Caravaggio: il marchese Giustiniani capì bene come il Merisi dipingesse unendo la “maniera”, cioè studiando e imitando i maestri, e al contempo al naturale, cioè imitando la realtà. Per Vincenzo Giustiniani questo era il modo più perfetto, quello di Caravaggio, dei Carracci e di Guido Reni (da un testo di Sara Magister)
Riprendiamo sul nostro sito un brano dal volume S. Magister, Caravaggio. Il vero Matteo, Roma, Campisano, 2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Caravaggio.
Il Centro culturale Gli scritti (19/4/2022)
N.B. di Andrea Lonardo Con grande acutezza, a partire dalle considerazioni del Marchese Giustiniani, amico e collezionista di Caravaggio, Sara Magister mostra quanto sia unilaterale una presentazione del Merisi unicamente come pittore “della natura”, del “naturale”, della “storia”, come pittore del “realismo”. Egli è certamente pittore della realtà, ma al contempo sa studiare e citare i grandi maestri, così come inserire luci che sono tutt’altro che al naturale, bensì corrispondono al suo desiderio di porre il rilevo questo o quel particolare, questo o quel gesto. Al contempo si potrebbe aggiungere che il Merisi è pittore che utilizza un forte simbolismo, come nel contrasto fra i personaggi dipinti alla maniera neotestamentaria, con i piedi nudi, come li si rappresentava all’epoca, e quelli vestiti alla maniera del seicento; cfr. su questo A piedi nudi. Nelle tele di Caravaggio l’incontro fra i personaggi neotestamentari e gli uomini del seicento, di Andrea Lonardo.
[…] è proprio il marchese Vincenzo Giustiniani che ci fa capire come in quel tempo il rapporto tra i diversi livelli sociali, e i diversi stili artistici, fosse assai più fluido e intercambiabile: “Duodecimo modo, è il più perfetto di tutti; perché è più difficile [...] cioè dipingere di maniera, e con l’esempio davanti del naturale, ché così dipinsero [...] ai nostri di il Caravaggio, i Caracci, e Guido Reni, ed altri, tra i quali taluno ha premuto più nel naturale che nella maniera, e taluno più nella maniera che nel naturale, senza però discostarsi dall’uno, né dall’altro modo di dipignere, premendo nel buon disegno, e vero colorito, e con dare i lumi propri e veri” (nota 1, vedi poco dopo).
Bisogna quindi dar più credito a un colto committente e collezionista che vede in Caravaggio e Carracci più assonanze che distanze? Oppure al Bellori, che settant’anni dopo passerà sotto silenzio tutte le evidenti citazioni classiche e rinascimentali nei quadri del Merisi (nota 2 , vedi poco dopo) e stigmatizzerà l’incompatibilità tra i due, con una descrizione che ha del grottesco, oltre che del falso: “Il Caravaggio, se bene giovò in parte, fu nondimeno molto dannoso e mise sottosopra ogni ornamento, e buon costume della pittura [...] finché Annibale Carracci venne ad illuminare le menti et a restituire la bellezza all’imitazione” (Nota 3, vedi poco dopo)?
Nota 1
In una famosa lettera scritta dal marchese Vincenzo Giustiniani, colto collezionista del Merisi e di molti altri artisti, all’amico Teodoro Ameyden, datata a circa il 1617-18 o a poco dopo il 1620, il marchese esplicita la sua idea sui differenti “modi artistici” presenti a Roma nel suo tempo. Si tratta di una fonte autorevolissima in quanto il Giustiniani aveva un’esperienza diretta e attiva, come collezionista e committente, dei diversi stili e linguaggi pittorici, pur non essendo un “tecnico del mestiere” (cfr. a proposito Caravaggio e i Giustiniani, 2001, passim; Giustiniani, 2006; Macioce, 2010, pp. 317- 319 F12; Baldriga, 2011 – che propende per una datazione della lettera al terzo decennio del XVII secolo – con bibl. prec.).
Diventa quindi ancora più interessante il rilevare che il Giustiniani non inserisce Caravaggio nel gruppo dei puri naturalisti, di cui invece fanno parte i suoi seguaci fiamminghi, ma all’interno del “modo” più alto, il dodicesimo, in cui vi eccellono anche i classicisti Annibale Carracci e Guido Reni:
“Decimo, è il modo di dipignere, come si dice, di maniera, cioè che il pittore con lunga pratica di disegno e di colorire, di sua fantasia, senza alcun esemplare, forma in pittura quel che ha nella fantasia [...] nel quale modo ha dipinto a’ tempi nostri il Barocci, il Romanelli, il Passignano, e Giuseppe d’Arpino [...]
