[La croce lateranense o costantiniana] Osservazioni sulla primitiva disposizione delle scene veterotestamentarie della croce stazionale di San Giovanni in Laterano, di Daila Radeglia
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Daila Radeglia, tratto da A.M. Romanini (a cura di), Federico II e l'arte del duecento italiano, Galatina, Congedo Editore, 1980, vol. II, pp. 153-158. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (30/3/2022)
L'ipotesi di collocazione originaria delle
storie di Genesi secondo Daila Radeglia
La croce stazionale detta “costantiniana di San Giovanni in Laterano è un oggetto di estremo interesse sia per la qualità artistica che per i problemi di ordine iconografico che presenta, problemi che hanno suscitato vivo interesse nella critica degli ultimi anni in particolare perché è forse l’unico oggetto di oreficeria di tanta densità compositiva che si sia conservato nell’ambito della produzione verosimilmente romana e precedente al trasferimento dei pontefici ad Avignone. Essa è un prezioso documento iconografico, perché vi è raffigurato il ciclo completo del Genesi.
È composta di placchette di argento dorato sbalzato cesellato e lavorato a bulino, montate su una base di legno; lo spessore è decorato da una fascia di argento non dorato recante un semplice motivo ornamentale sbalzato a girali di foglie a cinque punte e bordata da due file di piccoli tondi.
Il problema della datazione, precedentemente fissata dal Cecchelli[1], seguito dal Garrison[2]e dal Waetzoldt[3]all’avanzato XII secolo, è stato recentemente affrontato da M. Andaloro[4] in occasione dell’esposizione della croce alla mostra “Tesori d’arte sacra” del 1975.
Un minuzioso esame dei particolari esecutivi, fra i quali soprattutto quello degli elementi architettonici che compaiono in alcune scene o il taglio dei capelli delle figure, ha permesso a questa studiosa di confermare la validità dell'intuizione del Toesca[5], che l'oggetto appartenga invece alla fine del XIII secolo, e anzi di spostare ulteriormente la datazione, fino ai primi del XIV secolo.
Elementi gotici come gattoni rampanti, edicole e colonne tortili non furono infatti introdotti nel codice architettonico romano prima della comparsa dei pulpiti arnolfiani di S. Paolo (1285) e di S. Cecilia (1293).
A conferma di questa datazione si può segnalare anche la maturità iconografica e stilistica della Crocefissione nel tondo centrale e, per il taglio «arcaico» della composizione, il confronto con il ciclo post-cavalliniano di affreschi di S. Maria in Vescovio[6], nel quale la scelta e l'impostazione delle scene veterotestamentarie è analoga a quella della croce lateranense.
Il problema più complesso lasciato aperto dagli studi più recenti è indubbiamente quello relativo alla disposizione delle scene, strettamente legato a quello dell'individuazione dei soggetti raffigurati[7] e quindi dell'iconografia del ciclo del Genesi.
Le scene infatti non seguono la successione del racconto biblico, ciò che solo in parte è dovuto a rimaneggiamenti, verificabili attraverso il confronto fra la disposizione attuale degli episodi e quella attestata dalla riproduzione della croce nell'incisione del Ciampini del 1699[8] [vedi le immagini a corredo di questo articolo]. Rispetto all'incisione, infatti, secondo quanto ha puntualizzato in un recente intervento il Pace[9], notiamo che sono stati reciprocamente scambiati i medaglioni centrali con la Crocefissione e il Peccato originale, mentre è stata invertita la disposizione della placchetta in basso nel lato del Peccato.
Lo stato della Croce Lateranense al
1699 secondo i disegni del Ciampini
Tale manomissione avvenne probabilmente prima della metà del XVIII secolo, se ad un restauro è da riferirsi il punzone, sicuramente settecentesco, presente nel margine inferiore del medaglione del Peccato e raffigurante una palma, riconoscibile in quello dell'orafo romano Basilio Fafucci (attivo fra il 1726 e il 1740)[10].
Molto probabilmente, però, quella del XVIII secolo non è stata la sola manomissione della croce: anche le placchette della parte intermedia del braccio inferiore (quella dal lato della Crocefissione raffigurante le offerte di Caino e Abele e l'uccisione di quest'ultimo, e quella dal lato del Peccato con la scena di Esaù di ritorno dalla caccia, e detta benedizione di Giacobbe) dovevano essere l'una al posto dell'altra nella sistemazione originale, nella quale verosimile le storie di Caino e Abele dovevano essere adiacenti a quelle della Cacciata dal Paradiso terrestre, e quelle di Giacobbe ed Esaù accanto al Sogno di Giacobbe.
