Il Vangelo secondo Harry Potter di don Luca Corona, DM
Riprendiamo sul nostro sito il testo di una relazione di don Luca Corona, direttore del Collegio Mazza di Roma. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura. Qui il file audio dell'incontro su Harry Potter con Andrea Lonardo, Roberta Tosi e Alessio Puccio, voce italiana di Harry: Harry Potter Ascoltando i maestri (Lonardo Tosi Puccio).
Il Centro culturale Gli scritti (19/4/2022)
La storia comincia da qui (il libro lo dice meglio del film), con tutto il mondo dei maghi in festa, gufi e stelle cadenti per tutto il cielo in una irrefrenabile esplosione di gioia per la sconfitta del Signore Oscuro.
Le celebrazioni sono così grandi da essere viste persino nel mondo dei babbani. Una pioggia di stelle cadenti su tutta la Gran Bretagna… questa scena d’inizio ricorda un’altra storia che tutti conosciamo, in cui un bambino di cui tutti conosceranno il nome, che resterà nascosto non per 11 ma per 30 anni per poi presentarsi al mondo, un bambino che ha dormito fuori nell’aria fredda della notte mentre gli abitanti di un altro regno irruppero nei cieli per proclamare al mondo la propria gioia irrefrenabile con il canto: Gloria in excelsis Deo, gloria a Dio nell’alto dei cieli.
La Rowling ha voluto sempre la tendenza a centellinare le rivelazioni sulla propria vita privata. Già dalla prima uscita di HP e la Pietra filosofale ci si domandava chi si celasse dietro le iniziali J. K… anche se al dire il vero fu il suo editore a chiedere di non firmare il libro con il nome di Joanne per timore che nessun maschietto avrebbe letto qualcosa scritto da una donna.
In una intervista di 15 anni fa, all’uscita del IV libro della saga, la Rowling rivela che dietro ad alcuni personaggi ed episodi del romanzo, c’è anche un po’ della sua infanzia e della sua vita. Così veniamo a sapere che i suoi nonni si chiamavano Ernie e Stanley come il conducente e il bigliettaio del bus Nottetempo, che la sua nonna era un po’ fissata coi cani e ha dato ispirazione per la zia Marge (sorella di Vernon che H gonfia all’inizio del III libro), che i suoi genitori si conobbero su un treno per la Scozia che partiva dalla stazione di King’s Cross a Londra, che a nove anni si trasferì a Tutshill, un paesino in Galles, dominato da un’altura con in cima un castello medievale, che l’insegnante del paese ha dato parecchi spunti per il personaggio di Piton, che la Ford Anglia turchese che salva Harry dai ragni della foresta proibita l’ha salvata dalle ragnatele della noia durante l’adolescenza.
L’autrice ha poi mantenuto un riserbo particolare sulla propria appartenenza religiosa, forse per un motivo analogo, ovvero per non allontanare lettori che la pensassero diversamente da lei. Ha così atteso l’ultimo volume per citare esplicitamente la Bibbia, più precisamente il Nuovo Testamento, con i due versetti: “Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” e “l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte”, rispettivamente nel vangelo secondo Matteo, capitolo VI e nella prima lettera ai corinzi, capitolo XV.
Citazioni bibliche che troviamo entrambe nel capitolo della visita di Harry a Godric’s Hollow, villaggio dove è nato e hanno trovato la morte i suoi genitori. La Rowling, proprio punzecchiata su queste due citazioni nel 2007 dichiara che: "Queste due citazioni particolari che Harry trova sulle lapidi a Godric’s Hollow, riassumono, quasi incarnano tutta la serie".
Ma allora perché non parlarne prima apertamente? Risponde: “Per me i paralleli religiosi sono sempre stati ovvi, ma non ho mai voluto parlarne troppo apertamente perché pensavo che avrebbero potuto mostrare alla gente che voleva solamente la storia, la direzione dove stavamo andando”. Dunque tacere sulla propria appartenenza religiosa e dei parallelismi religiosi cristiani fino alla conclusione della saga non solo le ha permesso di non precludere la lettura dei suoi romanzi a persone di fede diversa da quella cristiana o addirittura senza, ma le ha concesso anche mani libere nel trattare la propria opera fino in fondo.
