Dove i russi sono minoranza: la mappa dell'eredità dell'Urss. Le minoranze russofone, dopo la fine dell’Urss, non si sono più sentite protette dalla “madrepatria”. Discriminate in alcuni casi, sono divenute un pretesto per guerre, di Alessandro Michelucci
Riprendiamo da Avvenire del 13/3/2022 un articolo di Alessandro Michelucci. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Il novecento: il comunismo.
Il Centro culturale Gli scritti (30/3/2022)
Una danza tradizionale russa - WikiCommons
Durante l’era sovietica (1917-1991) i Russi rappresentavano il 77% dell’intera popolazione statale. La loro lingua era ufficiale nelle 15 repubbliche che componevano la grande federazione eurasiatica.
In alcune esistevano minoranze russe molto numerose: Kazakistan (37%), Lettonia (34%), Estonia (30%), Ucraina (22%), tanto per fare qualche esempio. In ogni caso si trattava di minoranze sui generis, perché nel computo globale delle nazionalità sovietiche erano comunque una parte di quella maggioritaria.
Un fenomeno ignoto nel resto dell’Europa, dove esiste una netta distinzione numerica fra maggioranze e minoranze. La caduta dell’Unione Sovietica (1991) ha segnato una svolta epocale. L’assetto territoriale della nuova Federazione Russa comprende 22 repubbliche autonome che prendono nome dalla nazionalità titolare, ma in molte di queste la percentuale dei russi conserva la maggioranza: Carelia (82%), Adighezia (63%), Mordovia (53%), etc.
Data la differenza di grandezza fra l’Urss (22.400.000 kmq) e la Russia (17.146.000 kmq), il peso del popolo maggioritario ha subito un piccolo aumento, mentre nelle altre 14 repubbliche indipendenti si è creata una diaspora involontaria di 25 milioni di russi.
Soltanto cinque repubbliche hanno conservato il russo come lingua ufficiale accanto alla propria: Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. In paesi come la Bielorussia e il Kazakistan la lingua slava viene tuttora usata quasi ovunque: nel commercio, nei media, nella pubblica amministrazione e nella scuola. Come anche in molte famiglie: «Il russo è uno stato mentale e una lingua di comunicazione interetnica », ha detto Galiya Ibragimova, una tartara nata in Uzbekistan.
Ma il diverso status della lingua è il riflesso di un mutamento ancora più sostanziale: è venuta meno la protezione psicologica e politica della madrepatria, che è diventata un paese straniero, tanto che molti russi hanno deciso di emigrare in varie località russe. La condizione delle minoranze russofone è stata oggetto di grande attenzione fin dai primi anni dell’era post-sovietica. In varie occasioni Mosca ha criticato il disinteresse della comunità internazionale per la discriminazione di queste comunità.
Nel 1994 Sergei Lavrov, l’attuale ministro degli Esteri, ha scritto una lettera su questo tema al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La successiva adesione dei tre paesi baltici all’Unione Europea ha permesso a Mosca di rivolgere proteste analoghe in sede comunitaria, dato l’atteggiamento ostile dei paesi suddetti nei confronti delle rispettive minoranze russofone. All’indomani della guerra russo-georgiana (2008) il presidente Dmitry Medvedev ha sottolineato che la difesa dei 'cittadini russi all’estero' rientrava fra le sfere di 'interesse privilegiato' della federazione. Alcuni anni dopo, nella veste di Primo Ministro, Medvedev ha concepito un programma per il rimpatrio dei russi che vivevano in altri paesi.
La difesa delle minoranze russofone è diventata ancora più esplicita all’inizio del 2014: «La Russia è il centro del mondo russo e Putin è l’uomo che può garantirne la difesa», ha affermato Dmitry Peskov, portavoce del presidente, durante una trasmissione televisiva. Gli stati baltici rappresentano un caso a parte. Il 29 marzo 2004 Estonia, Lettonia e Lituania hanno aderito alla Nato insieme a Bulgaria, Romania, Slovacchia e Slovenia. Il 1° maggio dello stesso anno le tre repubbliche baltiche sono entrate a far parte parte dell’Ue con altri sette paesi (Repubblica Ceca, Cipro, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Ungheria). Uniche repubbliche ex sovietiche aderenti alla Nato, le tre suddette sono anche quelle dove il risentimento antisovietico ha generato le maggiori limitazioni alla lingua russa. In un referendum del 2012 tre quarti degli elettori lettoni ha negato al russo lo status di seconda lingua ufficiale.
L’insegnamento in questa lingua è stato rifiutato dalla Corte suprema estone nel 2016. La situazione è analoga in Lituania. I governi che si sono succeduti dall’indipendenza a oggi hanno motivato queste misure con i numeri: la lingua autoctona viene parlata da un milione e mezzo di persone in Estonia e Lettonia e da 3 milioni in Lituania, mentre i locutori del russo sono 140 milioni in Russia e altri 95 nei paesi ex sovietici. La volontà di discriminare il russo è confermata dal fatto che i tre Stati non hanno sottoscritto la Carta europea delle lingue regionali e minoritarie, approvata dal Consiglio d’Europa nel 1992.
In queste settimane, mentre è in corso la guerra innescata dall’invasione russa dell’Ucraina, i media analizzano le ragioni del conflitto. I contrasti fra i due paesi, già gravi per l’appoggio di Mosca ai separatisti del Donbass, si sono ulteriormente inaspriti negli ultimi anni. La legge ufficiale sulla lingua dello Stato, entrata in vigore il 16 luglio 2019, vuole «creare le condizioni adeguate per la protezione dei diritti e dei bisogni linguistici degli ucraini», limitando di fatto l’uso del russo in campo mediatico e didattico. Immediata la reazione di Mosca: «Crediamo che questa legge violi gli obblighi dell’Ucraina all’interno del Consiglio d’Europa». I diritti della minoranza russa sono tornati in primo piano nel 2021, quando Kiev ha approvato la legge che riconosce i diritti dei «popoli indigeni dell’Ucraina».
La nuova normativa riafferma implicitamente la sovranità ucraina sulla Crimea, annessa dalla Russia nel 2014, dato che riguarda le tre comunità turcomanne stanziate nella penisola: i Crimciachi e i Caraiti, entrambi di religione ebraica, e i Tartari, musulmani sunniti. La legge non si applica alle altre minoranze, come Bulgari, Polacchi e Romeni. Ma soprattutto, non si applica ai Russi, che costituiscono il 17% della popolazione ucraina. Putin ha accusato il presidente Zelensky di praticare una politica discriminatoria: «Il popolo russo vive in Ucraina da tempo immemorabile e ora viene dichiarato non indigeno».
Il 21 febbraio Putin ha annunciato il riconoscimento delle due repubbliche separatiste del Donbass, entrambe abitate da una maggioranza russofona. Tre giorni dopo ha annunciato l’attacco all’Ucraina: «L’obiettivo è la difesa della popolazione che da otto anni è oggetto di vessazioni e genocidio da parte del regime di Kiev». Naturalmente si tratta di accuse infondate. Purtroppo non è la prima volta che la difesa delle minoranze, siano oppresse o meno, viene usata come pretesto per scatenare una guerra.