Un’altra inversione di posizione interessò probabilmente le due placchette raffiguranti il «Sogno di Giuseppe» e la «Lotta con l'angelo», che dovrebbero piuttosto essersi trovate l’una accanto a quella con «Giuseppe che spiega il sogno al Faraone», l’altra allineata con le storie di Isacco e di Giacobbe: ciò è indicato dalla logica della narrazione e viene pienamente confermato dall’esame del fondo della placchetta con il «Sogno di Giuseppe»: essa presenta infatti un’aggiunta, chiaramente leggibile anche in fotografia, caratterizzata dal fondo più liscio e da un diverso trattamento delle spighe, in prossimità dell'attacco con l'adiacente tondo raffigurante il «Sacrificio di Isacco». Tale aggiunta si rese evidentemente necessaria al momento del reciproco scambio dei due pezzi per adattare il «Sogno» alla sua nuova posizione nel braccio superiore[11].
Si deve supporre, quindi, che vi sia stato un rimaneggiamento della croce precedente alla pubblicazione del Ciampini, mentre non si vede perché si dovrebbe invece pensare, come propone la von Wilckens[12], che l’attuale croce sia stata composta da parti di due croci diverse. Con tale interpretazione contrastano: 1) l'omogeneità stilistica delle varie parti, nelle quali non ci sembra di ravvisare discrepanze rilevanti di esecuzione; 2) l'impossibilità, a nostro avviso, di leggere, come fa la studiosa, la scena adiacente alla lunetta con l'arca di Noè come: «Mosè nel roveto ardente», poiché nel paesaggio quelli che si dovrebbero interpretare come fiamme sono invece elementi di vegetazione identici a quelli della scena del Peccato. È molto più verosimile, invece, che la scena raffiguri «Dio che dà a Noè l'ordine di costruire l'arca», analogamente all'episodio che era presente nella decorazione veterotestamentaria di S. Paolo f.l.m.[13] ridipinta dal Cavallini nel periodo 1271-79 ovvero, secondo il Matthiae[14], 1282-85.
Pur tenendo presenti i successivi spostamenti di parti qui indicati (si veda lo schizzo della proposta di ricostruzione della collocazione originaria dei diversi pezzi [nelle immagini che accompagnano questo testo]), la narrazione biblica non viene seguita passo per passo (si noti per esempio l'anteposizione della Creazione di Eva a quella di Adamo), ma le scene vengono raggruppate per nuclei narrativi omogenei, tenendo presenti ragioni di carattere devozionale e compositivo, e organizzando con estrema libertà un gran numero di episodi in un susseguirsi di spazi discontinui. L'attenzione ai problemi della distribuzione delle scene nelle placchette è evidente per esempio nella felice soluzione compositiva dell'episodio della «Scala di Giacobbe e unzione detta pietra», nel quale lo spazio rettangolare viene sfruttato per una disposizione verticale della scena, oppure nel modo con cui vengono utilizzati i tratti di braccio rettilineo ai lati della scena della «Cacciata» per la rappresentazione delle porte del paradiso, a sinistra, e del cherubino, a destra, evidenziando con grande forza espressiva la scena racchiusa nel tondo.
È stata giustamente sottolineata la scelta di un'iconografia «arcaica», quella cioè messa a punto a partire dall'XI secolo e diffusa nel XII in ambiente umbro-romano (presente nelle bibbie atlantiche e nei cicli di Ferentillo e di S. Giovanni a Porta Latina): tale scelta non si presenta isolata nel periodo a cavallo fra gli ultimi anni del XII e i primi del XIV secolo, comparendo infatti sia negli affreschi veterotestamentari della basilica superiore di Assisi, sia, come si è sopra accennato, in quello di S. Maria in Vescovio, e può essere fatta risalire al modello iconografico seguito nella scelta e nella composizione delle scene.
Un'attenta analisi delle caratteristiche iconografiche dei cicli veterotestamentari precedenti permette di confermare che, come già è stato indicato dal Waetzoldt[15], le composizioni si ispirano a quelle, perdute, del ciclo leoniano di S. Paolo f.l.m., restaurato dal Cavallini, delle quali non restano che le copie secentesche eseguite dal Grimaldi: rispetto a queste si nota peraltro una semplificazione delle scene, con riduzione del numero dei personaggi (particolarmente nelle storie di Giuseppe) e dei motivi paesistici negli sfondi[16].
Bisogna rilevare, inoltre, che, contrariamente a quanto avviene nel ciclo ostiense e nel gruppo di opere di iconografia umbro-romana individuato dal Garrison[17], al quale viene giustamente associata anche la croce lateranense, qui il Creatore compare in trono anziché seduto sul globo, non seguendo cioè strettamente quella tradizione iconografica. L'elemento del Creatore in trono compare invece in opere come i mosaici del Genesi nell'atrio di S. Marco a Venezia o le miniature dell'Hortus deliciarum[18], che derivano dal Genesi di Cotton, e cioè da una tradizione iconografica estranea a quella della croce.
