«Nella malattia che mi ha immobilizzato da due anni, ho scoperto la virtù dell’attesa. Aspettare semplicemente, come ci aspetta Dio stesso». Sulla soglia, contemplando la vita, di Olivier Clément
Riprendiamo sul nostro sito l’ultimo capitolo “Sulla soglia, contemplando la vita”, dal volume di O. Clément, Un lungo per rinascere, Ispirazioni di un cammino, Roma, Lipa, 2010, pp. 170-175. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. . I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Maestri nello Spirito.
Il Centro culturale Gli scritti (23/5/2022)
La vecchiaia per me è arrivata senza che ci pensassi. Mi hanno sempre più preoccupato le rughe che mascherano il volto del cristianesimo delle mie.
Si agisce (anche se sempre di meno, è vero), si prega (non molto di più di quanto si agisca), si è piuttosto tentati di leggere romanzi polizieschi.
Poi tutto ad un tratto arrivano le precarietà. Il petto si stringe di notte nell’insonnia, le gambe non vogliono camminare. Alcuni hanno la fortuna di rimanere attivi, svelti fino alla fine. Muoiono solo combattendo. Un po' li invidio.
Eppure la cosa più importante è di non scivolare nel disgusto di sé, sentimento che porta alla depressione e alla cattiveria. Ai nostri giorni, nei paesi con un’attenzione eccessiva alla salute, molti arrivano a sopravvivere miseramente. Vita degradata e degradante, quando il cervello e le funzioni principali sono intaccati.
A me, che ho la fortuna di essere ancora in me, che Dio mi dia umiltà - sì, sono anch’io qualcosa di disgustoso - e mi dia anche la fiducia.
L’inaccessibile ideale rimane l’esempio del filosofo Plotino. Anziano, malato, mandava un odore disgustoso ma parlava della bellezza in un modo tale che i suoi discepoli affluivano e si moltiplicavano. A me, che non sono né Plotino né Porfirio, mi potrebbe toccare anche il bel destino di Giovanni Scoto Eriugena, quello cioè di essere massacrato dai propri studenti. Ma questa è la letteratura.
Se riusciamo a pregare un po' nella debolezza, l’età e la malattia ci tolgono il peso di molti rancori, di molti segni, ci aiutano a perdonare coloro che ci hanno offesi, come d’altronde chiediamo nel Padre Nostro. E poi, per quanto riguardo coloro che noi abbiamo offeso, rimane la penitenza e, anche se non sempre, una specie di ricupero…
Nella malattia che mi ha immobilizzato da due anni, ho scoperto la virtù dell’attesa. Saper aspettare. Prima c’era un’immediata coincidenza tra il volere e il fare. Volevo alzare il braccio, lo alzavo. Volevo scrivere, prendevo una penna e scrivevo.
Oggi, voglio scrivere, non posso, la mia mano non si muove. Voglio qualcosa, devo gridare per farmi sentire e poi aspettare che qualcuno venga, quando può.
Devo imparare ad aspettare. Aspettare semplicemente, come ci aspetta Dio stesso.
In questo ho scoperto una dimensione della speranza: la pazienza di attendere. Così il mio tempo si svolge tutto intorno all’attesa. Aspetto Dio: ecco ciò che faccio da malato e da vecchio.
Non posso fare niente, ma posso ascoltare e aspettare.
Posso usare le braccia, non le mani. Posso vedere, ma non scrivere. Per qualcuno che ha passato la vita a scrivere, è difficile questa realtà. Mi sento come uno strumento rotto in tutti i sensi.
Aspetto di essere aggiustato, spostato, pulito. Aspetto di essere gettato in Dio. Non comando niente e nessuno, obbedisco. Ecco la mia vita
È come se tutto in fondo si giocasse sul colore del tempo, voglio dire del tempo interiore. Se per noi la morte è una caduta nel nulla, il tempo assume il colore dell’angoscia.
Se invece è un’apertura di luce, il tempo si colora di speranza. Il tempo o piuttosto l’istante. Per l’anziano, come per il bambino, non c’è domani. C’è un oggi in cui la fede può trasformare l’angoscia in speranza, la morte in risurrezione.
