brano così?

“Ecco qui il fuoco e la legna” - lui vede le cose! - ma dov'è l'agnello per l'olocausto?" - manca il terzo elemento. Abramo rispose: “Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio”. E qui abbiamo le interpretazioni più oscene: Abramo sa che deve uccidere lui, ma gli risponde così perché è un modo per non dire la bugia e nello stesso tempo non dire la verità. Pensate cosa abbiamo fatto di Abramo: un infingardo ed un crudele. Che dice: ora ti frego, ti porto fin su... peggio di un pedofilo! Il figlio ha fiducia nel padre e lo chiama “padre” e lui gli dice “sei mio figlio”. Dopo aver ristabilita questa profonda e inviolabile verità, fondata da Dio, osserva che mancano gli elementi.

E' possibile che il padre risponda “non te lo dico”, ma c'è una strategia sotto? Semplicemente è vero quello che dice Abramo, lui crede che Dio provvederà all'agnello, come infatti succede, ma non per miracolo. Toh! Quello credeva che l'agnello fosse il figlio e poi arriva il caprone nel cespuglio! Come si fa a pensare questo?

Abramo era veramente certo che Dio avrebbe provveduto. Non sapeva nel suo cuore come. Ecco la fede pura. Non è obbedienza cieca. E' aggrappato a Dio come amore e non si smuove di lì. Non sta a pensare: Come mi farà trovare l'agnello? Ci sarà un gregge disperso da qualche parte? Verrà giù un fulmine dal cielo che brucerà qualche cosa? Non si crea tanti problemi come noi: e poi Dio cosa farà se io faccio questo passo? E facciamo i calcoli delle probabilità!

Abramo punta direttamente a Dio. Questa è la furbizia dello spirito quando le cose ci stanno andando storte, quando siamo nella prova, nel buio: puntare direttamente al cuore di Dio, solo lì avremo risposta. L'unica realtà certa su cui fondare qualsiasi futuro o cammino.

Impariamolo. Invece no, abbiamo bisogno di mediazioni: se non c'è quel prete che mi dice cosi, se non ho poi compagni, non c'è comunità, e poi trovo questo o quell'altro! Che cosa stai cercando: Dio o la tua comodità, la tua sicurezza? La fede prende davvero tutta la vita, è una cosa seria, si gioca con la vita e dentro la vita. Non sono quattro pensieri messi in testa o tre riti da fare!

Dio stesso provvederà l'agnello - è bellissimo leggere con questa pace, questa luminosità questa frase. E' una frase luminosa, non una frase ingannevole e neanche un sofisma per fregare tuo figlio. Dio non te lo chiederà mai e se senti una voce non è quella di Dio.

Neanche in nome della religione o di chissà quale altra sporca divinità - Proseguirono tutti e due insieme - questo versetto che si ripete è uno splendore. Insieme, d'accordo. Non ci sono un carnefice ed una vittima, ma un padre ed un figlio che stanno compiendo insieme la volontà di Dio.

Così, insieme, arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato - è la fine del cammino spirituale, padre e figlio che arrivano insieme al luogo che Dio ha indicato, non dove lo ha condotto il padre, non dove ha voluto andare il figlio, ma dove Dio li aveva condotti. E' l'immagine più bella della paternità spirituale: padre e figlio insieme che seguono il dito di Dio. Il dito di Dio, è Lui che indica, è Gesù Cristo. E' in mezzo a noi il dito di Dio.

Qui Abramo costruì l'altare collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sopra la legna - Abramo fa come gli è stato detto fino all'ultimo, fino a che l'angelo non gli prende il braccio Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l'angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo”. Rispose: “Eccomi” - non è cambiato niente da quell'eccomi iniziale. La figura dell'angelo indica l'azione di Dio: è Dio stesso che ferma Abramo. E Dio che ha l'autorità di dirgli “Abramo, Abramo” per ben due volte. Il dialogo non è mai stato interrotto. Il cammino che Abramo sta facendo con suo figlio è un cammino in perenne dialogo con il suo Signore. Tutto è vissuto davanti al suo Signore.

