1/ Ragionare sull’invidia, consapevolezza della propria debolezza. Riflessioni a partire da una lettera di Petrarca all’amico Boccaccio. Occasione per opporre qualche elemento di umanità all’attuale senso di smarrimento, di Roberto Contu 2/ Lettera di Petrarca a Giovanni Boccaccio, ricusazione di un’accusa calunniosa da parte di gente invidiosa. Petrarca, Familiare 21, 15
1/ Ragionare sull’invidia, consapevolezza della propria debolezza. Riflessioni a partire da una lettera di Petrarca all’amico Boccaccio. Occasione per opporre qualche elemento di umanità all’attuale senso di smarrimento, di Roberto Contu
Riprendiamo da Romasette del 10/3/2022 un articolo di Roberto Contu. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e scuola e Letteratura (in particolare Dante Alighieri e Petrarca).
Il Centro culturale Gli scritti (14/3/2022)
Abbiamo parlato in classe dell’invidia. L’abbiamo fatto leggendo una lettera del 1359 di Petrarca all’amico Boccaccio, nella quale il poeta tenta di difendersi dall’accusa di altri di provare invidia se non odio per Dante e la sua opera. La lettera è bella, mette in dialogo i tre grandi del nostro Medioevo, soprattutto permette di aprire un confronto in classe sul più innominabile dei vizi capitali, quello che porta in dote il peso che pochi di noi sanno sopportare: l’invidia, ovvero l’ammettere a noi stessi di essere invidiosi. Eh sì, perché il discorso che davvero conta sull’invidia non può essere quello spesso narcisistico della denuncia dell’invidia dell’altro ma ovviamente quello sull’invidia da noi stessi provata, patita, rimossa, quasi mai, se non con grande sforzo e pesantezza, accettata.
In questo senso la lettera è splendida, perché nella costruzione dell’argomentazione si percepisce la fatica di Petrarca, il quale per altro non nomina mai direttamente Dante e, nel momento stesso in cui rigetta l’accusa, comunica al lettore anche con le virgole tutta la scomodità di una posizione del genere, «perché ammettiamolo – ci siamo detti in classe – avere a che fare con la propria invidia significa mettere a nudo e nel modo più rischioso e indifeso la propria debolezza, il proprio senso di inadeguatezza, la propria percezione del fallimento».
Che il tema avesse colto nel segno me lo avevano comunicato il silenzio e l’attenzione di tutti ma ancora di più certi sguardi quando ho detto che nessuno di loro avrebbe avuto il coraggio, e non l’avrei mai chiesto, di dichiarare davanti a tutti quale fosse nel dettaglio e nel modo più circoscritto possibile l’invidia profonda provata, per chi e per cosa, e non in un tempo generico ma in quello presente e reale della loro vita. Va da sé, ho aggiunto, che pure io mentre parlavo avevo in mente, nel dettaglio e con tutto il disagio del caso, l’invidia profonda che covavo in quel momento, il per chi e il come, e che anche io me ne sarei ben guardato dal poterlo svelare senza un forte senso di imbarazzo. Ma ci siamo infine detti che proprio in quell’imbarazzo c’è il tesoro di quella pagina di Petrarca. Abbiamo convenuto che ragionare sull’invidia, anzitutto la propria, risulta essere un grande e salutare esercizio di presa di coscienza della propria debolezza.
Si è invidiosi, certo semplificando un po’ il discorso, proprio per il senso di inadeguatezza provato per ciò che siamo e ciò che vorremmo o dovremmo essere, secondo noi e secondo gli altri; si è invidiosi in definitiva perché si è fragili. Prenderne coscienza, avere a che fare con questa radicale e intima debolezza, farla propria, pensarla pietra angolare anziché di scarto, è stato per me e per loro opportunità di riflessione, direi di liberazione; per quanto mi riguarda – ma questo me lo sono tenuto dentro – anche occasione imprevista per opporre un qualche e circoscritto elemento di umanità al senso di smarrimento, al silenzio attonito che pervade noi tutti a fronte di un mondo che in queste ore pare essere davvero un atomo opaco del male.
2/ Lettera di Petrarca a Giovanni Boccaccio, ricusazione di un’accusa calunniosa da parte di gente invidiosa. Petrarca, Familiare 21, 15
Traduzione di Luca Carlo Rossi, ripresa dal web. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e scuola e Letteratura (in particolare Dante Alighieri e Petrarca).
