Le scienze patristiche, oggi, nella cultura europea, di Enrico Dal Covolo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 05 /11 /2010 - 15:08 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione sul nostro sito la prolusione pronunciata da S. Ecc. mons. Enrico Dal Covolo per l’apertura dell’anno accademico dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose Ecclesia Mater della diocesi di Roma il 4/11/2010. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. 

Il Centro culturale Gli scritti (5/11/2010)

Situazione attuale e prospettive di sviluppo

La situazione attuale degli studi patristici in Italia e in Europa è alquanto complessa.

Bisogna considerare anzitutto che solo di recente le scienze patristiche (essenzialmente la patristica, la patrologia e la letteratura cristiana antica, per quanto possa valere ancora questa distinzione) hanno preso coscienza della loro autonomia disciplinare e metodologica.

Sul versante «laico» lo studio dei Padri ha dovuto lottare a lungo con chi si ostinava a considerare l'antica letteratura cristiana come una trascurabile appendice della letteratura classica (greca e latina): e si direbbe – a guardare lo svolgimento ordinario dei programmi di letteratura greca e latina nei licei, e la preparazione degli studenti agli esami di maturità – che si tratta di un pre­giudizio molto lungo a morire.

Sul versante «teologico», invece, vale ancora – almeno per alcuni aspetti – quello che Michele Pellegrino lamentava all'inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, cioè che le ricerche di teologia patristica troppo spesso mancano di un'adeguata base filologica e di una solida impostazione storica, a cui troppo facilmente si sostituisce «un più comodo schematismo dottrinale», «suggerito da sviluppi ulteriori del pensiero teologico», sovente estranei alla mentalità dei Padri.

Il rischio estremo è che gli scrittori ecclesiastici non appaiano come persone reali, inserite in un proprio contesto storico-culturale, caratterizzato da peculiari vicende spirituali e da intuizioni irripetibili. Di fatto, sono ancora poche le ricostruzioni analitiche globali sulle singole figure degli antichi autori cristiani (spesso quelle che ci sono, sono ritratti di datato colore apologetico).

Ancora pochi sono gli studi e i grandi commenti analitici sulle singole opere in se stesse; poche le cosiddette «letture» delle opere, che le colgano come testi organici, e non solo come mattoni per un discorso di storia della Chiesa o teologico.

Anche per questo motivo è assolutamente encomiabile l’iniziativa del Papa Benedetto XVI, che ha colto nelle Udienze pubbliche del mercoledì l’occasione opportuna per presentare alla Chiesa e al mondo – in maniera sintetica quanto efficace – le grandi figure dei Padri e degli Scrittori della Chiesa.

In ogni caso, resta globalmente valida la diagnosi del padre Basil Studer, l’illustre patrologo benedettino recentemente scomparso. Egli osservava che, per quanto negli studi patristici gli interessi storico-letterari e quelli dogmatici non siano più in così stridente opposizione, come era accaduto dalla fine del XVIII al XX secolo, tuttavia ancor oggi non mancano delle zone di tensione. Persino negli ambienti favorevoli, come atteggiamento mentale, alla teologia ecclesiale, spesso si affacciano delle riserve sulle modalità con cui le scienze patristiche vengono coltivate dai teologi. Grava sempre su questi il sospetto – spesso, a dire il vero, giustificato – che la loro mentalità dogmatica non sia in grado di rendere piena giustizia alla storia.

Questo stato di cose non può meravigliare. Infatti, il doppio orientamento che, ora più ora meno, è emerso nello sviluppo delle scienze patristiche genera facilmente delle tensioni. Lo storico e il letterato spesso mancano di senso teologico, e il teologo, a sua volta, corre sempre il pericolo di trascurare eccessivamente le caratteristiche peculiari delle forme letterarie e delle realtà storiche.