Quale è la vera condizione morale delle nostre scelte? Quella di vivere davanti al Signore. Non fare le cose giuste o sbagliate. Perché se poi il criterio del giusto o dello sbagliato siamo noi o noi lo diamo, siamo daccapo. E' veramente vivere alla presenza di Dio e in ascolto. Abramo sente la voce di questo Dio che interviene nella sua vita. Il fatto che Dio intervenga all'ultimo momento non vuol dire che Dio interviene nelle emergenze, non gioca ai gialli, non pensiamolo! Dio interviene quando lo ritiene. Riconoscere a Dio la sua maestà è proprio riconoscergli i suoi tempi. E non permettersi di giudicarlo.

Certo gli si può far fretta, si può gemere e pigolare come una colomba, si può invocare la sua venuta, come facciamo in ogni Eucarestia, perché si affretti la sua presenza, si può pregare perché doni pace dove non c'è, ma non si può forzare.

Dobbiamo stargli davanti, con piena fiducia, ed in ascolto. Lui sa scrivere diritto sulle nostre righe storte. Ma è difficile credere che scriva diritto quando avete il pugnale in mano e la gola di vostro figlio lì... E' facile dire queste cose quando non ci si è dentro. Il Dio che ha chiesto ad Abramo questa esperienza è il Dio che l'ha chiesta a se stesso in Gesù Cristo.

Faccio una digressione riguardo ad un'altra deformità che abbiamo nei confronti di Dio, che è quella della sua onnipotenza. Viene fuori spesso, è proprio molto legata alla carne l'immagine dell'onnipotenza. Questo Dio che sa tutto, perché non interviene? Ve lo descrivo come lo vede la nostra carne: Dio è una persona che sta su un grande terrazzo - se non fosse offensivo per lui penserei ad una matrona veneta che si fa vento - e da lì in alto (Lui è l'Altissimo!) guarda la vita di noi poveretti. Sa già l'inizio, la durata, la fine, quello che facciamo o non facciamo; un bellissimo film. E lui è lì con la Coca-cola in mano che guarda e dice “vediamo un po', 'sti poveretti, 'ste marionette che si muovono!”

Se pensi Dio così è un Dio con una sottile vena di sadismo perché ti dice: “Vediamo un po' cosa sai fare!? Vediamo se fai bene o male!” E a te non resta che recitare il tuo ruolo da comparsa e Lui ti guarda, Lui che conosce e che sa! Questa è l'onnipotenza di Dio che ci immaginiamo tutti, in maniera più o meno elaborata. L'onniscienza di Dio: Dio sapeva già che Abramo arrivava fin lì... ma allora perché glielo ha chiesto se poi alla fine lo fermava? Questi ragionamenti sono autentiche bestemmie.

Attribuiamo a Dio dei secondi fini; ma siamo noi che li proiettiamo. Non dimentichiamo che uno dei titoli più forti dati a Dio è che Dio è Uno, è “ehad”. Uno non nel senso matematico, non è un insieme, non l'inizio di una serie, Dio è la trasparenza stessa, non può aver secondi fini, non può aver chiesto una cosa ad Abramo intendendone un'altra! Non può farmi fare una cosa, per ottenerne un'altra!

E quando si dona, non dona un pezzo di sé, ma dona tutto se stesso, cosa che noi non sappiamo fare, per cui poi pensiamo questo di Lui. Il suo Amore è dono totale, non si lascia dietro qualche pensiero recondito, qualche secondo fine, qualche fregatura finale, come noi pensiamo di tutto e di tutti perché ce l'abbiamo dentro.

