1/ L'intervista. Giappone, la lunga strada della conversione 2/ Il giorno in cui il cristianesimo fu bandito dal Giappone, di Thérèse Puppinck 3/ «Silenzio», di Shusaku Endo. Un «thriller» teologico, di Ferdinando Castelli 4/ Recensione di Antonello Iapicca al film Silence

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /02 /2022 - 00:12 am | Permalink | Homepage
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1/ L'intervista. Giappone, la lunga strada della conversione

Riprendiamo da Avvenire dell’11/7/2016 un articolo senza indicazione di autore. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Religioni dell’estremo oriente.

Il Centro culturale Gli scritti (6/2/2022)

Particolare del Martirio dei 70 giapponesi ed europei a Nagasaki: 
martiri decapitati.
Dipinto eseguito a Macao da Anonimo giapponese tra
il 1626 e il 1632. Foto di Zeno Colantoni.
Per gentile concessione
dei padri gesuiti della Chiesa del Gesù. Riproduzione riservata.
Per ulteriori immagini dei dipinti, cfr.
I martiri giapponesi di Nagasaki:
immagini seicentesche nella Chiesa del Gesù

Il Centro studi asiatici, nato per iniziativa dei missionari Saveriani in Giappone, ha appena completato una interessante raccolta di storie di conversioni locali alla fede cattolica narrate in prima persona in un decennio. Della conversione in Giappone – realtà che sarà evidenziata quest’anno dal 50° anniversario della pubblicazione de Il Silenzio, opera più nota dello scrittore cattolico giapponese, Shusaku Endo, morto vent’anni fa, ma anche dall’uscita entro l’anno del film Silence, diretto da Martin Scorsese e ispirato dal libro – abbiamo parlato con padre Tiziano Tosolini, missionario in Giappone da 17 anni, studioso e saggista, che del Centro saveriano è ispiratore e direttore.

«Purtroppo in Giappone non praticare la religione è considerato un fatto normale, mentre credere e praticare è visto come cosa fuori dal comune» dice Giovanni Kanmuri in una delle esperienze raccolte in Storie di conversione.

È proprio così?

«Sicuramente in Giappone la religione resta anzitutto un fatto culturale e familiare. Le religioni giapponesi tradizionali, buddhismo e shintoismo, non hanno un catechismo, la gente sostanzialmente non le conosce ma ne segue alcuni aspetti. Non ci sono in Giappone celebrazioni obbligatorie per fede e a essere seguite sono quelle che dipendono dalla tradizione nazionale, locale e familiare. I giapponesi non necessariamente praticano quanto previsto dalla religione a cui dichiarano di aderire e – anche per uniformità sociale – l’interesse religioso è sempre un po’ nascosto. Di conseguenza, per un cristiano che congiunge invece conoscenza e pratica della fede i problemi si moltiplicano».

Quello di non potere parlare di religione, di non potere esprimere la propria fede apertamente negli ambiti più normali è un limite riscontrato dai convertiti. Come si spiega?

«Non si parla di religione un po’ perché non si vogliono creare divisioni, differenziazioni. Ovviamente, però, non parlarne impedisce il dialogo, che è anche utile per perfezionare la propria fede. Da me vengono spesso cristiani per discutere della loro conversione perché, in quanto straniero, li metto a loro agio. La risposta credo più ovvia alla domanda: “perché non ci sono guerre di religione in Giappone?” è che, semplicemente, le fedi si ignorano. Esiste anche un problema sociale, con un concreto rischio di estraneazione. Noi cristiani siamo, concretamente anche se non cronologicamente, all’avvio della presenza in questo Paese. Da qui la difficoltà di mediare la nostra fede con comportamenti che sarebbero lontani dal cristianesimo. Prendiamo, per esempio, la questione degli antenati: un cristiano nato in una famiglia buddhista dovrà accettare di essere separato dai genitori dopo la morte... un problema questo molto sentito tra i giovani».

Un’altra convertita, Agnese Fumiyo Negoro, evidenzia la diversità tra la fede che si è scelta, il cattolicesimo postconciliare, e la tradizione più antica della cristianità giapponese. Quanto è sentita questa problematica?

«Le famiglie tradizionalmente cristiane, diciamo quelle territorialmente concentrate nell’area di Nagasaki, eredi della cristianità perseguitata per oltre due secoli dall’inizio del 1600, trovano grandi difficoltà a passare la propria fede ai figli. Faticano a adeguarsi ai cambiamenti in quanto la loro tradizione è frutto di una fede più antica, anche con un forte senso del martirio e dell’isolamento. Occorre invece aprirsi e trasmettere la propria fede, diventare missionari... Un passaggio importantissimo che vedo concretizzarsi tra i convertiti recenti. Non conservazione della fede, ma trasmissione della fede è la sfida che tocca anche noi missionari. La Chiesa, a distanza di quasi cinque secoli dallo sbarco di san Francesco Saverio in Giappone, è ancora immatura e la gerarchia fatica a promuovere l’innovazione. La tentazione è di mantenere le peculiarità di un cristianesimo indigenizzato, per noi missionari invece la forza è l’universalità della Chiesa. Qui la spinta all’inculturazione resta ancora forte, ma non nel senso inteso dalla Chiesa universale e difatti per i cattolici giapponesi un viaggio a Roma è momento di scoperta, di conoscenza di una realtà davvero universale.

Si è speculato molto sull’attrattiva del cristianesimo come estensione di un più generico interesse per la cultura occidentale. Quanto c’è di vero?

«Io non credo che la curiosità o l’interesse per la cultura dell’Occidente aprano alla conversione. Contrariamente alle fedi tradizionali, il cristianesimo è visto come troppo intellettuale. Il Giappone ha assorbito tantissimo dall’esterno ma ha mantenuto la sua anima, in una stratificazione di esperienze di ogni genere, anche occidentali, prese per quello che possono interessare o servire. La percezione da cui partono i convertiti è che “qualcuno ci vuol bene”. In una realtà dove i concetti di gratuità, creazione, amore, trascendenza, eternità sono perlopiù ignoti, l’approccio è più sentimentale che conoscitivo. Sentire che qualcuno ti vuole bene vale più di un libro, un quadro, un’opera d’arte. I convertiti delle storie raccontate hanno relativizzato qualcosa che ritenevano importante, continuano a amare le proprie cultura e tradizione ma in modo diverso. In sostanza, Gesù Cristo non viene anteposto alla cultura di origine ma è affiancato alla propria vita».

Nelle esperienze da voi raccolte, si intravede anche la "sfida" rappresentata dagli immigrati. Una situazione che sempre più chiama in causa la Chiesa giapponese.