Un'altra precisazione necessaria è che nel ciclo di S. Paolo erano assenti gli episodi relativi a Isacco, Giacobbe ed Esaù, i quali invece comparivano nella decorazione della navata del vecchio S. Pietro, anche essa forse risalente, come quella della basilica ostiense, al pontificato di Leone I (440-461) (un'altra tradizione la data al tempo di Papa Formoso)[19]. Una parte di tale decorazione ci viene tramandata, in un rapido schizzo corredato dall'elenco dei soggetti, dal Grimaldi nel 1618[20]. Se l'esecuzione di questo disegno è troppo sommaria per stabilire confronti sufficientemente dettagliati, le didascalie si rivelano di qualche utilità per la comprensione dei soggetti. Una di esse inoltre potrebbe esserci di aiuto nell'identificazione della scena di più ardua lettura della croce lateranense, e cioè quella adiacente a «Dio ordina a Noè di costruire l'arca»: essa raffigura un uomo semi inginocchiato e un angelo, e non può essere identificata come «lotta di Giacobbe con l'angelo» in primo luogo perché tale scena è raffigurata in un'altra placchetta, e inoltre per l'atteggiamento statico delle due figure. La nostra ipotesi è che la scena vada letta come «Ospitalità di Abramo», e sembra essere confermata dalla didascalia del Grimaldi a quell'episodio del ciclo di S. Pietro. Essa infatti suona: «Abraham tres vidit et unum adoravit», dove l'allusione alla Trinità, simboleggiata dai tre angeli, è palese. Per quanto sottile sia questa traccia, si può supporre che nella croce sia stata operata una riduzione nella trasposizione di questo episodio, riduzione che, a chi aveva presente il modello seguito nella raffigurazione, non impediva certamente di comprendere il suo significato, e segnatamente quello dottrinale.
L'analisi dell'iconografia qui elaborata ci porta a confermare che il pezzo si situa nell'ambito della produzione romana, e che la sua decorazione si ispira ai cicli del Genesi delle grandi basiliche: non soltanto, come era già stato ipotizzato, quella di S. Paolo, ma anche, e forse in dipendenza ancora più stretta, quella di S. Pietro.
Anche l'esecuzione rivela la sua dipendenza da modelli pittorici piuttosto che dalla scultura coeva, nella preferenza per le masse movimentate rese con intenso pittoricismo, contrapposte a liscie superfici specchianti nelle quali prevale una decorazione calligrafica ottenuta per mezzo di linee fortemente incise.
Note al testo
[1] C. Cecchelli, Il tesoro di San Giovanni in Laterano in «Dedalo» VII 1926-27 P. 250; La vita di Roma nel Medioevo Roma 1951-52 pp. 42-43 e 715. L’autore indica come fonte iconografica “una delle varie bibbie miniate del XII S.” e ritiene l’oggetto di ambiente non romano “ma forse settentrionale”.
[2] E.B. Garrison, Notes on the Iconography of Creation and of the Fall of Man in XI and XII c. Rome in «Studies in the History of Medieval Italian Painting» IV Firenze 1960-62, pp. 202-210. È da notare che presumibilmente il Garrison non deve avere avuto conoscenza diretta della croce lateranense, visto che oltre ad assumere acriticamente la datazione del Cecchelli, afferma che il Creatore vi è raffigurato barbato (ciò che egli interpreta come indice di “orientalismo”), mentre in realtà esso è senza barba, come caratteristico del gruppo umbro-romano da lui stesso delineato.
[3] S. Waetzoldt, Die Kopien des 17 Jahrunderts nach Mosaiken und Wandmalerei in Rom, München-Wien 1964, p. 57. Lo studioso ritiene che il modello iconografico della croce sia stata la decorazione veterotestamentaria di S. Paolo f.l.m. precedente al restauro cavalliniano del 1270-1279 e, basandosi anche lui sulla datazione della croce al terzo quarto del XII s., la adduce come prova delle modifiche apportate dal Cavallini al ciclo ostiense: nella croce, infatti, sono presenti le scene della “Benedizione di Esaù” e della “Lotta di Giacobbe con l’angelo” assenti nella decorazione di S. Paolo tramandataci dalle copie del XVII s., e non identificabili con alcuna di quelle indicate come distrutte, e perciò a suo parere presenti nel ciclo originario e sostituite da altre nel restauro cavalliniano.
[4] Tesori di arte sacra di Roma e del Lazio dal Medioevo all’Ottocento, Roma 1975, scheda n. 142 pp. 68-70 e tavole LXXVII LXXVIII LXXIX.