Dio è Uno, il Semplice, senza piega, come abbiamo detto, che quando ti dice “ti amo” non ha dei secondi fini che ti rifilerà al momento buono! La sua onnipotenza ed onniscienza che cosa sono, a che servono? Noi facciamo un altro grande errore che è quello di dividere la conoscenza dall'amore: conoscere ed amare sono per noi cose distinte. In Dio sono un'unica cosa: nella Scrittura è così. Dio non sta al terrazzo a guardare, non può. Lui conosce mentre ama e ama mentre conosce. Quando ti guarda ti ama. Questo dovremmo sentire, non il Dio che guarda alla tua vita come un giudice, un elemento superiore, distaccato ed un po' sadico, Lui che è eterno, che è amore… Povera creatura! Dio si è consegnato completamente a te senza altri fini.

Paul Valery diceva che sono i pensieri reconditi, quelli nascosti, che sono la causa dì tutti i dolori del mondo. E' il non detto che fa male, il nascosto, il doppio fine, quello che vorresti dire e non dici. Ma questo non è Dio. Ecco perché stando con Dio non sì può che diventare veri, semplici e stirare tutte le pieghe, fosse anche necessaria una batosta fisica che ti stiri i meandri in cui ti nascondi, in cui giochi a nascondino con te stesso e ci fai nascondere gli altri, perché le pieghe servono anche per catturare, per tenere e comprare oltre che per nascondere. Tutte le altre cose vanno benissimo: l'analisi di se stessi, la comprensione, l'esperienza, il tormento... ma se imparassimo di più a stare con il Dio Uno e Vero! Quante cose ci insegnerebbe della nostra umanità! Se stiamo col nostro Dio non avremmo che conferme o anche smentite di noi stessi, quanto basta per non morire (non quelle bombe che ti distruggono), che fanno rinascere. Noi giochiamo, anche quando vediamo il Dio che ci punisce: è già tutto calcolato, tutto previsto.

La garanzia della mia crescita è che io sto con il Dio Vero. Quanto avrebbe da insegnarci su cosa è la semplicità, la chiarezza, cosa significa amare, consegnare se stessi senza riserva, come fa Lui! Quando penso al Mistero della Trinità mi piace pensare che il Padre ha consegnato tutto al Figlio, il Figlio altrettanto e questo è lo Spirito Santo. Una consegna totale tanto da essere una persona, lo Spirito Santo.

Quando si interpreta Dio che parla ad Abramo come il Dio furbetto che voleva giocare è ancora il Dio sul terrazzo, è il Dio della nostra commedia, non quello che salva. Un Dio fatto dagli uomini che merita di essere distrutto, deriso. Mi viene in mente Nietzsche: aveva ben ragione a tal riguardo!

Quando vi vengono delle tentazioni della carne, che non sono quelle sessuali (queste sono proprio le ultime, preoccupatevi piuttosto di quelle mentali, o di quelle sessuali quando gestiscono quelle mentali), in cui vi viene da pensare a un Dio che gioca a nascondino con voi, al gatto ed al topo, in cui Lui sa già tutto e quando vi vien da pensare: “Ma se sapeva già tutto perché ha fatto questo o quest'altro? Perché?”, quando cominciate a farvi queste domande datevi un pugno in testa e ditevi: “Non è questo il Dio di Gesù Cristo!” Lasciate lì i vostri pensieri ed aprite la Scrittura. Non dimenticate mai che la sua conoscenza è un atto di amore. Per noi è difficile, ma conoscenza e amore in Lui sono un atto di amore. Non possiamo dire altro, spiegare altro, ma questo risolve tutti i falsi problemi che ci creiamo e che ci servono soltanto per gridare all'ingiustizia e aggredire il Padre.

Il deporre sull'altare, sopra la legna è l'immagine di Gesù messo in croce, Gesù deposto sul legno. L'angelo disse: “Non stendere la mano sopra il ragazzo e non fargli alcun male. Ora so che tu temi Dio e non gli hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”. Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l'ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo Il Signore provvede - che si può tranquillamente tradurre: “Il Signore ama, il Signore ha cura dei suoi figli”.