«Sicuramente. Basti pensare che a fianco di 440mila cattolici giapponesi, abbiamo 600mila immigrati battezzati. Provengono in particolare da Perù, Brasile, Messico, Filippine... paesi cristiani e di conseguenza trovano nella parrocchia un luogo di aggregazione, il centro delle vita comunitaria. Una concezione diversa da quella della cattolicità locale. Gli immigrati hanno anche un modo molto diverso di rapportarsi con i sacerdoti, i missionari e le donne fanno da ponte, perché ancora una volta sono più ricettive. Molti sacerdoti giapponesi offrono posti per radunarsi, cercano di imparare spagnolo o portoghese, ma con la crescita delle comunità straniere si prospetta l’incognita della loro accettazione. La sfida attuale si può sintetizzare nell’alternativa tra una Chiesa duale – locale e immigrata – oppure di una integrata e a sua volta aperta al mondo.

2/ Il giorno in cui il cristianesimo fu bandito dal Giappone, di Thérèse Puppinck

Riprendiamo dal sito Aleteia un articolo di Thérèse Puppinck pubblicato il 26/1/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Religioni dell’estremo oriente.

Il Centro culturale Gli scritti (6/2/2022)

© Leemage via AFP Gesuiti martiri in Giappone.

Francesco Saverio, missionario gesuita, lasciò l’india nel 1549 per andare a evangelizzare il Giappone. Fu da principio accolto bene dalle autorità, che gli permisero di predicare. La fioritura del cattolicesimo fu relativamente rapida, fino all’editto di bando del 27 gennaio 1614. Cominciarono allora più di due secoli di persecuzione violenta e crudele.

Nel XVII secolo la mentalità giapponese riguardo al mondo esterno era molto aperta. I gesuiti approfittarono della curiosità intellettuale dei Giapponesi per pubblicare e distribuire molte opere cattoliche, libri di formazione e di pietà, ma anche studi comparativi fra buddismo, filosofia scintoista e cattolicesimo. Queste pubblicazioni didattiche sono utilissime perché permettono di mettere in esergo la ricchezza del cattolicesimo in rapporto alle filosofie orientali. La religione cattolica conquistò rapidamente tutti gli strati della società, dai grandi signori feudali agli umili contadini. Le chiese fiorirono in tutto il sud del Paese. I primi due preti giapponesi furono ordinati nel 1601. 

Quando già si contavano circa 300mila cristiani, nel 1603, uno sconvolgimento politico sbarrò brutalmente la strada all’espansione del cattolicesimo. Il potere infatti fu carpito da armigeri che progressivamente conquistarono tutto il Paese per farne uno Stato centralizzato. Il cattolicesimo, religione nuova e che non riuscivano ad asservire al progetto, apparve come un ostacolo. Cercarono allora con ogni mezzo di proibirlo e di eliminare i cristiani. Cominciarono quindi le persecuzioni, che si fecero via via più intense. 

Il decreto di bando, del 27 gennaio 1614, ordinò la distruzione di tutte le chiese e il bando di tutte le religioni, occidentali o giapponesi. Ciononostante, alcuni missionari decisero di restare clandestinamente nel Paese per non abbandonare i fedeli. La repressione, dapprima lieve, si amplificò in capo a qualche mese, e divenne violentissima a partire dal 1618, data a partire dalla quale essa fu condotta da funzionari cristiani apostati. L’amministrazione costruì un efficace sistema che premiava le delazioni. Nel mese di ottobre 1619 cinquantatré cristiani furono bruciati vivi

Come ha limpidamente illustrato padre Pierre Dunoyer (Missione Étrangères de Paris), grande specialista del Giappone, l’anticristianesimo giapponese non sorgeva dal popolo, fu anzitutto una costruzione politica. Le misure repressive furono disposte nel contesto di un cambiamento di regime. Per consolidare il proprio potere e mettere a tacere eventuali oppositori, il nuovo governo utilizzò sistematicamente una tattica totalitaria evocando a ogni piè sospinto lo spettro di un comune nemico esterno, comune a tutti, che il cattolicesimo ben si prestava a interpretare. Il metodo fu talmente efficace che lo Stato finì per applicare a tutta la società questo sistema repressivo di sorveglianza generalizzata. 

Le persecuzioni si accentuarono ancora dopo il 1633, in particolare con l’istruzione di una polizia segreta che sorvegliava in particolare gli apostati e le loro famiglie. Il governo utilizzava l’e-fumi per braccare cristiani: ogni persona sospettata di cattolicesimo doveva calpestare un’immagine della Vergine Maria o di Cristo davanti alle autorità locali. Chi rifiutava veniva arrestato, torturato e poi gettato nel cratere del vulcano Uzen. I supplizî furono particolarmente atroci nella prima metà del XVII secolo. A complemento delle persecuzioni, lo Stato allestì una propaganda scritta commissionando e diffondendo numerosi testi anti-cristiani. La repressione dei cattolici è tale che gli osservatori stranieri ritennero non potersi rinvenire in Giappone un solo cristiano vivente

240 anni più tardi, la situazione politica era cambiata parecchio e alcuni preti furono autorizzati a entrare in territorio giapponese. Essi costruirono una chiesa, a Nagasaki, che dedicarono ai martiri del paese. Un giorno dell’anno 1865 un gruppo di una quindicina di persone si presentò davanti alla chiesa, cercò il prete e gli chiese una statua della Vergine Maria: erano i discendenti dei cattolici del XVII secolo. I sacerdoti francesi furono molto impressionati di incontrare quei fedeli che avevano custodito intatta la fede dei loro antenati, trasmessa di generazione in generazione con molto rispetto e fedeltà grazie a qualche libro e a delle immagini devote tenute ben nascoste… ma soprattutto grazie a una efficace tradizione orale. Quei cattolici nascosti non avevano mai assistito a una messa, naturalmente, ma sapevano dell’esistenza del Santissimo Sacramento; festeggiavano la nascita di Cristo il 25 dicembre, praticavano un tempo di Quaresima, veneravano la Croce. Avevano una nettissima coscienza del peccato, della contrizione e della grazia. Battezzavano i bambini con l’esatta formula latina, piamente conservata, e pregavano il rosario. 

Presto i cristiani nascosti affluirono nella chiesa di Nagasaki: i preti, che non sapevano a chi ridare i resti, ne contarono circa 50mila. La storia di questi Kakure Kirishitan, dei cristiani nascosti del Giappone, impressionò molto fortemente i missionari occidentali. Essa rappresenta effettivamente una magnifica ed eroica testimonianza di trasmissione della fede cristiana attraverso i secoli e malgrado le prove. 