Sic rebus stantibus, sarebbe di grande profitto alle ricerche patristiche l'apporto di studiosi capaci di superare steccati disciplinari troppo rigidi. La specializzazione eccessivamente settoriale non favorisce un approccio soddisfacente ai Padri della Chiesa. Si potrà facilmente obiettare che la tendenza irreversibile dell'attuale organizzazione degli studi superiori conduce verso una sempre maggiore specializzazione.

Ebbene, proprio per questo è necessario formare studiosi aperti al dialogo interdisciplinare. L’esperienza di quarant’anni di ricerca e di insegnamento nell’ambito delle scienze patristiche mi insegna che né il teologo né il filologo né lo storico né il letterato... sono in grado da soli di ricostruire la poliedrica personalità dei Padri della Chiesa. Solo l'approccio multidisciplinare, riconosciuto e accettato nella ricerca comune e nel dialogo, si rivela capace di una sintesi originale e feconda.

L’eredità dei Padri della Chiesa

Ma perché – ci chiediamo a questo punto – è così importante coltivare lo studio dei Padri? Che cosa possono ancora insegnare questi scrittori cristiani, a tanti secoli di distanza, nell’oggi della cultura, della società, della Chiesa?

Credo che la risposta a simili quesiti debba navigare di necessità «tra Scilla e Cariddi». In altri termini, per cogliere l'eredità dei Padri e la rilevanza attuale del loro magistero, occorre superare due rischi estremi, fra loro contrapposti.

C'è da una parte il rischio di chi pretende di rintracciare nelle origini cristiane formule idealizzate o ricette immediatamente utilizzabili nell'oggi della Chiesa.

Nelle mie ricerche ho studiato con particolare interesse i primi tre secoli della Chiesa. Mi è parso chiaro che in questo periodo i cristiani si trovarono ad essere autentici soggetti di «nuova cultura», nel confronto ravvicinato tra eredità classica e messaggio evangelico. Ma le soluzioni patristiche del dialogo fede-cultura non furono certo univoche: talvolta nella stessa persona – come si può vedere nel caso emblematico di Tertulliano – si riscontrano atteggiamenti intolleranti, e viceversa posizioni aperte e possibiliste. In ogni caso questi atteggiamenti vanno valutati come delle «realizzazioni storiche», che non possiedono, come tali, altro magistero, se non quello – altissimo tuttavia per se stesso – della storia.

L'altro rischio è quello di chi non è disposto ad accettare il «carisma» delle origini cristiane.

Da parte mia, sono convinto che lo studio delle antiche testimonianze cristiane sia sorgente di discernimento per la cultura e per la Chiesa di ogni tempo. Ritengo infatti che il periodo delle origini – di cui il Concilio di Nicea (325) rappresenta per molti aspetti un traguardo oggettivo – conserva un carisma speciale.

È il momento in cui il deposito della fede apostolica si consolida nella tradizione della Chiesa. Per stare all'esempio appena citato, l'impostazione dell'incontro tra cristianesimo e cultura diede frutti decisivi – tali da non poter essere mai più dimenticati – sui piani del linguaggio, del recupero delle diverse culture e della storia intera, dell'individuazione di una comune «anima cristiana» nel mondo e della formulazione di nuove proposte di convivenza umana.

In questo senso il ricorso attento e vigile ai Padri della Chiesa è utile, e addirittura necessario, per comprendere e interpretare la stagione presente. Ritengo che tale ricorso sia particolarmente valido dinanzi ad alcune questioni, che forse oggi più di ieri appassionano l'uomo e il credente (per esempio la questione sociale e politica, la questione femminile, il rapporto fede-mondo...), perché in ciascuna di esse il magistero dei Padri può contribuire decisamente a illuminare problemi e soluzioni.

Per essere più concreto, propongo un esempio, legato all'esegesi patristica di Romani 13,1-7 («Ognuno sia sottomesso alle autorità superiori...»). Tale esegesi suggerisce nei confronti delle autorità politiche due grandi linee di comportamento.