Così solo nel 2007, al quotidiano olandese De Volkskrant dichiara: “Sono stata educata ufficialmente nella chiesa anglicana, ma ero un tipo strano (freak) in famiglia. Non parlavamo di religione a casa. Mio padre non credeva in nulla e neanche mia sorella. Mia madre ogni tanto andava in chiesa, ma soprattutto nel periodo natalizio. Ed ero immensamente curiosa. Dall’età di 13-14 anni andavo in chiesa da sola. Trovavo molto interessante ciò che veniva detto lì e ci credevo. Quando sono andata all’università sono diventata più critica. Mi stufai dell’autocompiacimento delle persone religiose e cominciai a frequentare la chiesa sempre meno. Ora sono al punto dove ho iniziato: sì, io credo. E sì, io vado in chiesa. Una chiesa protestante qui a Edimburgo”.
Il fatto che Harry Potter sia amato dai bambini e dalle bambine di tutto il mondo, a prescindere dalla fede in cui crescono, non rende la saga meno cristiana, sia per una questione dogmatica (i cristiani appartengono a Cristo ma Cristo non appartiene esclusivamente ai cristiani, per cui il messaggio cristiano travalica necessariamente i confini della chiesa) sia perché l’obiettivo della Rowling non era quello di evangelizzare il mondo, ma di raggiungere quante più persone possibili coi suoi libri.
Allora forse qui sta la base del suo successo, ovvero nell’essere riuscita a parlare con tutti. I romanzi di Harry Potter son per maschi e femmine, uomini e donne, giovani e anziani. Trasmettono qualcosa al teologo, come al letterato, allo psicologo e allo scienziato.
Per raggiungere quest’altezza, il monte Baldo letterario, Rowling si è servita del suo amore per la cultura e delle reminiscenze degli studi classici. Troviamo infatti tracce di cultura ebraico-cristiana, greco-romana, delle mitologie nordiche e celtiche, come anche della letteratura moderna e contemporanea, insieme ai riferimenti più disparati, dalla botanica al femminismo, dalla storia alla fisica, e il tutto senza fare uno sterile “copia-incolla”, senza ostentare la propria conoscenza, senza usare ciò che si conosce per escludere il lettore, ma, appunto, come le è riuscito, per farlo sentire ancora più a suo agio. In una parola: cultura.
Perciò ritengo che questi romanzi siano molto mazziani[1]: per appunto aver sapientemente unito cultura e vangelo.
Una delle chiavi del successo della saga di HP è poi l’ancoraggio alla vita. Non solo i personaggi sono cresciuti da libro a libro, allo stesso modo in cui sono cresciuti anagraficamente i lettori, ma anche le problematiche di volta in volta toccate sono diventate più complesse con la crescita di coloro (personaggi e lettori) chiamati ad affrontarle. L’ambizione è stata quella di raccontare la crescita di un bambino di undici anni fino al raggiungimento della maturità. HP, lo possiamo dire, è una riuscita metafora dello sviluppo, psicologico ed esistenziale, dall’infanzia all’età adulta, dove comparirà la domanda delle domande.
Vediamo nel romanzo una progressione al nero con una crescita degli episodi di violenza e di atmosfere sempre più cupe, con una tematizzazione sempre più spinta dei nodi spinosi della politica (basti pensare al burocratico Ministero della Magia), del razzismo (Mudblood – Sanguemarcio), delle classi sociali (Maghi purosangue, mezzosangue; elfi domestici, folletti – goblin) e del Male, ma persino lo stile di scrittura della Rowling cambia, divenendo più ricercato e complesso.
La saga si è modificata, modellata, trasformata di pari passo ai suoi appassionati. È la caratteristica produttiva dell’opera della Rowling: ispirata dal lettore e verso il lettore ispirativa. In fondo, al di là dei riferimenti iconografici, dei temi, delle analogie ecc. l’aggancio al vangelo è proprio questa porosità dal testo al contesto e viceversa.
Umberto Eco in Storia delle terre e dei luoghi leggendari, sulla geografia immaginaria, dice che “è solo nei romanzi che possiamo trovare l’inconfutabile verità. Sappiamo bene che certi luoghi sono un’invenzione romanzesca. Ma la prendiamo per verità”.
Eco individua con facilità nell’opera di HP i tre grandi filoni della letteratura per l’infanzia. Il brutto anatroccolo (bambino dall’orrendo presente ma dal nobile passato e destinato a un radioso avvenire); la scuola nella sua versione classica (college) in cui gli studenti non solo imparano le materie del programma ma vivono e crescono insieme; la magia.