3/ «Silenzio», di Shusaku Endo. Un «thriller» teologico, di Ferdinando Castelli

Riprendiamo dal sito della rivista Note di pastorale giovanile (https://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=12765:lsilenzior-di-shusaku-endo&catid=365&Itemid=101) un articolo della rivista Civiltà Cattolica, pubblicato nel 1973 e ripubblicato nel 2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Religioni dell’estremo oriente.

Il Centro culturale Gli scritti (6/2/2022)

Chìmmoku («Silenzio»)[1] di Shusaku Endo è un romanzo di alto livello per contenuto e pregi formali, ma anche un aiuto al dialogo tra Oriente e Occidente, che ci rivela l’esistenza d’un romanziere cattolico con le carte in regola per stare accanto ai grandi, Bernanos, G. Greene, Mauriac, Green, von Le Fort.

Chi è Shusaku Endo? Nato a Tokyo nel 1923 e morto nel 1996, è stato autore di vari romanzi, studioso di letteratura francese, drammaturgo e giornalista, critico televisivo di letteratura, di storia e di altri problemi, cattolico. Appartiene alla piccola, ma agguerrita schiera di scrittori cattolici giapponesi che comprende Miura Ayako, Sumie Tanaka, Ariyoshi Sawako, Yashiro Sciichi, Toshio Shimao, Kunio Ogawa.

Qual è il Leitmotiv dell’opera di Endo? Sostanzialmente uno solo, ma visto in prospettive diverse: il rapporto tra cristianesimo e mentalità giapponese, tra Oriente e Occidente.

Dissipiamo subito un equivoco. Endo è scrittore sinceramente cattolico: «Quanto più scrivo, tanto più mi diviene impossibile pensare a un’altra guida, a un’altra insegna all’infuori del Cristo», scriveva anni addietro nel saggio Warera no bunkaku («La nostra letteratura»). Egli avverte però la sua incapacità di adattarsi ad alcuni elementi d’un cristianesimo strutturato secondo la mentalità occidentale e fissato negli schemi tomistici. «Se la teologia cristiana non si fosse sviluppata sul tomismo, ma sulla teologia di sant’Agostino, forse la situazione sarebbe diversa», ha scritto nel saggio citato. Come pretendere che un giapponese si adatti a un abito prettamente occidentale, a lui estraneo? Endo vuole sottolineare l’universalità del cristianesimo, la legittimità e l’urgenza del pluralismo teologico; conseguentemente vuole scavare nel cuore dell’uomo, alla ricerca di quelle componenti universali che trovano nel cristianesimo la loro espressione più autentica, e fondare su di esse la forza dell’evangelizzazione.

In realtà, per avere un termine di paragone capace di darci un’idea di Silenzio, bisogna ricorrere a Il potere e la gloria e a Il nocciolo della questione, di Graham Greene. Stessa atmosfera di thriller impregnata di grossi problemi teologici, stessa passerella di poliziotti e di preti braccati, stessa maniera di lasciare i grossi interrogativi sospesi, stesso sfondo di humour nerastro.

Nelle prime pagine, il romanzo ha un’andatura dimessa; ricorda quelle vecchie monografie missionarie, delizia dei nostri anni giovanili: «Era giunta notizia alla Chiesa di Roma che a Nagasaki, in Giappone, il missionario padre Cristovão Ferreira, gesuita portoghese, sottoposto alla tortura dell’anazuri, o sospensione, aveva apostatato. Si trovava in Giappone da 33 anni: era quindi un veterano e al più alto posto di responsabilità come Superiore provinciale, era stato guida dei sacerdoti e dei fedeli».

Era vera la notizia? Se sì, com’era stata possibile l’apostasia d’un missionario dall’anima ardente e dalla solida formazione teologica? E che cosa era successo di lui? Inoltre, era lecito abbandonare a se stessa la Chiesa giapponese e accettare passivamente il disonore della sconfitta? Pungolati da questi interrogativi, alcuni gesuiti avevano ottenuto il permesso di recarsi nel Paese del Sol Levante, dove, dopo la primavera cristiana inaugurata da san Francesco Saverio, era stato proclamato il periodo del sakoku (nazione chiusa). La cristianità, ridotta a un gregge sparuto, viveva arroccata nella paura e nel silenzio. I missionari, uno dopo l’altro, erano stati o espulsi o arrestati e condannati, o avevano apostatato.

Il 23 marzo 1638 i padri Francisco Galvez, João de Santa Marta e Sebastião Rodriguez – protagonista del romanzo – salparono dalle foci del Tago verso il Giappone. Un’impresa folle, legittimata dall’ardore missionario e dall’impazienza di sapere la verità su Ferreira. «Quei suoi occhi profondi celesti, quel volto irradiante luminosa tenerezza, si domandavano, come si sarà trasformato sotto le torture dei giapponesi? Il Rodriguez, per quanto ci si provasse, non riusciva nella sua immaginazione a sovrapporre a quel volto luminoso un’espressione di sconfitta e di umiliazione. Non poteva credere che Ferreira avesse rinnegato Dio e avesse perso la tenerezza del suo viso, sempre così buono. Egli e i suoi compagni dovevano assolutamente andare in Giappone, e cercare dove stesse, e vedere che gli fosse successo».

Approdati clandestinamente in Giappone, Galvez e Rodriguez – Santa Marta è rimasto a Macao, febbricitante – iniziano una vita da cani, prima nascosti in una stamberga, poi fuggiaschi attraverso boschi e paludi, finché al primo viene tagliata la testa e l’altro finisce in prigione. I 300 denari d’argento, promessi a chi avesse scovato un missionario, costituivano per le autorità civili una carta sicura.

Un bel giorno al prigioniero si presenta un visitatore insolito: vestito scuro, capelli castani acconciati alla giapponese. È il vecchio venerato maestro Ferreira. Ora si chiama Sawano Chuan: dopo il cedimento (così veniva chiamata l’apostasia), ha ereditato il nome, la moglie e i figli di un giustiziato. Avanza a testa bassa, come «un bue tirato con la fune». «Mi hanno detto... di esortarti... a rinnegare », mormora stancamente. Poi continua: «Sarà bene che tu guardi qui...» e, senza dir parola, mostra le cicatrici, dietro le orecchie.

«Tutto questo si chiama anazuri, sospensione sulla fossa. Forse ne avrai sentito parlare: legàti mani e piedi e con il capo impacchettato in una stuoia, si pende nel vuoto di una fossa, con la testa all’ingiù».
L’interprete gesticola facendone il verso e finge anche lui di tremare: «Invece di far morire uno di colpo, si aprono dei fori dietro le orecchie e si fa stillare il sangue a goccia a goccia».