Ecco dove doveva arrivare, la montagna sulla quale doveva salire nel cammino insieme al figlio. Lo invidio questo padre e questo figlio: altro che detestare quello che hanno passato! Perché insieme sono arrivati a capire che Dio li ama. Non perché lo hanno sentito dire o letto su qualche libro, pensando e parlando, ma perché l'esperienza di Dio ha attraversato la loro vita a rischio della morte di entrambi: perché il padre sarebbe veramente morto insieme al figlio. Hanno creduto, ora sanno che Dio li ama. La fede porta alla conoscenza, altro che essere nemica della conoscenza. E la conoscenza non elimina la fede.

Ora so che tu temi il Signore perché non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio. Rifiutando, dicendo di no, Abramo avrebbe stabilito che quel figlio era suo e non dì quel Padre che è nei cieli. Rifiutare il figlio significa stabilire una proprietà: noi facciamo fatica a riconoscere il dono. Noi lo conosciamo come tale, ma nel momento in cui passa - siamo fini su queste cose - dalle mani del Padre alle mie e nel preciso instante in cui è nelle mie mani, quello non è più dono, ma mia proprietà.

Riconosco il dono solo quando mi arriva. Allora sì, nella mia grandezza d'animo posso dire che è dono. Ma un istante dopo lo posseggo. Provate a far dire ad una madre che il figlio che ha portato in seno è un dono e continua ad essere un dono, per cui quando vien richiesto deve essere facile ridarlo: “E' mio figlio!” Un possesso che uccide, che toglie la vita che ha dato.

Il dono è una dimensione stabile, non il nome di un passaggio dinamico, di un momento, ma è il vero nome delle cose, della mia vita, di me stesso. Non è la caratteristica di un momento. Noi non siamo proprietari di niente e non siamo proprietà di nessuno perché anche noi siamo dono del Padre. Persino la signoria di Dio, di Gesù Cristo, alla quale vogliamo appartenere, il regno, è tale solo se noi siamo donati dal Padre al Figlio. E' il Padre che dona noi al Figlio. Noi siamo coloro che sono stati posti nella mano del Figlio ed Egli non perde “ nessuno di quelli che Tu mi hai dato”. Siamo stati dati dal Padre.

Insiste Dio a dire il tuo unico figlio. E verrebbe da dire che l'amore rende unici. E' l'essere amati.
Anche questo dovremmo ricordarcelo un po' di più. Parleremo dell'essere fratelli e diremo che non si può essere uno più unico dell'altro. Non ci può essere l'invidia, il confronto, la gelosia di come Dio tratta l'uno o l'altro. Quanti paragoni spirituali: “quello ha capito prima di me”, “quello è più fortunato di me”, persino quando è messo in croce, “prima di me in croce”.

Abramo alzò gli occhi - è la seconda volta che Abramo leva lo sguardo verso l'alto, Dio è nell'alto, è lo stesso nome di Dio, “Alto”, per gli Ebrei - e vide un ariete. Guardando Dio, capisce la sua volontà, Lui aveva preparato il sacrificio. L'ariete non è apparso come magia, Dio non è Mandrake, per cui il caprone appare improvvisamente. Noi lo immaginiamo così e anche nel film “I dieci comandamenti” ci sono queste apparizioni magiche. Non è così.

Dio non ha bisogno del miracolistico, della quinta dimensione o di una realtà parallela in cui ogni tanto fa capolino il miracoloso, il misterioso. A Dio basta questa realtà in cui si è incarnato e non ce ne è un'altra. Proprio questa storia concreta, reale è quella abitata da Dio, con la quale salva gli uomini. Non ha bisogno di violare la storia, anzi gli è fedele. Non ha bisogno di inventarne un'altra, di fuggire perché le cose avvengano, di apparire, di violare le leggi, anche se gli scappa di farlo, come a Gesù scappavano i miracoli ogni tanto.