Da una parte si esorta il credente a riconoscere la legittimità delle istituzioni e lo si invita alla sottomissione «per un motivo di coscienza», perché «non c'è autorità se non da Dio, e quelle che ci sono, sono state disposte da Dio». Per altro verso, è escluso che le realtà temporali possano arrogarsi i diritti di Dio e autodivinizzarsi: in tal modo sono confutati in radice il culto dell'imperatore e qualunque pretesa sacralizzante dello stato.

Di qui ha origine il duplice atteggiamento dell'accettazione e del rifiuto delle istituzioni politiche («sì, ma...»), caratteristico dei primi secoli cristiani. È un atteggiamento che trova riscontro oggettivo specialmente negli orientamenti caratteristici della «grande Chiesa» (di solito più favorevole al «sì») e dei gruppi settari e rigoristi (spesso orientati al «ma», e talvolta al «no» senza appello): prima di tutto, però, questo atteggiamento trascorre attraverso la coscienza dei credenti, di fronte alle concrete situazioni storiche e alle varie contingenze politiche.

In tal modo il messaggio neotestamentario, interpretato e vissuto dalle prime generazioni cristiane, continua a porre due sollecitazioni fondamentali a ogni fedele impegnato nella gestione della politica e dello stato.

La prima sollecitazione invita a desacralizzare il potere e ad opporre una radicale obiezione di coscienza dinanzi alle pretese totalitarie delle istituzioni politiche. La seconda sollecitazione, conseguente alla prima, afferma l'autonomia della coscienza individuale, e impegna al doveroso discernimento di ciò che è servizio della comunità e obbedienza alle leggi da ciò che è idolatria dello stato e capitolazione di fronte a un potere ingiusto.

In questo modo il discepolo dei Padri, mentre si guarda da illusorie e anacronistiche soluzioni, intravede feconde prospettive di attualizzazione e di impegno.

Per un dialogo tra i «Padri di ieri» e la «cultura di oggi»

Per impostare un dialogo costruttivo e fecondo tra i «Padri di ieri» e la «cultura di oggi» è necessario assumere una prospettiva piuttosto ampia.

Occorre riconoscere anzitutto che il secolo XX è stato segnato da una serie imponente di accelerazioni e di mutamenti, in tutti i campi: anche in quello che più da vicino ci interessa, che riguarda il rapporto tra la Chiesa e la cultura, e più complessivamente tra il cristianesimo e la cultura.

Quel lento e secolare processo, che comincia a manifestarsi nel Rinascimento – per il quale la Chiesa si sente prima isolata, e poi per lungo tempo assediata e minacciata dal mondo, e per il quale d'altra parte il mondo a poco a poco si radica su basi strutturali diverse rispetto alle precedenti, che erano intimamente ispirate alla fede cristiana –: questo processo trova ai nostri giorni la sua consumazione e, almeno in parte, il suo superamento.

In esso infatti si manifesta con tutta la sua forza incisiva la secolarizzazione, quel fenomeno ben noto alle società occidentali, che reca in sé il declino della pratica religiosa, la desacralizzazione del mondo e la conformità ad esso, il disimpegno della società dalla religione, la trasposizione di modelli di comportamento e di credenze dalla sfera «religiosa» alla sfera «mondana». Certo, ci si riferisce ancora, esplicitamente o implicitamente, ai valori evangelici, i quali tuttavia appaiono come staccati dalla radice che li nutre.

Bisogna ammettere però che alcuni sistemi hanno addirittura rinnegato totalmente tali valori. Il 18 agosto 1991, parlando in Ungheria alle comunità protestanti, Giovanni Paolo II ha efficacemente delineato questa situazione: «I nostri avi su questo continente», ha detto il Papa, «anche dopo la Riforma condividevano la convinzione, spesso data per scontata, che la società e la cultura europee avessero la loro origine e ispirazione nei valori religiosi: la fede nel Dio Trino e in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, la visione della vita sulla terra come pellegrinaggio verso la vita eterna, l'innato e inalienabile valore della persona umana dal suo concepimento fino alla morte... Oggi la società tende a ignorare, e perfino a ripudiare gran parte di questo retaggio».