Perché ostinarsi in un’impresa disperata? Perché permettere la tortura di tanta gente? Perché non rendersi utili in altri modi? Dopo giorni di torture, per risparmiare ai cristiani le atrocità del martirio, anche lui cede. E anche a lui vien dato il nome di un morto, Okada Sanemon, assieme a sua moglie.

Il silenzio di Dio

La vicenda del romanzo è sostanzialmente storica. Lo abbiamo potuto rilevare esaminando il grosso volume del p. Schutte sulla storia dei gesuiti in Giappone[2]. Alcune libertà letterarie le indica lo stesso Shusaku Endo, in una nota finale[3]. Ciò però che rende il romanzo denso e stimolante è la tematica di fondo: problemi di teologia, interrogativi storici, prospettive pastorali e psicologiche. Con arte consumata, Endo vivifica le tematiche incarnandole nelle vicende dei personaggi, senza troppo pronunziarsi o scoprirsi. Si avverte subito però che, tra le righe del libro, c’è tutto un rigurgito di problemi del suo autore e di molti cristiani giapponesi nei confronti del cristianesimo. Esaminiamoli uno per uno.

Innanzitutto, il silenzio di Dio dinanzi alla sofferenza del credente.

Se Dio esiste e se è amore, perché questo suo persistente, scoraggiante, enigmatico silenzio? Come se fosse lontanissimo e indifferente? Un essere di pietra o di legno? Due cristiani vengono trascinati sulla spiaggia per il supplizio del mare. «Vicino alle onde furono innalzati due pali a forma di croce e sopra vi vennero legati strettamente Ichizo e Mokichi. All’alta marea i loro corpi sarebbero stati sommersi quasi fino al mento. Non moriranno subito. Solo dopo due o tre giorni, esausti nel corpo e nello spirito, esaleranno l’ultimo respiro».

Dopo due giorni sembra che i due si siano fatti tutt’uno con le croci. Di tanto in tanto, portata dal vento, si sente la voce degli agonizzanti. «Sembra il ruggito d’un animale, quella voce, nelle orecchie. E ogni volta i contadini piangono, tremando in tutto il corpo». Poi la fine. «E dietro la sconfortante impassibilità di questo mare, il silenzio di Dio! Dio, che al gemito degli uomini rimane con le braccia incrociate, in silenzio...». Anche quando al martirio della carne si aggiunge il martirio dello spirito e gli interrogativi più crudeli martellano la fede, Dio resta avvolto nel silenzio. Se il martirio è il supremo atto d’amore verso Dio, come è possibile che egli resti impassibile? «Ma, Signore, perché taci? Tu lo dovresti sapere, quel contadino mezzo cieco è morto qui, per te. Eppure questa stupida tranquillità continua, continua questa imperturbabilità di pieno mezzogiorno.
Solo il ronzio d’una mosca. E Tu, come se questo fatto stupido e atroce non t’importasse niente, tu guardi dall’altra parte?».

La fede ha da offrire una risposta a questi interrogativi? O bisogna rassegnarsi, con Giobbe, all’oscurità di Dio? Oppure il silenzio è indice di assenza? Senza nulla togliere alla drammaticità del silenzio di Dio, Shusaku Endo, alla fine del romanzo, risponde agli interrogativi con una frase densa di significato teologico. A Rodriguez che, dopo l’apostasia, vorrebbe giustificarsi: «Signore, io mi risentivo per il tuo silenzio», Cristo risponde: «Io non stavo in silenzio. Soffrivo accanto a te».

Il volto di Cristo

Per illuminare bene la risposta, Endo fa riecheggiare le pagine del romanzo di un interrogativo, soffuso d’amore e di nostalgia: qual è il vero volto di Cristo? «Per secoli e secoli il volto di quell’Uomo crocefisso è stato raffigurato da innumerevoli artisti. Pur non avendolo mai visto, essi, sintetizzando i desideri e i sogni degli uomini, hanno dato vita a un volto soffuso di bellezza e santità. Ma sicuramente il suo vero volto era infinitamente più nobile di quanto essi potessero disegnarlo».

Per amore di questo volto, p. Rodriguez ha rischiato ogni cosa. Sa bene che esso per lui è tutto, per la vita e per l’eternità; che quel sorriso divino – che a volte scende sull’anima come un’invasione di vita – ricompensa da ogni sofferenza ed è garanzia di vittoria. Perciò lo cerca, con passione crescente. Chi lo ha ritratto con maggiore fedeltà? I primi cristiani, nelle linee semplici e innocenti del Buon Pastore? I bizantini, naso lungo, capelli ricciuti, barba nera, orientale? I pittori medievali, che hanno messo in evidenza la sua dignità e maestà? Egli ricorda con predilezione il volto di Cristo nella «Resurrezione», di Piero della Francesca, a Sansepolcro. «Un volto pieno di forza e che forza infonde, un volto da eroe! Io amo quel volto; io sono affascinato da questo volto di Cristo, come uno è affascinato dal volto dell’amante».

Forse il padre non ricorda un’immagine più viva e più vera: «Cristo che soffre, Cristo che patisce». La incontra, questa immagine, senza intuirne tutta la realtà, quando vede riflesso nella pozzanghera il suo volto di fuggiasco: «una faccia sporca di fango, con una barba indecente, la faccia d’un uomo sfinito e in preda all’ansietà, di un uomo braccato che si sente inesorabilmente perduto»; la faccia di un «mostriciattolo, con le labbra a sberleffo e gli occhi sbilenchi: una maschera ridicola» (p. 86).

A misura che le sofferenze si fanno più vive, il missionario comprende che il vero volto del Signore è come il suo, sfigurato e pietoso, come quello di tutti i cristiani che soffrono. È un volto sul quale si riflettono la paura e la pietà, la macerazione del corpo e dello spirito. Si riflette anche la sofferenza per il silenzio di Dio: a Cristo in croce Dio non ha concesso nessuna parola e nessun miracolo.

Ora, non è il cristiano il riflesso vivente di Cristo? Non deve, dunque, esprimere i tratti più salienti del suo volto divino? Non deve sperimentare, come lui, l’abbandono e la solitudine? Ma ciò è comunione di vita con Cristo, non silenzio di Cristo. Il silenzio di Cristo, quando si vive per lui, è presenza di Cristo.

«Come un ragazzo pensa al volto del suo intimo amico, molto lontano, così, nei momenti di solitudine, egli era solito pensare a quel volto. Ma da quando era stato arrestato, e specialmente nel silenzio della prigione [...] la sua passione aveva qualcosa di diverso.
Ora quel volto, in mezzo a quelle tenebre, gli era molto più vicino.
Anche ora taceva, ma fissandolo con uno sguardo pieno di tenerezza.
E sembrava dirgli: “Quando tu soffri, io soffro con te. Ti sarò vicino fino alla fine”».