Anche per lui questi libri servono a crescere. L’aspetto interessante di HP, conclude, è che i giovani personaggi della saga siano responsabilizzati quasi allo stesso livello degli adulti e, dove questo non avvenga, gli adulti si accorgono che è stato un grave errore (vedi le scuse di Silente alla fine del V libro).
Tentativo, dunque, di questo nostro intervento è rintracciare nella sagomatura nascosta della narrazione e dei personaggi alcuni spunti – bagliori – evangelici.
Il vangelo secondo HP agli occhi di molti potrebbe sembrare un titolo quantomeno stravagante, se non addirittura blasfemo. Magia e teologia sembrano infatti essere una la nemesi dell’altra e la tradizione cristiana ha portato avanti questa convinzione nei secoli, in alcuni momenti in maniera ossessiva e persino omicida.
Il ruolo della magia nella saga di HP è particolare e ha una caratteristica originale: essa è un elemento della natura (o in termini teologici), è parte del creato e non è un imbroglio del diavolo.
È infatti cosa difficile padroneggiare la magia, ovvero doverla imparare a scuola, esattamente come noi babbani impariamo il latino, le scienze o l’italiano. Inoltre, maghi e streghe sono naturalmente magici, così come babbani e babbane sono naturalmente non magici.
Leggendo HP non può non colpire il fatto che la scienza e la tecnologia babbana sia in alcuni casi più potente della magia, se non almeno più pratica. Se con la magia si possono riparare gli occhiali, tuttavia non si può correggere la miopia (per la quale basterebbe una operazione chirurgica!).
Le opposizioni alla magia sono rappresentate già dentro al romanzo dalla famiglia Dursley, ovvero gli insopportabili zii Vernon, Petunia e il cugino Dudley. Essi rappresentano e anticipano i critici ideologici di HP. Non vogliono avere nulla a che fare con le stravaganze che HP ha ereditato dalla madre Lily, sorella di Petunia.
E di conseguenza vivono una vita triste, forse ancora più triste di quella che riservano al povero HP, costretto a vivere per anni nello sgabuzzino del sottoscala. Sono dei qualunquisti che vivono per l’apparenza e per la televisione.
La zia Petunia è magra e nervosa, mentre lo zio Vernon e il cugino Dudley sono obesi e violenti. Questa è la conseguenza di vivere una vita dove la fantasia non ha alcun posto.
La Rowling attraverso di loro ci dice che il mondo ha bisogno di fantasia per continuare a vivere e per continuare a sperare. E anche la fede ha bisogno di fantasia!
Se dobbiamo a tutti i costi ricercare un versetto biblico per dire questo, possiamo citare il vangelo di Matteo al capitolo 18: “in verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli”. Dove il simbolismo dei bambini è utilizzato proprio per indicare la capacità di riscoprire con meraviglia la magia e l’incanto della vita e del mondo.
Harry nel primo libro viene a sapere della sua vera vita, di quella che gli è stata preclusa nei dieci anni vissuti coi Dursley: incredulità e gioia sono i sentimenti da lui provati. Non è un bambino come gli altri. Non vive in una camera degna di questo nome, ma dorme in un ripostiglio, nel sottoscala, che non ha neanche la finestra. Harry è mingherlino, non perché viva in un contesto di privazioni, ma perché è denutrito in un contesto di abbondanza, ben espresso dall’obesità dello zio e del cugino. Harry non ha un solo indumento proprio, perché eredita quelli del cugino grosso quattro volte tanto.
A chi chiede dove studi Harry, lo zio risponde che egli frequenta san Bruto, una scuola speciale per ragazzi con tendenze criminali. Le 5 persone cui è stato affidato non si sforzano minimamente di riempire, fosse anche in parte, il vuoto affettivo del bambino, che cresce come una persona non amata.
Per certi versi parallela ma con esiti opposti è la vicenda personale di Tom Riddle che, come Harry, è un mezzosangue, non ha i genitori, vive una infanzia triste e vuota, miserabile, prima di scoprire di essere un mago e di frequentare la scuola.