Ma bisogna anche ammettere che lo sviluppo degli eventi ha assunto per alcuni aspetti una fisionomia diversa da quella prevista. Tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo è tramontato il positivismo scientista, che, se mai, ha lasciato il posto al neopositivismo di prevalenti interessi logico-linguistici. E ora stanno davanti ai nostri occhi lo scacco del marxismo e il crollo del «muro», dovuti al fallimento, in vaste zone del mondo, della concezione atea e del sistema economico e sociale comunista; d'altra parte lo smarrimento lasciato da quei regimi, che pensavano di cancellare Dio dalla e nella società, ha lasciato un vuoto, che rischia sempre più di essere colmato dall'irrompere di fattori negativi, recati dalle società opulente.

Di fronte alle immense sfide poste alla Chiesa dalle ideologie e dagli eventi della nostra epoca, occorre rilevare che molti fedeli hanno fatto proprie un'attenzione e un'apertura nuove verso il mondo, un atteggiamento che – per quanto concerne la Chiesa cattolica – è stato solennemente sancito dai Documenti del Concilio Vaticano II.

D'altra parte – e completiamo così l'ampio quadro di riferimento sin qui evocato, per entrare più direttamente nella questione in esame – la medesima situazione culturale ha indotto i cristiani a interrogarsi più a fondo sulla loro identità e sui loro fondamenti, perché il Cristo da loro testimoniato parlasse con efficacia agli uomini di oggi.

Già nel 1946 Henri de Lubac scriveva parole che non si possono dimenticare: «Il cristianesimo, prima di poter essere adattato nella sua presentazione alle generazioni moderne, occorre che nella sua essenza rimanga se stesso. Infatti, quando è se stesso, è a un passo dall'essere adattato. La sua natura non è forse di essere vivente, e per ciò stesso sempre attuale? Il grande sforzo consiste dunque nel ritrovare il cristianesimo nella sua pienezza». E continuava, giungendo così al cuore del nostro problema: «Ma come ritrovare il cristianesimo, se non risalendo alle sue fonti, cercando di comprenderlo nelle sue epoche di vitalità esplosiva? Come ritrovare il significato di tante dottrine e di tante istituzioni, se non attraverso l'impegno di raggiungere quel pensiero creativo, di cui esse sono state la concretizzazione? Quante esplorazioni nelle lontane regioni della storia presuppone una ricerca di tal genere! Del resto, ci sono voluti quarant'anni per entrare nella terra promessa. Occorre a volte molta arida archeologia per far sgorgare di nuovo fontane d'acqua viva».

Non è un caso che pochi anni prima, nel 1942, proprio Henri de Lubac – insieme a Jean Daniélou e a Claude Mondésert – avesse dato inizio alla celebre collana Sources Chrétiennes, con l'intenzione di mettere a disposizione del pubblico le opere complete dei Padri della Chiesa.

In effetti, risalire alle fonti cristiane significa risalire agli antichi scrittori cristiani. In questi ultimi decenni molti «utensili», per così dire, concettuali, metodologici e bibliografici sono stati messi in opera per una lettura più fedele della tradizione consegnataci dai Padri.

Resta il fatto – e accenno ad alcuni elementi di metodo per un dialogo costruttivo e fecondo tra i Padri di ieri e la cultura di oggi – che le opere degli antichi scrittori cristiani non si leggono comodamente e distrattamente come il giornale; non hanno rapporto con la quotidianità banale e ciarliera della cronaca, ma piuttosto con l'attualità perenne dei grandi problemi umani e cosmici che riguardano le cose presenti e future. Servono un armamentario di conoscenze e la padronanza di alcuni strumenti di base, per essere in grado di penetrarne e di apprezzarne il messaggio; servono ancora la costanza e la pazienza nello studio. Si tratta della necessaria attrezzatura da acquisire, dei metodi da applicare per entrare nella familiarità con l'ambiente, lo spirito e l'eredità dei Padri.