E questo è anche il senso dell’essere nella Chiesa, dove siamo liberati dalla preoccupazione della continuità: in tutti i modi l’essenziale continua, cioè la comunione dei santi che mi attraversa e che non potrebbe interrompersi.
Certo, quando siamo vecchi non si può più combattere, né servire. Percepiamo con una particolare intensità il dolore degli uomini. A questo proposito capovolgerei qui un verso di un bel poema di Rilke: “Chiunque ora piange nel mondo ora piange su di me”. Direi piuttosto: “Chiunque ora piange nel mondo, sono io che piango…”.
Ed è vero. Vedendo, sentendo alcune cose, mi capita di piangere stupidamente, in modo ridicolo. Eppure so che la risurrezione di Cristo è l’ultimo parola.
Se un giorno il dolore si radica nella carne tutta intera, diventa insopportabile. Allora spero che le cure palliative riusciranno ad attenuare il dolore senza oscurare la coscienza.
Morire nella pace e con lucidità è ciò che chiediamo in ogni celebrazione eucaristica. Sappiamo che i martiri, nel vero senso della parola, nel momento della più vera sofferenza si abbandonano a Cristo.
Conoscono in quel momento un’esperienza della risurrezione, una gioia senza limiti. Ecco, su questo nell’antichità abbiamo tante testimonianze senza lirismo né compiacimento. Io stesso ho ascoltato la testimonianza di contemporanei strappati in extremis alla morte. Non credo che si muoia da soli: Cristo ci aspetta, aspetta l’uomo nella morte, la più solitaria, la più disperata.
E certo, se Dio lo permette, è bene che non smettano in quegli ultimi momenti la preghiera e la presenza dei cari. Una mano posata sulla nostra mano, sulla fronte… Grande è allora la presenza da un amico, di una donna soprattutto, ultima maternità.
Nel passato, come ha fatto vedere Philippe Ariès, il moribondo organizzava la sua partenza secondo un rituale vero e proprio: riuniva intorno a sé parenti e amici, esprimeva le sue ultime volontà, diceva qualche parola di pace e di speranza. Oggi questo capita raramente, perché il più delle volte si muore all’ospedale, nell’incoscienza e nella solitudine.
A che scopo criticare? È meglio rileggere due brevi racconti in cui Tolstoj ha detto tutto l’essenziale sulla morte: La morte di Ivan Illich e Padrone e servo. Ogni volta c’è una metanoia, doloroso rovesciamento del cuore fino a dare la propria vita per un altro. E sempre questo tunnel suggerisce come un percorso uterino che finisce per sbucar fuori sulla luce…
Intanto, in questo tempo, ho scoperto cose meravigliose: le nuvole… il vento. Ho scoperto che si può vedere il vento! Gli uccelli passano nel cielo. Vedo dalla finestra il campanile di una chiesa vicina e nell’orizzonte la grande basilica del Sacro Cuore. Vedo il Sacro Cuore e la croce sul campanile della chiesa.
C’è tutto. Il cuore e la croce. Il cuore ardente, focolaio incandescente, il cuore di Dio che si fa uomo, il cuore di Parigi, il cuore della terra, insieme il cuore di Dio e il cuore della terra.
Considero una grande fortuna vedere il cuore e la croce. È una grande fortuna quando si sta a letto e si può guardare dalla finestra il cielo, un campanile, una basilica… il cuore di Dio è come una presenza, una promessa.
Ho scoperta anche il valore della vita nei vegetali. Alcune ore al giorno posso stare davanti al terrazzo, seduto a guardare le piante. Ho imparato ad osservare uno stelo verde che cresce prima di dare il fiore, e poi il colore, la curva, la purezza che si manifesta mi commuove.
Ho imparato a scoprire che veramente la vita delle piante è una meraviglia. Quando si è sani e giovani, queste cose non contano tanto, non si dà importanza alle piante. Ora, capisco che si tratta di vita, di vita semplice, di vita che cresce, senza decidere, ma che obbedisce. Vorrei imparare ad obbedire alla vita in me, anche in questa situazione in cui non posso muovermi, né decidere niente per me.
Il mio tesoro è Dio. Dio nella vita intima.
Ma di questo non si deve parlare. È troppo profondo. Eppure è la vita che contemplo guardando la bellezza dei fiori.