Le due storie, le sofferenze subite, l’isolamento vissuto sono simili per Tom e Harry. Con questa strategia narrativa la Rowling ci dice l’impossibilità di spiegare il male ed inficia la teoria del rapporto natura-ambiente… perché pur avendo avuto un’infanzia simile, pur essendo stata la scuola di Hogwarts la casa che non hanno mai avuto, pur avendo doni e potenzialità simili, volendo entrambi risolvere le cose da soli senza coinvolgere gli adulti, HP e TR sono radicalmente diversi.
I due ragazzi si diversificano, ma continuano ad avere diverse cose in comune: prima fra tutte la loro bacchetta magica, che pur essendo di legno diverso, contiene una piuma proveniente dalla coda della stessa fenice.
Apro una parentesi. La bacchetta è una delle tante cose che HP non ha scelto nella propria vita. H, possiamo dire, non ha scelto ma è scelto. La differenza di legno tra le bacchette di HP e TR è uno dei dettagli interessanti di cui è costellata l’opera di Rowling. La prima è agrifoglio, la seconda di tasso. Si tratta di due piante che per un inesperto hanno varie somiglianze: entrambe si presentano come arbusti con foglie a punta spinosa e bacche rosse, ma sono piante profondamente differenti, sia da un punto di vista naturalistico sia da un punto di vista simbolico.
Il tasso infatti è una pianta particolarmente velenosa, soprattutto grazie alle sue bacche, da cui si traeva il veleno per le frecce (da cui il legame semantico tasso-tossico), appunto da essere soprannominato “l’albero della morte”. Anche l’agrifoglio può essere tossico (se le sue bacche sono ingerite in grande quantità) ma è una pianta utilizzata per le decorazioni dell’avvento e del Natale – che dunque suggeriscono una nascita (opposta, dunque, all’albero della morte). Nelle bacchette allora è già consegnata un’anticipazione della storia…
Ma arriviamo al dunque. Ci siamo convinti, e non solo noi… che, oltre a tanti bei temi di cui possiamo parlare, ce n’è uno che davvero condensa e da senso a tutta la saga. Lo diceva già la Rowling che quei due epitaffi a Godric’s Hollow sintetizzano tutto il senso del romanzo.
La chiave di interpretazione dell’intera avventura di HP, la vera co-protagonista di tutta la vicenda è la Morte. La morte è il personaggio più nominato dell’intera saga. La morte sventata presiede alla notorietà di HP, la morte temuta rappresenta l’ossessione di Voldemort, la morte personificata compare infine nell’ultimo romanzo.
La morte è in fin dei conti il vero interlocutore dei personaggi principali della storia. La morte è una sorta di nascosto alter ego che da dietro le quinte disegna il profilo umano del mago di volta in volta preso in considerazione.
Potremmo dire che la saga di HP tratta di come i vari personaggi si trovano di fronte alla morte, come la affrontano. Nei vari personaggi ci sono i modi di affrontare la morte.
Per esempio, Voldemort è importante perché rappresenta il nostro umano desiderio, spinto fino all’estremo, di vincere la morte. Paradossalmente, infatti, nessuno più di V è in lotta con la morte, nessuno più di lui la ritiene illegittima, nessuno più di lui vuole vincerla.
Sin dal primo incontro con Silente all’orfanotrofio di Londra, TR dimostra di considerare la morte un difetto, una mancanza, quasi una colpa. Subito dopo aver saputo di esser un mago, il piccolo TR chiede al professore se conosca suo padre, a cui probabilmente vanno ricondotti i suoi poteri, dal momento che sua “madre non può essere stata magica, se no non sarebbe morta”.
Per TR è il dominio sulla morte che definisce l’essere mago e l’essere umano. Riascoltiamo allora la storia dei tre fratelli. Una storia nella storia che condensa il tema centrale della morte. Il messaggio della storia è evidente. È stolta ostinazione voler evitare la morte, e l’unico atteggiamento corretto è quello di riconoscerne l’autorità, non sfidandola inutilmente.
Solo chi accetti la dimensione umana nel pieno delle sue implicazioni, vale a dire anche nel pieno delle sue limitazioni, è veramente pari alla morte. Da questa storia, commenta Silente nel libro Le fiabe di Beda il Bardo, è nata la leggenda del padrone della morte, ovvero di colui che impossessato di tutti e tre i doni diventa il vero e proprio signore della morte.