Il Centro culturale Gli scritti (14/3/2022)
[1] Molti argomenti toccati nella tua lettera non hanno affatto bisogno di risposta, visto che da poco li abbiamo sviscerati di persona. Ne ho però accantonati due in particolare, che non si devono lasciar cadere; al cui proposito ti dirò qualcosa in sintesi, così come mi viene. Dunque, in primo luogo mi rivolgi delle scuse, e non a torto, per esserti mostrato estremamente elogiativo nei confronti del nostro concittadino – plebeo in relazione al suo stile, ma senza dubbio nobile poeta per la materia; e te ne giustifichi come se io avvertissi le lodi rivolte a lui o a chiunque altro come una demolizione di quelle a me riservate.
[2] Dici pertanto che, se osservo con più attenzione le tue affermazioni su di lui, vedrò che si tramutano tutte in una mia glorificazione. Inserisci a tua scusante il fatto che egli è stato la prima guida e la prima fiaccola dei tuoi studi quando eri un ragazzino. E fai bene: è un omaggio grato e quasi sacro; se il debito con i nostri genitori per averci messo al mondo è totale, ed è alto con chi ha reso possibile il nostro successo, perché non dovrebbe valere anche verso chi ha costruito e formato il nostro ingegno?
[3] Che il merito maggiore sia da attribuire a chi ha formato il nostro animo più che il nostro corpo, lo capisce chiunque dia il giusto valore ai due elementi e ammetterà che il primo è un dono immortale, l’altro invece è destinato alla decadenza e alla morte. E allora, avanti, celebra e riverisci, non con la mia tolleranza ma addirittura con la mia benedizione, quella importante fiaccola del tuo ingegno, che ti ha dato ardore e luce per seguire quella via nella quale avanzi a grandi passi e verso una meta altissima, una fiaccola, dicevo, scossa anzi, oserei dire, quasi spenta, dai continui applausi del volgo; lèvala fino al cielo con lodi veritiere e degne sia di te sia di lui.
[4] Di esse /Del tuo Trattatello/ ho apprezzato tutto: il personaggio in questione è degno della tua propaganda e tu, come scrivi, gli sei debitore; per questo motivo sottoscrivo i tuoi versi encomiastici e mi unisco alla celebrazione del vate. Quanto alla tua lettera di scuse, la sola cosa che mi disturba è che dimostri di non conoscermi ancora bene, anche se credevo esattamente il contrario. E così io non dovrei provar piacere davanti agli elogi degli uomini illustri, anzi non dovrei esserne glorificato a mia volta?
[5] Credimi: nulla mi è più estraneo dell’invidia, nessun vizio mi è più ignoto; al contrario – e chiamo a testimonio Dio che scruta nell’intimo – una delle cose che meno sopporto in assoluto è il mancato riconoscimento in termini di gloria e di guadagno; non certo perché io ne lamenti il mio danno o, al contrario, ne speri un vantaggio, ma perché deploro come va il mondo, vedendo che i premi delle arti oneste sono assegnati a quelle oscene. E questo anche se so bene che, per quanto la rinomanza dei meriti stimola l’impegno nell’ottenerli, è la virtù stessa ad essere di per sé pungolo e premio, gara e ricompensa.
[6] Pertanto, avendomi tu proposto l’argomento, che io non avrei intavolato spontaneamente, è opportuno insistere perché io mi ripulisca presso di te, e attraverso di te presso gli altri, di una voce che circola sul mio conto non solo in modo falso, come dice Quintiliano a proposito di se stesso e di Seneca, ma anche in modo strisciante e maligno. La diceria odiosa sostiene che io odio e disprezzo quella persona con lo scopo di rivolgere contro di me l’odio del pubblico volgare che lo apprezza: un genere di bassezza mai visto e una tecnica calunnatoria senza precedenti.
[7] In primo luogo non vi è alcuna ragione di odiare un uomo che non mi è stato mai mostrato, se non una sola volta, per giunta quando ero un bambino ancora piccolo. Lui si è trovato a vivere insieme a mio nonno e a mio padre, più giovane dell’uno e maggiore dell’altro, e in seguito a una rivolta civile vennero tutti esiliati contemporaneamente. In quelle circostanze nascono spesso forti amicizie fra compagni di disgrazia, e così capitò a loro, avendo essi in comune la sorte, e un’affinità di interessi e di capacità; se non che mio padre, impegnato in altre faccende e preoccupato per la famiglia, si adeguò all’esilio, mentre lui vi si oppose e si gettò a peso morto, con sempre più accanimento, su un progetto avviato, trascurando tutto il resto, avido esclusivamente di fama.