Atto d’apostasia o atto d’amore?

Perché p. Rodriguez ha commesso il peccato di apostasia? Shusaku Endo ci dà una risposta sconcertante: per amore.

Nel carcere il missionario ascolta il rantolo dei cristiani sottoposti alla tortura dell’anazuri. «Se cedi, quelli saranno subito liberati dalla tortura, saranno slegati e ci si prenderà cura di loro». Che cosa deve fare: abbandonarli a una morte bestiale o cedere e salvarli? «Egli era venuto in questa terra a dare la sua vita per questi uomini; in realtà, erano questi cristiani che, uno dopo l’altro, morivano per lui. Come avrebbe dovuto fare? Non lo sapeva».

Dio tace: a chi chiedere una risposta? «“Ti credi più importante di loro. O almeno è la tua salvezza che ti importa. Se cedi, questi uomini saranno tolti dalla fossa, saranno liberati dalle loro pene. E ciò nonostante tu non vuoi cedere. E questo perché ti spaventa tradire la Chiesa per loro. Perché ti spaventa diventare una vergognosa macchia della Chiesa, come me”. Ferreira parlava concitato, sdegnato. Ma la sua voce si fa gradatamente più insinuante: “Cosa vuoi, fu lo stesso per me. In quella notte fredda, completamente oscura, anch’io ero proprio come te ora. Ma pensi proprio che questo sia un atto d’amore? Si dice che il sacerdote deve vivere seguendo l’esempio di Cristo. Se Cristo fosse qui...”. Ferreira tacque per un istante, ma poi, riprendendo con forza: “Certamente Cristo per loro avrebbe ceduto! Per amore si sacrifica tutto se stesso...”».

La scena notturna assume toni altamente drammatici. Le idee sembrano impazzite e i protagonisti ispirati da esseri invisibili. Ferreira incalza: «Stai per compiere un grande atto d’amore che finora nessuno ha compiuto... I tuoi fratelli nella Chiesa ti metteranno sotto accusa, come hanno fatto con me. Ma c’è qualcosa di più grande della Chiesa e della stessa evangelizzazione: è quello che stai per fare...».

Prima di calpestare il volto di Cristo – «un ben poco attraente volto di Cristo coronato di spine, con le braccia aperte, scarnite» –, il missionario, tremante, raccoglie l’immagine con tutte e due le mani, preme il volto su quel volto che era stato calpestato da tanti, lo bacia, poi alza il piede intorpidito, pesante.
«In quel momento egli sta per calpestare ciò che in tutta la sua vita aveva pensato come la cosa più affascinante, ciò che aveva creduto come la cosa più santa, come la cosa che appaga ogni più sublime ideale, ogni sogno umano. Il piede gli duole. Allora: “Calpesta pure – gli dice l’Uomo del medaglione di rame –, calpesta pure! Io più di tutti comprendo il dolore del tuo piede... Calpesta pure! È per essere calpestato da voi che sono venuto in questo mondo, è per condividere i vostri dolori che mi sono caricato della croce”. E quando il padre posò il piede sull’immagine, ecco il mattino. Lontano, un gallo cantò».

L’episodio – letterariamente molto suggestivo, condotto in un ritmo ricco di pathos, di suspense e di finezza psicologica – solleva molti problemi delicati, dietro i quali il romanziere si nasconde e ci guarda divertito. Come giudicheremo il gesto del suo protagonista? Si tratta d’un peccato o d’un atto d’amore? Esistono realmente azioni più grandi della Chiesa e della stessa evangelizzazione? Shusaku Endo non intende dare soluzioni: ha voluto scrivere un romanzo, non fare della teologia. A lui preme sollevare problemi: problemi da lui avvertiti in tutta la loro delicatezza e gravità, e che non possono non lasciare pensosi.

P. Rodriguez ha agito collocandosi in una prospettiva diversa. Convinto che per il bene del Giappone e della stessa religione cristiana un missionario debba assumere la mentalità giapponese, ha calpestato l’immagine, perché così avrebbe fatto ogni vero giapponese.

Pazienza se a tal fine bisogna sacrificare alcune regole della dottrina cattolica. L’amore non è più grande di ogni regola? Nelle sue condizioni, ogni giapponese avrebbe ceduto, affidandosi alla misericordia di Budda; lui ha ceduto, affidandosi alla misericordia di Cristo. Il commissario Inoue giudica l’atto una distorsione della dottrina cristiana secondo il modo di pensare giapponese. Distorsione o fedeltà del cuore? «O Signore, non pensare che io ce l’abbia con te; solo che mi viene da sorridere di fronte al destino dell’uomo.
La mia fede è diversa da quella di prima, ma anche ora ti amo».

Giuda come una marionetta

Ma l’uomo è realmente libero di fronte alle scelte della sua esistenza? Artefice del suo destino? Prendiamo, ad esempio, Kichijiro, che segue il missionario come un cane. Lo si direbbe l’abiezione fatta persona per quell’accumularsi sulla sua anima di tradimenti, di avidità, di pusillanimità. È un riflesso di Giuda: solo che lui tradisce non per i soldi, ma per la paura.

«“Anch’io ho i miei perché, e chi ha calpestato ha i perché di uno che ha calpestato. Come può pensare che io abbia calpestato l’immagine per gusto? Mi doleva il piede per la pena... Eccòme mi doleva... Dio mi chiede di essere come i forti, anche se mi ha fatto debole. Ma non è assurdo?”. Tra una pausa e l’altra, la sua voce di rammarico e d’ira si muta in gemito, e il gemito in pianto.

«“Padre, che può fare uno pauroso come me? Io non l’ho tradito per pochi soldi... Era la paura...”. Quando il povero diavolo chiede di essere riammesso nella comunità, i cristiani lo scherniscono: “Hai sentito, hai sentito? Tu che hai calpestato! Tu qui! Vigliacco! Vergognoso!”. È esatto: vigliacco, traditore, Giuda. Lo ammette lui stesso. “Ma se fossi nato prima, in tempi passati, anch’io sarei potuto essere un buon cristiano e andare in paradiso. Non sarei stato disprezzato dai fedeli come un rinnegato. Ma disgraziatamente sono nato in questo tempo di persecuzioni”».

Kichijiro come Giuda. L’uno tradisce la comunità cristiana come l’altro ha tradito Cristo. Tradito? Il mistero di Giuda da anni tormenta p. Rodriguez; ora diventa ossessivo.