Apriamo un’altra parentesi. Deathly hallows. “Hallow” deriva dalla radice medievale “halowen”, a sua volta filtrata attraverso un più antico sassone “halgian”, la cui radice è “halig”, che designa l’aggettivo “sacro, santo”. Nel vocabolario Hazon-Garzanti “hallows” corrisponde al significato “reliquie di santi”.
Dopo qualche tempo aver divulgato il titolo, visto l’imbarazzo di alcuni traduttori, la Rowling fornì un altro titolo alternativo che è entrato nell’edizione svedese: Harry Potter and the Relics of Death. Basterebbe forse il titolo per entrare nell’immaginario cristiano ma… se facciamo attenzione il testo della fiaba non usa mai né “Hallows” né “relics”. Compare invece “prize”, che in italiano è tradotto con “premio”. Capite bene che la differenza tra “premio” e “doni” è sostanziale. Elder wand. Elder si presta ai giochi di parole cari alla Rowling: significa anche “il maggiore”, “il più antico”. In aggiunta in lingua sassone la radice eld significa “fuoco”.
Una credenza vuole poi che proprio col sambuco fosse fatta la croce a cui fu inchiodato Gesù e di certo la storia di nessun altro personaggio può vantare un intreccio così denso fra morte e risurrezione: un emblema perfetto per far riverberare nella bacchetta il vero Signore della morte, colui che l’ha sconfitta (ricordiamo la lapide a Godric’s Hollow) attraverso il sacrificio di se stesso.
A rafforzare questo intreccio di morte e risurrezione è anche il dato che riguarda l’anima della bacchetta di Sambuco: un crine di Thestral, la razza animale che può esser vista solo da chi ha visto morire qualcuno, solo da chi ha visto la morte.
Ma torniamo ai personaggi. La suggestione della Rowling è molto sottile ed efficace. Due potentissimi maghi, Silente e Voldemort, ciascuno dall’opposto versante del Bene e del Male, hanno cercato di aggirare la morte ed entrambi hanno miseramente fallito. Solo la sintesi operata da Harry, col sacrificio di se stesso sarà in grado di restituirle vita a se stesso e protezione a tanti.
Harry è il vero padrone della morte perché il vero padrone non cerca di sfuggirle. Accetta di dover morire e comprende che vi sono cose peggiori, nel mondo dei vivi, che morire. Sopravvivere alla morte… si può ma non è poi così vero… Fantasmi; Ritratti; Pietra filosofale (elisir di lunga vita); sangue di unicorno; inferi; pietra della risurrezione; horcrux.
Horcrux. Il procedimento per creare un horcrux fu portato a compimento per la prima volta dal primo mago oscuro, Herpo lo Schifido (che creò anche il primo Basilisco, il cui veleno è, insieme all’Ardemonio, l’unica cosa in grado di distruggerlo).
“Horh” è un sostantivo della lingua sassone che in inglese viene reso con rehum o humor: “muco” o “umore” ma sempre nell’accezione di fluido biologico (come il sangue o la linfa). Il dizionario Webster precisa che l’humor è caratterizzato dall’essere clammy ossia “viscido” oppure designa qualcosa a cui manca il calore umano.
Cruce è un sostantivo medievale che indica un piccolo recipiente destinato a contenere del liquido come olio o acqua. Unendo horh e cruce allora possiamo dire che un horcrux è un contenitore di essenza. Gli oggetti in cui Voldemort ha nascosto i pezzi della sua anima, per scampare alla morte, sono: diario attraverso l’omicidio di Mirtilla Malcontenta; l’anello dei Gaunt attraverso l’omicidio del padre; medaglione di Serpeverde attraverso l’omicidio di un vagabondo babbano; la coppa di Tassorosso attraverso l’omicidio di Hepzibah Smith; il diadema di Corvonero attraverso l’omicidio di un contadino albanese; Nagini attraverso l’omicidio di Bertha Jorkins.
L’ordine naturale prevede che l’anima rimanga intatta, un’entità indivisa e autonoma. Un Horcrux infrange questa legge di natura, spezzando l’anima e legandone il o i pezzo/i così ricavati in un oggetto materiale.
L’anima va quindi incontro a una contraddizione al suo interno. L’anima deve infatti restare integra per mantenere la propria caratteristica di esser l’anima di un uomo e ogni scelta che porti alla sua frammentazione intacca questa funzione, deteriorandola a poco a poco.