[5] P. TOESCA, II Medioevo, II, Torino 1927 p. 1148 e nota 58. Il Toesca indica giustamente come caratteristica romana l'iconografia del giorno e della notte nella scena della creazione.
[6] I dipinti della navata di S. Maria in Vescovio sono stati datati da G. MATTHIAS (Lavori della Soprintendenza ai monumenti del Lazio - Affreschi di S. Maria in Vescovio in «Bollettino d'Arte» 1934, pp. 86-96) negli «ultimi cinque o sei anni del sec. XIII o nei primissimi del successivo» (p. 94).
[7] Poiché nei precedenti studi sulla croce lateranense non ci si è generalmente soffermati sull'individuazione dei soggetti raffigurati, è forse utile elencarli qui, a cominciare dall'alto verso il basso e da sinistra verso destra: a) lato della Crocefissione: Sogno di Giuseppe; Sacrificio di Isacco; Isacco e Esaù; Lotta di Giacobbe con l'angelo; Giuseppe spiega il sogno al Faraone; Crocefissione; Giuseppe nel pozzo; Giuseppe in marcia verso i fratelli; Uccisione di Abele; Sacrifici di Caino e Abele; Sogno di Giacobbe e unzione della pietra, b) lato del Peccato: Creazione, separazione della luce dalle tenebre; Creazione di Eva; Animazione di Adamo; Rimproveri ai colpevoli; Dio chiama Adamo ed Eva, che si nascondono; Peccato originale; Cacciata; Lavoro dei progenitori; Esaù ritorna dalla caccia; Isacco benedice Giacobbe; Abramo e l'angelo; Dio ordina a Noè di costruire l'arca; L'arca di Noè.
[8] G. CIAMPINI, Vetera Monumenta, II Roma 1699 pp. 38-49 e tavole X e XI. Il Ciampini ci informa anche sulla funzione delle croci stazionali, che venivano portate nelle processioni della Quaresima, nelle quali precedevano il Papa, ed appartenevano alle grandi basiliche. Di esse la più illustre era stata quella di S. Pietro, donata da Carlo Magno, rifatta e definitivamente perduta. Inoltre il Ciampini fornisce anche una lettura delle scene, raffigurate nella croce lateranense, che viene ripetuta senza notevoli varianti dal BARBIER DE MONTAULT in: Les croix stationales de la Basilique du Latran in: «Revue de l'art chrétien» 1889 pp. 15-41, dal quale a sua volta anche M. ANDALORO (Tesori, op. cit., p. 69) trae la sua elencazione dei soggetti raffigurati.
[9] V. PACE, Appunti in margine alla mostra dei «Tesori d'arte sacra di Roma e del Lazio» (e una nota su Nicola da Guardiagrele) in: «Bollettino d'Arte» 1975 III-IV p. 226.
[10] Cfr. C. BULGARI, Argentieri, gemmari e orafi d'ltalia, I 1958, n. 490 p. 429: «Questo punzone, rilevato in un ostensorio della chiesa di S. Maria Assunta a Cisterna accompagnato da un bollo camerale del periodo 1725-34, deve essere probabilmente quello depositato da Basilio Fafucci al notaio il 18-8-1734 e descritto come: 'albero di dattero'».
[11] La placchetta con la «Lotta di Giacobbe con l'angelo» è larga circa cm. 15, mentre in quella con il «Sogno di Giuseppe» che misura cm. 19, la parte aggiunta è larga circa cm. 4, ciò che convalida l’ipotesi che il pezzo avesse in origine una diversa collocazione.
[12] L. VON WILCKENS, Palazzo delle Esposizioni: Tesori di Arte Sacra di Roma e del Lazio in «Pantheon» 1976 aprile-maggio-giugno, p. 162.
[13] Cfr. WAETZOLDT, Die Kopien... op. cit., fig. 330 Kat. Nr. 600.
[14] G. MATTHIAE, Pietro Cavallini, Roma 1972, p. 40.
[15] S. WAETZOLDT, Die Kopien... op. cit., p. 56.
[16] Cfr. Cod. Barb. lat. 4406, foll. 42-45, riprodotti in: S. WAETZOLDT, Die Kopien...op. cit., figg. 347-350.
[17] E. B. GARRISON, Notes... op. cit., pp. 202-210.
[18] Per le miniature dell'Hortus deliciarum si veda lo studio di R. B. GREEN, The Adam Cycle in the Hortus deliciarum in «Late Classical and Mediaeval Studies in honor of Albert Mathias Friend jr», Princeton 1955, pp. 340-347.
[19] Si veda a questo proposito S. WAETZOLDT, Die Kopien... op. est., p. 70.
[20] S. WAETZOLDT, Die Kopien... op. cit., tav. 484 e, per la citazione completa delle annotazioni del Grimaldi, pp. 69-70.