«Quell’Uomo lo sapeva che Giuda lo avrebbe tradito; e perché allora lo aveva annoverato tra i suoi apostoli? Conosceva bene le vere intenzioni di Giuda; e allora perché aveva sempre agito come se non sapesse niente? E ancora una volta pensò: non sembrava Giuda una marionetta mossa da qualcuno per rendere possibile la croce di quell’Uomo? «E inoltre... inoltre, se quell’Uomo era l’amore per essenza, perché alla fine aveva abbandonato Giuda, tanto che questi era andato a impiccarsi nel Campo del Sangue, e anzi lo aveva abbandonato fino al punto da lasciarlo sprofondare nelle tenebre eterne?».

Questi interrogativi riaffiorano nell’animo del padre «come una sudicia schiuma sopra una palude», mentre la voce strozzata di Kichijiro gli ronza nelle orecchie: «Padre, lo so, io sono debole... Sono nato debole... Un debole non può essere martire... Che devo fare? Ma perché sono nato in questi tempi?».

Gli interrogativi del romanzo da sempre tormentano l’uomo.

Scrittori di alto livello hanno tentato di affrontarli per ghermire qualche barlume. Dostoevskij, soprattutto nei Fratelli Karamazov. Shusaku Endo, più che disquisire, vuole interrogare. Che cosa è mancato a Giuda per salvarsi? Fino a che punto siamo responsabili delle nostre scelte? Può un uomo, determinato al peccato, salvarsi? Può Dio abbandonare un peccatore a se stesso? Indubbiamente, il cuore dell’uomo è un mistero: il grande abisso, lo chiama sant’Agostino, e Baudelaire lo paragona all’oscuro abisso del mare dinanzi al quale il Vangelo (Mt 7,1) ci esorta a lasciare a Dio ogni giudizio. Solo Dio, infatti, conoscendo perfettamente l’uomo, può stabilire fino a che punto, nell’assumere le sue decisioni, è stato libero e responsabile.

Tutti abbiamo – chi più, chi meno – le nostre paure e le nostre miserie; ma abbiamo anche la grazia, con cui possiamo superare le varie difficoltà. Il problema è sapere fino a che punto l’uomo accoglie e sviluppa questa grazia, oppure la rifiuta. Non si tratta di una scelta puramente intenzionale, ma esistenziale, per cui il battezzato s’impegna ad annientare – anche se non ci riuscirà mai del tutto – la signoria del proprio io, cioè il dominio dell’orgoglio e della menzogna per erigervi il regno dell’amore e della verità.

La grazia di Dio è gratuita, certo, ma facienti quod est in se Deus non denegat gratiam (Dio non nega la grazia a chi fa quello che si deve fare). Ciò significa che Dio afferra ogni uomo con la sua grazia in modo che questa non manca se non a colui che positivamente la rifiuta.

A quanti poi si chiedono come mai Dio abbia concesso all’uomo la libertà, pur prevedendone l’abuso, bisogna rispondere che tra tutti i beni da lui creati la libertà è il più grande. «La ragione per cui Dio gli ha concesso la libertà, senza impedirgli che ne abusasse, rientra nel grande, impenetrabile mistero del come mai Dio abbia creato questo mondo con la sua innumerevole schiera di peccati». Ma «non si può affermare che un mondo con il peccato sia migliore d’un mondo senza peccato»[4].

Gli interrogativi del romanzo, pertanto, non ci fanno urtare contro l’assurdo, bensì contro il mistero. Ma questo mistero è animato dall’amore di Dio.

Il Giappone inadatto al cristianesimo?

Accanto a questi problemi squisitamente teologici, Shusaku Endo ne solleva altri, anch’essi teologici, ma su uno sfondo storico e sociologico-pastorale. Il più importante è così formulato dal commissario Inoue: «Il Giappone non è un paese adatto per la religione cristiana. La religione cristiana non vi potrà mai attecchire». «In un terreno un albero cresce e in un altro terreno lo stesso albero si secca. L’albero della religione cristiana, negli altri paesi mette foglie, gemme e fiorisce, ma nel nostro paese le foglie si seccano e non si vede una gemma. Differenza di terreno, differenza di acqua».

La tesi è sorretta da due argomenti. Primo: i giapponesi convertiti al cristianesimo erano contadini, condannati a lavorare e a morire come bestie da soma. Nella nuova religione essi hanno «sentito il calore del cuore umano, hanno incontrato chi li trattava da uomini».

Secondo: il Dio dei convertiti giapponesi non era il Dio dei cristiani, ma «i loro dèi».

Shusaku Endo, da romanziere smaliziato, si diverte a giocare sul rapporto dialettico tra mentalità cristiana e mentalità giapponese; situa vicende e problemi su uno sfondo fortemente drammatico, dalle tinte molto vive, con venature d’uno humour amaro ed efficace; forza ed esaspera idee e personaggi per raggiungere meglio i suoi obiettivi. Viene anche il sospetto che, a volte, provi un certo gusto a mettere in evidenza le miserie dei missionari e dei cristiani mancati. Crediamo che ciò egli lo faccia per sottolineare, da una parte, il non-senso del trionfalismo della Chiesa missionaria, dall’altra, la realtà e il fascino del Cristo crocifisso, dal cuore aperto per accogliere tutti i miserabili della terra.

© La Civiltà Cattolica 2017 I 23-33 | 3997 (31 dic 2016/14 gen 2017)

4/ Recensione di Antonello Iapicca al film Silence

Riprendiamo sul nostro sito la parte iniziale di una recensione al film Silence scritta da Antonello Iapicca sul suo profilo FB il 29 gennaio 2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Religioni dell’estremo oriente.

Il Centro culturale Gli scritti (6/2/2022)

Eh no, la “palude” non è mica solo il Giappone. La “palude” circonda la vita di tutti, ovunque, da sempre. Ci seminiamo il matrimonio e ogni relazione, perché la “palude” è il cuore, infido e imprevedibile, “un abisso” che rende l’uomo “un baratro” (Sal 63).

Identificarla con una Nazione e la sua cultura, la storia e la religione, è forse il più fuorviante degli equivoci su cui posa il contenuto e l’impianto narrativo del libro “Chinmoku - Silenzio” di Shusaki Endo e dell’omonimo film di Martin Scorsese.

“La nostra religione non può mettere radici in questo Paese perché questo Paese è una palude; non cresce niente qui, una pianta germoglia e le radici marciscono” afferma Cristobal Ferreira, Provinciale dei Gesuiti in Giappone, “prete caduto” durante le terribili persecuzioni che subirono i cristiani in Giappone.

La vera apostasia è tutta in questa frase, ben più grave e gravida di conseguenze della stessa “formalità” con cui calpestare un immagine sacra, che è solo la conseguenza dell’inganno cui Ferreira ha dato credito.