[8] Difficilmente potrei ammirare ed elogiare a sufficienza chi non si è lasciato distogliere dalla strada intrapresa una volta per tutte né dalle offese dei concittadini né dall’esilio né dall’indigenza né dall’attacco nemico né dall’amore coniugale né dalla compassione per i figli, mentre esistono ingegni numerosi, elevati e sensibili ai quali basta una leggera brezza per smarrire il loro proposito. Ciò accade con più facilità a coloro che scrivono in versi perché, continuamente immersi nella ricerca di ritmi, oltre che di concetti e di parole, hanno bisogno di isolamento e di silenzio.
[9] Ti rendi conto dunque che è insieme odioso – questo sì – e ridicolo che qualcuno abbia inventato il mio odio verso di lui, quando vedi bene che non c’è ragione per odiarlo, anzi ve ne sono molte per amarlo, cioè la patria comune, l’amicizia con mio padre, l’intelligenza e la sua scrittura, ottima nel suo genere, che lo rende assolutamente immune dal disprezzo.
[10] C’è poi una seconda accusa della voce calunniosa. Si fa notare che io, fin dalla prima gioventù, sempre appassionatissima di simili cose, benché interessato alla lettura di svariati libri, non ho mai posseduto il suo libro, e che questo libro, stranamente e contrariamente al mio solito, mi ha suscitato poco calore, tanto più che era assai facile procurarselo, a differenza degli altri che tanto mi scaldavano, praticamente introvabili. Ammetto l’addebito, ma respingo la motivazione che mi attribuiscono.
[11] Allora ero dedito al suo medesimo stile e mi esercitavo nella lingua volgare; ritenevo che non vi fosse nulla di più elegante e non avevo ancora imparato ad avere ambizioni più alte; temevo però, se mi fossi immerso nelle parole sue o di altri, di diventare un pedissequo e inconsapevole imitatore, considerato che a quell’età si è plasmabili come cera e inclini all’ammirazione incondizionata. Il che mi infastidiva, avendo un carattere piuttosto insofferente, e avevo sviluppato un grado tale di autostima se non di presunzione da convincermi di avere ingegno sufficiente a raggiungere una mia peculiare maniera in quel genere senza l’aiuto di chicchessia. Lascio ad altri giudicare se avessi ragione.
[12] Una cosa devo confessare: se per caso nel mio discorso si fosse trovato qualche mia espressione simile a quella di lui o di qualcun altro, ciò sarebbe accaduto non per un’indebita appropriazione o per volontà imitativa – due vizi che ho sempre fuggito come scogli in mare, soprattutto nelle composizioni in volgare – ma per un’inconsapevole passaggio sulle medesime tracce dovuto o a un puro caso o a un’affinità intellettuale, come ritiene Cicerone.
[13] Credi che le cose stanno così, se ritieni di dovermi accordare fiducia; nulla è più vero. Se il pudore e la modestia non mi avessero dato questa presunzione, me la dava la strafottenza dell’età giovanile. Oggi sono distante da simili preoccupazioni; dopo essermene allontanato e aver sconfitto la paura che mi tratteneva, prendo in considerazione tutti gli altri autori e lui prima di tutti gli altri. E ormai io, che una volta mi sottoponevo al giudizio altrui, giudicando adesso gli altri in silenzio, ho diverse opinioni sui restanti scrittori, ma a lui concedo senza difficoltà il primato dell’eloquenza in volgare.
[14] È falsa quindi l’accusa che io intenda sradicare la sua rinomanza, anzi io so meglio di tanti suoi sciocchi e fanatici sostenitori che cosa accarezza il loro udito ma non raggiunge il loro animo perché il canale del loro cervello è ostruito. Costoro appartengono al gregge di cui Cicerone nella Retorica dice: «Quando leggono orazioni valide e poemi, lodano gli oratori e i poeti senza capire perché, toccati, lodano quel che non sono in grado di sapere, ossia dove si trovi l’elemento che procura loro il maggior piacere né che cosa sia né come sia stato realizzato».
[15] E se questo avviene tra intellettuali e nelle scuole a proposito di Demostene e Cicerone e di Omero e Virgilio, figurati cosa succede a proposito di lui tra gente incolta nelle osterie e nelle piazze. Per quanto mi riguarda, lo ammiro e rispetto, non lo disprezzo. Potrei anche aggiungere che se fosse vissuto fino a oggi, sarebbe stato più amico mio che di altri – dico così se solo il suo stile di vita mi piacesse quanto il suo ingegno;
[16] così al contrario a nessuno sarebbe stato più avverso di lui a questi incompetentissimi cultori, che ignorano tanto quel che lodano quanto quel che condannano, e leggendo ad alta voce i suoi scritti li fanno a pezzi e li alterano; e non c’è maggior offesa per un poeta. E se non fossi impegnato a tutelare i miei scritti, forse cercherei da parte mia di sottrarlo a questo scempio.