Undecimo modo, è di dipignere con l’avere gli oggetti naturali davanti [...] come ai tempi nostri, lasciando gli antichi, hanno dipinto il Rubens, Gius. Spagnuolo [Ribera], Gherardo [van Honthorst], Enrico [Hendrick ter Brugghen], Teodoro [van Baburen o Rombouts], ed altri simili, la maggior parte Fiamminghi esercitati in Roma, che hanno saputo ben colorire.
Duodecimo modo, è il più perfetto di tutti; perché è più difficile, l’unire il modo decimo con l’undecimo già detti, cioè dipingere di maniera, e con l’esempio davanti del naturale, ché così dipinsero [...] ai nostri di il Caravaggio, i Caracci, e Guido Reni, ed altri, tra i quali taluno ha premuto più nel naturale che nella maniera, e taluno più nella maniera che nel naturale, senza però discostarsi dall’uno, né dall’altro modo di dipignere, premendo nel buon disegno, e vero colorito, e con dare i lumi propri e veri” (Cinotti, 1971, p. 166 n. F118). Sull’identificazione dei personaggi citati cfr. anche Slatkes, Franits, 2007, pp. 5-6, che ipotizza che il Teodoro potrebbe essere sia il Baburen ma anche Theodoor Rombouts. Sul classicismo nel realismo del Merisi cfr. anche Bona Castellotti, 2014, pp. 193-194 con bibl. prec. In coerenza con tale pensiero i Giustiniani avevano un vero e proprio quartetto di tele ove il Matteo e l’Angelo del Merisi era affiancato da altri evangelisti di Guido Reni, Francesco Albani e Domenichino.
Nota 2
Che il Merisi disprezzasse i grandi maestri lo dice già il van Mander (Dall’Acqua, Cinotti, ca.1971, p. 164 n. F109; Van der Sman, 2016a, p. 14 sulle sue fonti). Ma è soprattutto il Bellori a stigmatizzare Caravaggio come un pittore rozzo e incolto, che pone la natura senza filtri a suo unico modello (Bel- lori, 1976, pp. 214 e 229-230): “Datosi perciò egli a colorire secondo il suo proprio genio, non riguardando punto, anzi spregiando gli eccellentissimi marmi de gli antichi e le pitture tanto celebri di Rafaelle, si propose la sola natura per oggetto del suo pennello. Laonde essendogli mostrate le statue più famose di Fidia e di Glicone, accioché vi accomodasse lo studio, non diede altra risposta se non che distese la mano verso una moltitudine di uomini, accennando che la natura l’aveva a sufficienza proveduto di maestri”; e ancora: “Professavasi egli inoltre tanto ubbidiente al modello che non si faceva propria né meno una pennellata, la quale diceva non essere sua, ma della natura; e sdegnando ogn’altro precetto, riputava sommo artificio il non essere obligato all’arte”. Anche lo Scannelli aveva già descritto il Merisi come il capobanda di una ciurma di poco di buono, definendolo: “Il primo capo dei naturalisti”, cfr. F. Scannelli, nel Microcosmo della Pittura, Cesena 1657, in Dall’Acqua, Cinotti, ca.1971, p. 167 n. F121 e Gozzano, 2005, p. 98. Il Bellori iniziò a raccogliere materiale sulla vita del Merisi attorno al 1645, ma continue modifiche accompagnarono la genesi dell’opera, stampata solo trent’anni più tardi, nel 1672, ma sulla faziosità, le volontarie omissioni e i cambiamenti sociali evidenti in tali biografie cfr. Jones, 2008, pp. 115-119; Röttgen, 2009, p. 189; Nicolaci, 2010, p. 76; Barbato, 2010; Calvesi, 2010, p. 734; Valdinoci, 2010a; Zuccari, 2011a, pp. 292-294; Zuccari, 2011d, pp. 269-270 e ss. e il capitolo V in questa sede.
Nota 3
Bellori, 1976, pp. 231. Più che di Caravaggio qui il Bellori pare riferire dei caravaggeschi, che effettivamente si contrapposero a quei classicisti che li “sconfissero” dopo gli anni Trenta del Seicento. Per un veloce ma preciso excursus sul fenomeno del caravaggismo a Roma, sviluppatosi tra il 1610 e il 1632 circa, cfr. Zuccari, 2010, p. 40 e ss.