Per comprendere l’autentico messaggio del libro e del film, bisogna essere chiari storicamente ed onesti intellettualmente: il Ferreira di entrambi non è quello della storia. Prima Endo e poi Scorsese hanno attinto dalla sua vicenda ciò che della loro hanno voluto, o creduto di poter identificare.

Di certo non l’ha spinto all’apostasia il pensiero che un suo “korobi” – “caduta” potesse salvare altri cristiani. È infatti un’invenzione di Endo trascritta nell’opera teatrale “Ogon no Kuni – Il Paese dell’oro” pubblicata alcuni mesi prima di “Silenzio”.

Scriveva Diego Yuki Pacheco (missionario gesuita spagnolo, profondo e serio conoscitore della storia della Chiesa in Giappone e in particolare dei suoi martiri) in un articolo del 1966 “Il sacerdote caduto nelle opere di Endo Shusaki”, che “quando Ferreira fu appeso a testa in giù sulla collina di Nishizaka non vi era lì alcun contadino sottomesso ai tormenti. Suoi compagni nella fossa erano tre sacerdoti gesuiti e uno domenicano spagnolo, due studenti gesuiti e uno domenicano, giapponesi. Tutti morirono martiri”.

Non possiamo neppure affermare che Ferreira apostatò in virtù di una conversione intellettuale al buddismo, visto che perfino nel “Kengiroku”, un libro probabilmente redatto da lui per confutare la fede cristiana opponendo ai suoi principi quelli buddisti, “Ferreira insiste più nell’attacco al cristianesimo che nella sua adesione al buddismo; nel libro non appare la minima conoscenza della dottrina buddista mentre non ci dice che Ferreira fosse diventato buddista con il cuore. L’unica cosa che manifesta è una profonda amarezza, un desiderio di vendetta contro quegli insegnamenti che un giorno furono la sua vita e dai quali non riusciva a distaccarsi” (Pacheco, ibid).

Era entrato infatti appena sedicenne nel noviziato dei gesuiti a Campolido, in Portogallo. E a soli vent’anni parte per il Giappone dove approda, ancora studente, nel 1602. Perfezionata la formazione a Macao, torna in Giappone per fare la sua professione religiosa nel 1617, in piena persecuzione.

Molto stimato dai superiori che vedevano in lui la stoffa del leader, è designato Superiore dei Gesuiti della Regione di Kyoto e infine, nel 1632, Vice Provinciale del Giappone. Dopo appena un anno cade in mano dei persecutori e il 18 ottobre del 1633 apostata dopo cinque ore di sofferenza nella “fossa”. Dopo l’abiura troviamo Ferreira al servizio del “bugyo” o governatore di Nagasaki; ormai è Sawano Chuan, il nome di un giustiziato da cui ha ereditato anche la moglie e un figlio.

Gira per vari tribunali nei quali vengono giudicati altri missionari, ma non sembra essere troppo risoluto e convincente; nel 1639 a Tokyo, ripreso per la sua apostasia dal Padre Gesuita giapponese Pedro Kasui durante il processo a suo carico, Ferreira abbandona il tribunale; nel 1642 tenta di spingere all’apostasia il Padre Rubino e i suoi tre compagni, ma è respinto con veemenza e i quattro gesuiti muoiono martiri nella fossa.

Il 30 settembre del 1643 torna a Tokyo come collaboratore dell’inquisitore Inoue, e stavolta riesce a ottenere l’abiura dai missionari da poco giunti in Giappone, che però ritrattarono più volte.

Uno di questi, Giuseppe Chiara, ha ispirato a Endo la figura del Padre Rodriguez, il protagonista di “Silenzio”. Il nome di Sawano Chuan appare varie volte nel diario di una fattoria olandese situata nell’isola di Deshima, arcipelago di Nagasaki, che di lui ci lascia una fosca istantanea: “Un portoghese che è stato superiore dei Gesuiti da queste parti, adesso va sempre sporco e ha un cuore nero”.

Diametralmente opposta, e quindi falsa e ingannevole, la figura di Ferreira che appare nel film, dove l’approdo alla fede buddista sembra averlo rigenerato e “ripulito” anche esteriormente, come del resto occorre a Rodrigo dopo la sua apostasia.

Il breve excursus storico ci aiuta a scrostare dalla figura di Ferreira la patina ideologica e ideale che gli autori gli hanno cucito addosso: “la caduta non fu dovuta ad alcun atto eroico in favore della cristianità” (Pacheco, ibid). È dunque basato su un’invenzione il fatto da cui il libro e il film traggono il messaggio fondamentale. Logica vuole che un presupposto falso renda inattendibile l’intero svolgimento e il risultato finale di qualsiasi ragionamento, anche se la maggior parte dei critici e degli spettatori è rimasta colpita, e spesso affascinata, proprio dal presunto sacrifico “vicario” dei due missionari.

Quello che invece “Silenzio” vuol dirci è che l’apostasia è stato un atto d’amore perché essa ha salvato i cristiani giapponesi dalla morte a cui li condannava una religione straniera alla quale non avevano mai davvero aderito. I missionari hanno apostato perché incapaci di avere ragione della “palude” nella quale, a testa in giù, erano stati calati: “non sei stato sconfitto da me, ma da questa palude che si chiama Giappone” dice infatti alla fine l’Inquisitore Inoue a Padre Rodriguez.

È questa la frase chiave di tutto il film. Come afferma satanicamente Ferreira, sarebbe stato l’orgoglio dei missionari ad uccidere i cristiani. La superbia di identificarsi con Cristo e di voler piantare la sua Croce in Giappone. Quella superbia dei sacerdoti che tanto ha colpito Scorsese, come ha recentemente detto in un’intervista a Padre Spadaro pubblicata su “La Civiltà Cattolica”: “se davvero si ha la chiamata, come si fa ad affrontare il proprio orgoglio? Se si è in grado di eseguire un rito in cui si produce la transustanziazione, allora sì: si è molto speciali. Tuttavia, è necessario anche qualcos’altro. Sulla base di ciò che ho visto e vissuto, un buon prete, oltre ad avere quel talento, quella capacità, deve sempre pensare anzitutto ai suoi parrocchiani. Quindi la domanda è: come fa quel prete a superare il suo ego? Il suo orgoglio? Volevo fare quel film. E ho capito che con Silence, quasi sessant’anni dopo, stavo facendo quel film. Rodrigues è direttamente alle prese con quella domanda”.