Non era per instaurare un'altra storia, ma erano i segnali di una pienezza dei tempi che questa stessa storia ci porterà. La mia è una azione demolitrice proprio perché continuiamo ad attribuire a Dio cose solo nostre. Siamo noi che sogniamo sempre questa quinta dimensione. Ci sono cose interessantissime sugli extraterrestrì, sulla fantascienza, belle e intelligenti. Leggevo un saggio sulla fisica di Star Trek, interessantissimo. Quando diamo il nome giusto alle cose possiamo concedercele. Lasciamo però che rimangano un sogno: ci serve il sogno, la fantasia, l'immaginazione. Ma non chiamiamola realtà. Non lasciamo che a dettare i nostri pensieri, le nostre azioni, i nostri rapporti siano i sogni.

Nella vita c'è posto per ogni cosa, il buon Dio l'ha studiata proprio bene, ma dobbiamo lasciarla al suo posto. Dio non chiede nessuna rinuncia. Noi abbiamo bisogno di riconciliarci con la realtà perché è l'unico luogo in cui c'è Dio: Dio non è nei nostri pensieri o fantasie o emozioni. Dio è in ogni cosa che è semplice, senza piega, senza nascondimento, in ogni cosa che è se stessa.

Abramo chiamò quel luogo: “Il Signore provvede”, per cui oggi si dice: “Sul monte il Signore provvede” - anche se il testo è piuttosto corrotto ci va bene così: sul monte Dio provvede. Ricordate bene questa frase perché capita spesso di dover salire su una montagna; le montagne sono belle ma faticose perché devi portare il peso sempre su una gamba sola e tirarti su da solo, senza nessuno che ti spinge, con la meta che ti sembra sempre lontana e tu hai fame e sete, c'è il sole e vorresti solo arrivare ed invece devi fare con pazienza un passo dopo l'altro senza fermarti.

E' l'immagine migliore della vita, quella della salita sulla montagna. Quando siete sulla montagna dite: “Questo è il luogo in cui Dio mi ama ed ha cura di me!” Vi servirà per non tornare indietro, per evitare di scappare di fronte alla montagna, che vi si presenta davanti, ma soprattutto perché la montagna, che di per sè non ha alcun valore, diventi il luogo della vostra fede, il luogo del sacrificio, del vero culto reso al Padre, in spirito e verità. Sono questi i cultori che cerca il Padre. Li cerca davvero. Proprio come il Padre di Luca 15.

Poi l'angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore, poiché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato il tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare. La tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici, saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”. La fecondità della fede! A che serve la fede? Non a salvare me: la fede ha la sua fecondità che è questa comunione col Padre in modo tale che la vita del Padre passi verso l'umanità. E nel momento in cui io faccio da elemento di trasmissione di questa vita, io sono un bene per l'umanità.

Vivere nella fede, al di là di quello che poi significhi nella realizzazione, vuol dire davvero costruire la vita che Dio vuole, vuol dire fare del bene, vuol dire fecondità di generazione in generazione. La mia fede è benedizione per tutti. Non è solo poesia. E' vero quando si dice: “Cosa devi fare? Credi! Sei in una situazione difficile? E' quello il momento in cui ti viene chiesta la fede”. Non è rassegnazione e passività. Ti viene addosso una macchina e ti rompe le costole “Che cosa vuoi farci?”, non puoi dire: “Io accetto!” Certo che lo accetti, cosa vuoi fare?! Mi piace l'idea della rassegnazione: la gente si rassegna quando non può fare diversamente. Quello che veramente bisogna avere è una accettazione di una situazione, di una montagna da scalare in cui siamo chiamati a crescere nella fede.