In tali ambiti le discipline antico-cristiane e classiche – a cominciare dallo studio delle lingue latina e greca – hanno larghi spazi di impegno da offrire alle persone sensibili ai valori della cultura.

Il messaggio dei Padri per una cultura dell’Europa unita

Amore per la fede e passione per la cultura: potrebbe essere questa la sigla distintiva della dottrina patristica. Oggi invece si nota spesso in coloro che dicono di amare la fede un certo distacco dalla cultura, e in coloro che dicono di amare la cultura una certa diffidenza verso la fede.

I nostri Padri, invece, hanno saputo coniugare la fede e la ragione, il Vangelo e la cultura, mettendo al centro della loro dottrina il Logos, Gesù Cristo, colui che insegna all’uomo la sua vera vocazione, e il giusto atteggiamento da assumere verso Dio, l’uomo e il mondo.

In particolare, sono soprattutto due i modi con i quali i Padri ci possono aiutare a riscoprire il messaggio del Vangelo nel mondo di oggi, o – se preferiamo – nell'impegno di una «nuova evangelizzazione» della cultura (mi riferisco qui alla cultura mediterranea europea): per continuità e per contrasto.

I Padri sono vicini al nostro sforzo per continuità, nel senso che la riflessione sulle radici della cultura europea trova in loro l'humus normale di riferimento, e la sua fondazione letteraria e storica.

Ma i Padri aiutano il nostro sforzo anche per contrasto, perché – come è stato osservato con ragione – l'odierno cattolicesimo rischia di essere troppo acquiescente nei confronti di una certa cultura dei valori comuni e dei diritti dell'uomo, una cultura dei valori che molto spesso non corrisponde a un’autentica gerarchia dei valori. Penso che il richiamo all'antropologia dei Padri, dove la dignità dell'uomo è saldamente radicata nella creazione divina e nell'immagine di Cristo, servirà a chiarire l'oggetto e i confini del dialogo sui valori, che rimane comunque necessario e urgente.

Su questa linea di riflessioni – e così concludo – possiamo addurre la risposta di un “filosofo mediterraneo”, non precisamente cattolico, nel corso di una recente intervista.

Alla domanda: «Secondo molti, dalla crisi della modernità si esce soltanto attraverso un riferimento all'Assoluto. E secondo lei?», Massimo Cacciari ha risposto così: «Certamente no! O almeno, bisogna precisare che cosa s'intende per Assoluto. Nella nostra cultura il vero termine di riferimento non è l'Assoluto, ma l'Incarnazione. Questo è il messaggio evangelico: guarda il "totalmente Altro" nel tuo prossimo, ma quello concreto, quello che muore in croce, davanti a cui devi fare proskunesis, genuflessione, come davanti a qualcosa di sacro. Questa è la vera chiave dell'Europa. Invece, pensare di uscire dalla crisi restaurando una qualche trascendenza, un Assoluto nel senso di ab-solutum, un punto di riferimento sciolto dal dramma dell'Incarnazione, è folle. Bisogna ricordare infatti che il Risorto non è un individuo totalmente risanato, ma si presenta con i segni della crocifissione».

Sono parole che fanno pensare, anche di fronte al dibattito odierno sulla presenza del Crocifisso nelle aule pubbliche: al di là dell'esegesi che se ne può fare, ci richiamano ancora una volta alla dottrina dei nostri Padri. Essa ci insegna a non disperdere il cristianesimo in un vago senso della trascendenza, o in una discutibile cultura dei valori comuni: ci invita piuttosto a vedere il trascendente nel Crocifisso risorto – unico vero centro della storia e della cultura –, a contemplarlo e a servirlo anche nel fratello da amare, fino al dono supremo della vita.