[17] Infine deploro e mi dà la nausea che l’eccelsa superficie del suo stile sia coperta dagli sputi delle loro lingue incapaci. Ma c’è una sola cosa che non posso non tacere, avendone l’occasione, ossia una delle principali ragioni per cui ho abbandonato il suo medesimo stile. Avevo infatti il terrore che accadesse ai miei scritti quanto vedevo accadere a quelli altrui, e specialmente ai suoi, né avevo speranza per le mie cose di trovare nel volgo lingue più incostanti e pronunce più fiacche di quelle riservate a coloro che erano celebrati nei teatri e negli incroci cittadini per l’antichità e per il favore tradizionale.
[18] Che il mio non fosse un terrore infondato lo dimostra un fatto preciso: le lingue degli incolti fanno costantemente a pezzi quei pochi scritti che mi erano venuti fuori in gioventù a quell’epoca, provocandomi indignazione e odio per ciò che un tempo avevo amato. Ogni giorno controvoglia e maledicendo il mio ingegno mi precipito sotto i portici e lì ecco folle di ignoranti, ecco il mio Dameta “uso nei crocevia a stonacchiare un miserabile motivo da uno zufolo stridulo” (cf. Ecl. 3, 26-26).
[19] Ma adesso basta parlare di questa cosuccia, che non avrei mai dovuto trattare così seriamente, dedicando invece a ben altri discorsi questo tempo che scorre senza tornare indietro, se non perché la tua richiesta di scuse aveva tutto il sapore di quelle accuse. Moltissimi infatti, come ti ho già detto, mi incolpano di provare odio, altri disprezzo verso questa persona, il cui nome oggi taccio consapevolmente per non farmi gridare che lo sto infamando da parte di quel popolo che ascolta ogni voce senza capirne nulla; altri ancora mi tacciano di invidiarlo, e sono quelli che invidiano me e la mia reputazione.
[20] […]
[21] Ma ammettiamo pure che io non meriti di essere creduto. Come si può ritenere vero che io invidi una persona che ha impegnato tutta la sua vita in cose alle quali mi sono appena applicato quando ero un adolescente debuttante? o che io invidi quella sua arte, che se non fu l’unica alla quale si dedicò fu certo suprema, e che per me è stata solo un passatempo e un esercizio di base per allenare il mio ingegno? Dimmi tu: che spazio ci trovi anche solo per sospettare la mia invidia?
[22] In relazione poi a quanto tu hai detto elogiandolo, ossia che, se avesse voluto, avrebbe potuto seguire un altro stile, credo anch’io senz’altro che avrebbe ottenuto qualsiasi risultato; ma quale sia il risultato effettivo, è qui da vedere. E ammettiamo ancora che egli davvero si fosse dedicato, fosse riuscito, avesse ottenuto: e allora? ciò non sarebbe stato per me motivo di ammirazione anziché di invidia? perché avrebbe dovuto invidiare lui uno come me che non invidia nemmeno Virgilio? a meno che io debba invidiarlo per gli applausi e le roche approvazioni dei tintori, degli osti e dei lottatori, che in realtà disprezzano quelli che vogliono lodare; e invece io sono felice di non avere la loro approvazione, così come non la riscuotono né Virgilio né Omero. So bene il valore che ha presso gli esperti la lode degli incolti;
[23] a meno che non si debba credere che io preferisca un mantovano a un fiorentino, cosa che la comune provenienza geografica di per sé non giustifica, senza altre cause; anche se non posso negare che l’invidia più forte è coi vicini di casa; ma poi la differenza d’età non consente sospetti, perché, come dice elegantemente chi non dice mai cose senza eleganza, i morti «non hanno odio né invidia».
[24] Mi crederai se ti giuro che io apprezzo la sua intelligenza e il suo stile e che non ne parlo mai se non in termini entusiastici. C’è una sola cosa che ho detto talvolta a chi voleva sapere di più: che egli non è stato sempre alla propria altezza, perché nel volgare raggiunge risultati più illustri e più alti che nei versi latini o in prosa; e questo tu non puoi negarlo né i più accreditati studiosi possono tributargli altri che elogi e gloria.
[25] Chi, non dico oggi che l’eloquenza già da tempo è morta e sepolta, ma quando era al massimo splendore, è mai stato eccellente in ogni sua parte? Leggi le Declamazioni di Seneca: non ottengono questo riconoscimento né Cicerone né Virgilio né Sallustio né Platone. Chi mai potrebbe aspirare all’elogio che è stato negato a così superbi ingegni? basta essere eccellenti in un solo genere. Così stanno le cose: e dunque stiano zitti gli escogitatori di calunnie; e chi ha prestato loro fede si legga, se vuole, questo mio giudizio.