E risponde apostatando, perché crede all’insinuazione di Ferreira con cui il demonio gli rovesciava la realtà come un calzino: tu non vuoi apostatare per l’orgoglio di sentirti come Cristo, vedi te stesso come una transustanziazione di Cristo, mentre per superare l’orgoglio devi pensare agli altri cristiani che si fidano di te e stanno soffrendo. Apostata e così salverai te dall’orgoglio e loro dalla morte. Apostata, e così diventerai finalmente quello che per Scorsese è un vero sacerdote: “i buoni sacerdoti che ho conosciuto hanno sempre messo da parte il loro ego. Quando lo si fa, restano soltanto le necessità — le necessità degli altri — e vengono meno le domande sulla penitenza da scegliere o su ciò è o non è la compassione. Esse diventano prive di significato”.

L’ego sarebbe messo da parte in favore delle necessità tutte terrene degli altri, per le quali è ovvio che la com-passione, il patire la stessa sofferenza in unione a Cristo non ha significato; se la Croce smette di essere la porta che dischiude il Cielo, diventa una inutile sofferenza priva di significato. Astuto come un serpente, con questo velenoso sofisma satana riesce così a trasformare l’apostasia nel supremo atto d’amore attraverso il quale liberare i giapponesi convertiti dall’orgogliosa utopia della Chiesa europea di farli diventare cristiani alla maniera occidentale.

La morte dei cristiani giapponesi, dettagliatamente e lentamente ripresa nella parte del film, si rivela così come un martirio alla rovescia, la testimonianza cioè del fallimento della missione dalla quale solo l’apostasia poteva salvarli. Solo Gesù, quello di Endo e Scorsese ovviamente, lo ha capito, e ce lo dice quando invita Rodriguez a calpestare la sua immagine occidentale nella quale i missionari volevano trasformare i poveri e ignoranti contadini giapponesi.

Non so se Scorsese abbia colto questa subdola e perversa ideologia nazionalistica di “Silenzio”, un cancro che mette in pericolo l’unità della Chiesa, come già accadde ai tempi dei grandi scismi eretici e gnostici e delle riforme dell’era moderna.

Forse no, forse si è fermato alla superficie emotiva del dramma di Ferreira e Rodriguez, quella del presunto silenzio di Dio davanti alle sofferenze patite per il suo nome, rotto solo dalla voce di Gesù che incoraggia Rodriguez ad apostatare. Infatti, dice, proprio per questo “sono nato in questo mondo, per condividere il dolore degli uomini, ho portato questa croce per il vostro dolore”. Non è possibile che Dio voglia la sofferenza, Dio ci salva dalla morte, no? E come ci salva? “Condividendo” il dolore degli uomini, che in “Silenzio” significa lasciarsi calpestare rinunciando ad essere il Dio Onnipotente che salva dal peccato e dalla morte, per vestire gli abiti degli uomini e nascondersi in essi, come appare nella scena finale.

Insomma, può salvare solo un Dio sconfitto dalla “palude”, perché il Dio orgoglioso della sua unicità uccide invece di salvare. Salva un Dio diluito nei costumi della palude che accoglie e legittima tollerante e pietoso i suoi liquami. È qui, e non nell’apostasia come atto estremo d’amore, che si nasconde il messaggio più potente e velenoso del film.

5/ Brevissima nota a commento dell'apostasia nel film Silence, a cura de Gli scritti

Non deve essere trascurato nell'analisi del film il fatto che venga ancora una volta riproposta l'idea tante volte applicata a Giuda che il tradimento abbia una sua necessità, mentre, al di là di ciò che si pensi di Silence, il tradimento di Giuda non è necessario: servì solo a far catturare Gesù senza la presenza del popolo, ma il Cristo sarebbe lo stesso stato catturato e condotto a norte. Giuda è purtroppo inutile (cfr. su questo Giuda è purtroppo inutile, di Andrea Lonardo). Con i riferimenti a Giuda si cerca di coprire il fatto che l'apostasia è inutile e non salva nessuna vita concreta, come le vicende della persecuzione anti-cristiana in Giappone dimostrano.

In secondo luogo il libro e il film sono troppo occidentali e poco giapponesi: sembrano dimenticare che uno dei valori fondamentali di quella cultura è l'onore. Tradire vuol dire perdere ogni dignità. La cultura giapponese educa ad essere pronti a qualsiasi sacrificio pur di non tradire. Meglio morire che perdere la propria dignità. Si pensi alla vicenda dei Kamikaze nella seconda guerra mondiale che sono concepibili solo in quella mentalità: l'uomo deve essere pronto a qualsiasi sacrificio, pur di contribuire all'indebolimento del nemico e a mantenere saldo il proprio nore.  

Note al testo

[1] Il 12 gennaio esce nei cinema italiani il film Silence del regista Martin Scorsese, ispirato al romanzo Silenzio (1996) dello scrittore giapponese Shusaku Endo. Nel precedente fascicolo della rivista abbiamo pubblicato una lunga intervista del direttore, p. Antonio Spadaro, al regista («“Silence”. Intervista a Martin Scorsese», in Civ. Catt. 2016 IV 565-586). Adesso, per l’occasione, riproponiamo quasi integralmente una riflessione sul romanzo che p. Castelli scrisse nel 1973. Nel presente articolo manteniamo la traduzione dal giapponese di Bonaventura G. Tonutti, edita a Tokyo nel 1972 in forma privata, che è quella usata allora da p. Castelli. Attualmente è nelle librerie italiane l’edizione Corbaccio, apparsa nel 2013, a cura di L. Lax. Tra le opere di Endo, ricordiamo: Shiroi hito («L’uomo bianco»), Kiro hito («L’uomo giallo»), Umiro dokuyaku («Il mare avvelenato»), Ryngalcu («Studiando all’estero»), Ogon no Kumi («Il paese d’oro»). Inoltre, la raccolta di saggi Shukyo to hungak («Religione e letteratura»).

[2] Cfr F. J. Schutte, Introductio ad historiam Societatis Iesu in Iapan: 1549-1560, Romae, AHSI, 1968.

[3] «Voglio qui notare che ho preso come modello della mia narrazione Okamoto San-emon. Egli, a differenza di Rodriguez Okada San-emon, nacque in Sicilia e si chiamava Giuseppe Chiara. Proponendosi di trovare il padre Ferreira, il 27 giugno 1644 approdò a Oshima, nel Chikuzen. Tentò la vita clandestina, ma fu subito arrestato dalla polizia di Nagasaki e mandato alla prigione di Kioshiltawa, in Edo. Interrogato dal signore di Chikugo, Inoue, e sottoposto alla tortura dell’anazuri, cedette. Da allora, costretto a prendere in moglie una giapponese, visse nella Residenza coatta dei cristiani. Morì nel 1685, a 84 anni».

[4] M. Schmaus, Dogmatica cattolica, vol. 1, Torino, Marietti, 1963, 575.