Come spiega Hermione, “un horcrux è l’esatto opposto di un essere umano”. Rompere la propria anima e perseverare in questa scelta significa allora congedarsi definitivamente dalla propria umanità. Significa decidere di non essere più uomo.
E per molti, come Voldemort, lasciarsi alle spalle l’uomo per diventare qualcosa di più di un uomo rappresenta un’attrazione irresistibile e non può che significare una cosa sola: liberarsi della mortalità.
Voldemort semplicemente non accetta di condividere una condizione simile, non crede di meritare un così basso stadio nel complesso del creato e vuole quindi guadagnare, solo per se stesso, una nuova dimensione, una dimensione superiore.
Non siamo forse a una riproposizione del peccato delle origini? Non è forse il desiderio umano più nascosto quello di essere “come Dio” (cf Gen 3)? «Per un giovane come te, sono sicuro che tutto questo sembrerà incredibile, ma per Nicolas e Peronella è proprio come andare a dormire dopo una giornata molto, molto lunga. In fin dei conti, per una mente ben organizzata, la morte non è che una nuova, grande avventura. Sai, la pietra non era poi una cosa tanto prodigiosa. Sì, certo: tutti i soldi e tutta la vita che uno può volere… sono le due cose che la maggior parte degli esseri umani desidera più di ogni altra… ma il guaio è che gli uomini hanno una particolare abilità nello scegliere proprio le cose peggiori per loro».
Invece, ritenere la morte una strada a volte auspicabile vuol dire comprendere i limiti della propria condizione, vuol dire essere consapevoli della dimensione che ci definisce in tutte le sue implicazioni.
I membri dell’ordine della fenice in varie situazioni sono i primi ad asserire che c’è qualcosa di peggiore della morte, mentre è Voldemort in persona a urlare, in tutti i sensi, che la morte è la cosa peggiore dell’uomo. Cercare l’immortalità non solo non è la cosa migliore, ma addirittura peggiore per l’uomo. Il mortale non può e non deve anelare a ciò che non è e che rischia di distruggere le condizioni stesse della sua sussistenza.
Peggio che morire sembra essere tutto ciò che priva l’essere umano del suo proprium, vale a dire della sua dignità e della sua affettività. “Peggio della morte” è secondo Sirius Black il tradimento degli amici; è la condizione di chi è stato baciato da un Dissennatore, ovvero precipitare nella disperazione assoluta; “peggio della morte” è la sorte di Frank e Alice Paciok, torturati fino alla pazzia.
Il destino peggiore, quindi, non è la morte ma la perdita della propria umanità. A questo proposito il collegamento che ci viene più spontaneo è al vangelo di Marco (9,42-48). “Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con due mani entrare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con due piedi essere gettato nella Geenna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel Regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue”.
Certamente Gesù non raccomanda la mutilazione di una parte del corpo, ma, con forza paradossale, sottolinea il contrasto tra salvare o perdere la propria vita che è, per suo dono, in mano nostra. Gesù vuole dirci che la perdita di ciò che ci sembra molto prezioso e irrinunciabile (come la mano, il piede, l’occhio), non è paragonabile al danno che si subisce con l’adesione al male e al peccato che è la perdita della nostra umanità. Che in questa alternativa mi gioco il mio destino definitivo. Il testo dice che è bene essere ad esempio un monco, uno zoppo o con un occhio solo.
Una prima via di liberazione è infatti quella di fare pace con le nostre mancanze, con i nostri limiti, primo fra tutti la nostra creaturalità e con la nostra morte. Che poi lungi dall’essere un limite è la vera condizione di possibilità per rispondere alla vita.
Il personaggio che più di ogni altro è segnato dalla prossimità di amore e morte, che più di ogni altro avverte le conseguenze del primo sulla seconda, che più di ogni altro si lascia attraversare da questa consapevolezza fino ad arrivare a una vera e propria conversione è Severus Piton.
Piton è segno di una conversione integrale, fondata sul riconoscimento che ci sono appunto cose ben più gravi della morte. “Vorrei essere morto io” esclama quando viene a conoscenza della morte di Lily Evans. L’amore per Lily è la ragione per cui Piton abbandona il ruolo di Mangiamorte e abbraccia in tutto e per tutto il piano di Silente.