C'è una espressione della lettera agli Ebrei che dice che Gesù ha imparato ad essere figlio dalle cose che patì. E' un abisso questa frase: Gesù ha imparato, non è nato che sapeva tutto. Non per nulla quegli episodi di un Gesù che fa volare gli uccelli di creta o piegare le palme per dar da mangiare alla Madonna che aveva fame sono diventati apocrifi. Gesù ha imparato a leggere, scrivere, capire. Ha imparato a credere. Ecco perché è nostro fratello, realmente. Ha patito anche lui la montagna, la stessa montagna di Abramo e lo ha vissuto in pieno. Imparò l'obbedienza, ad essere figlio. Gli è costato anche a lui imparare, certo non aveva la resistenza che abbiamo noi del peccato, ma imparare per una realtà umana è sempre una fatica, un impegno.

Mi piace tanto questo Gesù bambino che si faceva la pipì addosso - non posso dirlo perché si scandalizzano! Gesù ha imparato; sentitelo fratello in questo. E' veramente la possibilità della mia umanità di essere figlio, di obbedire. Ha patito anche Lui, ha fatto la fatica di crescere, ha imparato un mestiere. Giuseppe probabilmente gli ha insegnato il suo mestiere di carpentiere, gli avrà dato anche qualche sberla perché non avrà saputo tagliare un pezzo... Dio non è carpentiere!

Il concetto fondamentale che la fede e quindi l'obbedienza non è l'obbedienza ad un comando ad un dictat che mi viene trasmesso ed è contro la mia vita, ma è la scoperta di un amore: obbedendo mi sento amato ed è l'unico motivo per cui mi sento di obbedire. Se si scopre questa dimensione, allora ha senso l'impegno di vita cristiana, sia nel privato, privatissimo, che nel pubblico. Ogni chiamata vederla e viverla come un gesto d'amore, una ulteriore conoscenza del nostro essere, del nostro Padre, del suo amarci. La fede è questa e Dio - non dimentichiamolo mai - Dio è Padre.

Dio è Padre. Vorrei allora dire qualcosa a riguardo della paternità di Dio e degli uomini. Tanto per demolire: facciamo lo sbaglio di applicare a Dio Padre le caratteristiche del padre terreno. Ha ragione la psicanalisi a dire che questo non si fa. Molte persone hanno realmente difficoltà a capire che Dio è Padre, perché hanno una brutta esperienza col proprio padre, soprattutto le figlie. E' questo un grosso problema dal punto dì vista culturale.

Bisogna fare il processo inverso: bisogna studiare la paternità di Dio per capire la paternità degli uomini. Perché è dalla paternità di Dio, come dice Paolo, che viene ogni paternità. E quando Gesù dice che non bisogna chiamare nessuno padre sulla terra, perché siamo tutti fratelli, dice una grande verità perché ogni padre sulla terra delude, anche i padri spirituali, perché l'unico vero Padre, che non delude, è quello che è nei cieli. Per questo sulla terra i padri devono deludere o finiremmo per aggrapparci troppo a loro. Noi padri dovremmo essere solo segno di questa paternità e rimandare continuamente a quella di Dio. Guai se qualcuno si aggrappasse a questa paternità come se fosse il Padre definitivo.

Ci sono figlie inconsolabili che sognano sempre quel padre che hanno avuto, tanto più se poi è morto. Diventa un mito che gli impedisce di godere dell'uomo che hanno accanto. Oppure il mito del fondatore, del padre spirituale che “mi capiva, oh quanto!” Il mito dell'essere capiti è uno splendore! Andare alla ricerca del padre che mi capisce! Il tormentone dell'adolescenza, ma anche dopo (perché l'adolescenza per qualcuno finisce con la menopausa), del padre che mi capisce ha una piega. La piega è che sotto il cercare qualcuno che mi capisce voglio trovare qualcuno che mi ama. Ma siccome siamo pudibonde non usiamo il termine “ama”, ma “capisce”. Tanto più nella donna nella quale la parola ha un peso molto più grande che nell'uomo.

Eb 5, 8
24 Ef 3, 14
21 Mi 23, 9

Testi dello stesso autore presenti sul nostro stesso sito www.gliscritti.it