L’accettazione senza riserve di proteggere il bambino sopravvissuto è più che un mero desiderio di rivalsa, di ripagare il male fatto, di risarcire l’amata anche se post mortem. Piton non è interessato a riabilitare la propria immagine, il proprio buon nome. Nel VI e VII libro dimostra che la sua priorità non è la salvezza personale perché mette in discussione il voto infrangibile fatto con Narcissa Malfoy. Piton a più riprese dimostra di avere dismesso integralmente la veste di seguace di Voldemort e di aver compreso appieno che la morte non è la cosa peggiore dell’uomo. “Ho fatto la spia per te, ho mentito per te, ho corso i rischi mortali per te. Credevo che servisse a proteggere il figlio di Lily Potter. Adesso mi dici che l’hai allevato come bestia da macello…”
Il Patronus di Piton è una cerva, come quello di Lily, ma non è sempre stato questo. Il cambiamento della forma del patronus è simbolo della sincerità del sentimento e della totalità dell’intenzione che l’accompagna. L’assunzione delle nuove sembianze del patronus attesta l’autentiticià del rivolgimento interiore, la profondità del sentimento, la portata della scelta. Di una scelta fatta per amore e di una conversione radicale.
La decisione di Piton è una decisione complessiva, totale, continua e sempre rinnovata. Una scelta al tempo stesso di amore e di morte che sovrasta qualsiasi passata inclinazione verso la Magia Oscura e qualsiasi personale antipatia o inclinazione. È la sua una morte per amore decisa quando H ha poco più di un anno e confermata ogni giorno dei successivi 17.
Silente dal canto suo riconosce di aver temuto in vita sua un’altra cosa in misura incomparabilmente maggiore della morte: la verità. Terrorizzato dall’eventualità di scoprire chi fosse il vero responsabile della morte della sorella Ariana, Silente aveva addirittura rinviato lo scontro con l’ex amante Grindelwald temendo non la morte ma la consapevolezza di aver provocato la fine della sorella non solo con la sua arroganza e stupidità ma anche fisicamente sferzando il colpo che spense la sua vita.
Silente vince ma non è l’esatto contrario di Voldemort. Come V, anche Silente in gioventù ha ceduto alla tentazione della vanità e del potere, presumendo di avere più diritti degli altri perché più capace di loro fino a programmare un regime di sottomissione per i babbani per il bene superiore.
Da giovane è ossessionato dalla ricerca dei doni e dunque dalla tentazione di voler dominare la morte. Anche per lui c’è una conversione. Come Piton, anche Silente ha sbagliato, ha ceduto alla tentazione del potere e alla seduzione dell’oscuro. Come Piton anche Silente vive una rivoluzione interiore irreversibile a causa della propria responsabilità nella morte di una persona amata. Come Piton anche Silente passa tutto il resto della vita a espiare questa colpa.
L’errore che costa la vita a Silente è la decisione di infilarsi al dito l’anello di Orvoloson Gaunt nel tentativo di far funzionare la Pietra della risurrezione. È questa la prova della sua debolezza umana di fronte al proprio dolore nonostante tutta la saggezza accumulata.
Per questi due personaggi ci sono ragioni superiori al mero impulso alla sopravvivenza, alla richiesta biologica della salvaguardia personale. Evitare la morte a tutti i costi non rappresenta per loro una priorità assoluta. Lo sono piuttosto il rispetto dell’umanità e l’impegno per la concretizzazione della giustizia.
Assolutamente distante da quella forma di sopravvivenza garantita da un Horcrux che poggia invece su due azioni contro natura: l’omicidio e il deposito di un frammento della propria anima in un oggetto. È questo, lo ripetiamo, un atto mostruoso che consegna una condizione a tal punto disumana che come dice il professor Lumacorno, “la morte sarebbe preferibile”.
“Niente è peggio della morte, Silente!” ringhiò Voldemort. “Ti sbagli” replicò Silente. “In verità, l’incapacità di capire che esistono cose assai peggiori della morte è sempre stata la tua più grande debolezza”.
Sacrificio. Cf Rm 5,7-8. “Ora a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”. Ciò che più di tutte le cose sconfigge la morte è l’amore che spinge fin al sacrificio di sé a vantaggio di altri.
La storia di HP è la dimostrazione più eloquente. Il sacrificio di Lily, morta nel disperato tentativo di salvare suo figlio, diventa la protezione suprema nei confronti dell’anatema che uccide, che rimbalza sull’artefice dell’incantesimo. L’effetto dell’amore di Lily va ben oltre la pur decisiva protezione nel momento dell’attacco di Voldemort e si estende a tutta l’infanzia e l’adolescenza di H. Voldemort stesso, tornato in ad abitare il suo corpo al termine del torneo Tremaghi, riconosce di aver colpevolmente trascurato, non includendola nei suoi calcoli, una magia antica di grande potenza.
Tuttavia, la sua ostinazione nel non voler concedere credito alla sfera degli affetti e dei sentimenti gli si ritorcerà contro più di una volta (nel V libro tenta invano di impossessarsi di H; non capisce che l’amore che prova Piton per Lily può fargli cambiare bandiera). HP è protetto, per farla breve, dalla sua capacità di amare, la sola protezione che possa funzionare contro le lusinghe di un potere come quello di Voldemort.
Il fatto però rimane: H, come tutti, è vulnerabile all’idea di imporsi sulla morte e di renderla reversibile (anche lui ricerca i Doni), proprio come Voldemort. Certo, la differenza è sostanziale, perché H desidera solo riavere i propri cari, V cerca unicamente potere e immortalità personali. Harry come noi tutti è esposto alla tentazione di oltrepassare i limiti della mortalità, ma a differenza di V, vince questa sua tentazione e arriva ad accettare la morte, sua e dei propri cari (e qui sta la sua maturità), comprendendo che ci sono cose ben peggiori per i vivi che morire.
E così che H si consegna volontariamente a Voldemort dimostrandosi pronto a morire per tutti gli uomini, le donne e i bambini presenti a Hogwarts. Il parallelo col Cristo è evidente. Anche Cristo, infatti, non va incontro alla morte perché immagina che potrà tornare indietro, ma al contrario viene risuscitato perché ha deciso di andare incontro alla morte.
Harry ha ormai compiuto il suo percorso di crescita. H non solamente vuole la fine di V ma dimostra di saper resister alla stessa seduzione a cui il suo antagonista ha ceduto. Harry si trova di fronte a un modo di diventare potente, signore della morte. A differenza di V però H sceglie di non intraprendere questa strada. Quando si avvia nella foresta proibita per sacrificarsi Harry è il legittimo possessore dei doni.
Consapevolmente però H si toglie il mantello, lascia che la Pietra gli scivoli dalle mani e permette alla bacchetta di sambuco di scagliargli contro l’anatema che uccide. H sceglie di morire e di rinunciare a espedienti magici. La maledizione viene scagliata e H non fa alcun cenno di difesa come fece sua madre 17 anni prima.
E Voldemort non nota alcuna somiglianza né si preoccupa di capire se il sacrificio di H possa avere lo stesso effetto di scudo per la vita di tutti coloro per i quali H decide di morire. Insomma, nonostante l’esplicita ammissione di colpa nel cimitero di Little Hangleton, Voldemort non riesce ad apprendere niente dalla sua disfatta né mitiga il suo disprezzo per la sfera dei sentimenti e degli affetti.
Non si accorge nemmeno che all’interno del castello tutti i suoi incantesimi vanno a vuoto, fallendo miseramente il bersaglio. Nessuno di essi, infatti, va a buon fine. Per rendersene effettivamente conto ha bisogno di proprio di H. “Non ucciderai nessun altro questa notte” ribattè Harry. “Non potrai uccidere nessuno di loro, mai più. Non capisci? Ero pronto a morire per impedirti di fare del male a queste persone”.
“Ma non l’hai fatto!”. “Era mia intenzione, ed è questo che importa. Ho fatto quello che ha fatto mia madre. Sono protetti da te. Non hai notato che nessuno dei tuoi incantesimi funziona su di loro? Non puoi torturarli. Non puoi toccarli. Non impari dai tuoi errori, Riddle, vero?”. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” dice Gesù nel vangelo di Giovanni (Gv 15,13).
La magia dell’amore consiste nella protezione fornita alle persone amate, nel momento in cui si sia pronti a morire per loro; l’arma dell’amore è una risorsa che, secondo le parole di Silente, “tutti hanno” e che “va oltre” il potere di Voldemort, “oltre la portata di qualunque magia”. “Rimangono dunque queste tre cose: la fede, la speranza e l’amore. Ma la più grande di tutte è l’amore” (1Cor 13,13).
Note al testo
[1] N.B. de Gli scritti: il riferimento è a don Nicola Mazza che insegnò ai suoi questa prospettiva.