La basilica di San Pietro e il Rinascimento
Premessa
Una questione grande, troppo grande
-da un punto di vista scientifico
-da un punto di vista storico e spirituale, un “mistero”
-San Pietro non è troppo grande, è troppo piccola!
-Roma è come la fabbrica de San Pietro, che nun finisce mai
1/ Una storia antica quella della basilica
-A Roma abbiamo la persistenza della basilica imperiale, con le sue volumetrie, pur se con l’orientamento ruotato di 90 gradi
-Si respira la “vecchia basilica” nelle basiliche paleo-cristiane (nell’odierna San Giovanni, ma non nell’odierna San Pietro)
-La basilica non era più la stessa all’alba del Rinascimento, per una serie di infinite aggiunte altomedioevali e bassomedievali
-Serena Romano, Roma come eterno palinsesto
-In via puramente teorica si sarebbe potuto conservare l’antico e cambiare orientamento (come ad es. in San Lorenzo); o si sarebbe potuto cercare di conservare l’antico rivestendolo (così Leon Battista Alberti a Rimini come un arca che include, così l’architettura moderna)
2/ L’idea della trasformazione della basilica è rinascimentale e non barocca!
Sono giustamente famose le parole di Leon Battista Alberti - che era anche priore nella parrocchia di Gangalandi e stipendiava un prete perché vi permanesse e vi celebrasse per potersi dedicare più liberamente al lavoro di architetto (Leon Battista Alberti, architetto ma anche priore (cioè "parroco") di San Martino a Gangalandi e romano di adozione, probabilmente sepolto nella Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio. Breve nota di Andrea Lonardo) – il quale, ammirando per la prima volta, la nuova cupola del Brunelleschi, si chiedeva:
«Chi mai sì duro o sì invido che non lodasse Pippo architetto vedendo qui struttura sì grande, erta sopra e' cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e' popoli toscani, fatta senza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname, quale artificio certo, se io ben iudico, come a questi tempi era incredibile potersi, così forse appresso gli antichi fu non saputo né conosciuto?».
Nelle sue parole riecheggia la consapevolezza dell’umanesimo cristiano che non solo è possibile uguagliare gli antichi del periodo classico, ma che ci è dato di superarli nell’ingegno e nell’arte, poiché ciò che noi oggi possiamo “appresso gli antichi fu non saputo né conosciuto”.
Fu proprio Leon Battista Alberti, sotto Niccolò V, come scrive T. Verdon in La basilica di San Pietro. I papi e gli artisti, Mondadori, Milano, 2005, «a insistere sulla necessità di intervenire sulla basilica costantiniana, chiamando l'attenzione dei contemporanei all’inclinazione sviluppatasi nei muri della navata maggiore, fuori piombo di oltre un metro».
Niccolò V, poi, su suggerimento dell’Alberti, incaricò Bernardo Rossellino sui collaboratore del nuovo progetto. Egli iniziò la costruzione di un nuovo coro esternamente alla basilica, che ingrandisse e sostituisse il transetto della basilica costantiniana. Il pontefice chiamò a Roma anche Beato Angelico, Piero della Francesca, Signorelli per lavorare nei nuovi palazzi vaticani, per il giubileo del 1450 - tutti i loro affreschi sono distrutti, tranne quelli con le Storie di San Lorenzo e Santo Stefano dipinti dal Beato Angelico.
Ma il Rossellino riuscì a realizzare solo un primo alzato del nuovo coro, di circa sette metri di altezza. I muri da lui eretti, e poi abbandonati, per alcuni decenni staranno lì a ricordare il progetto della nuova basilica, finché Giulio II non vi metterà mano risolutamente.
Cfr. sulla storia di San Pietro, oltre a Verdon, H. Bredekamp, La fabbrica di San Pietro. Il principio della distruzione produttiva, Einaudi, Torino, 2005 e i diversi contributi in Petros eni. Pietro è qui, Roma, Edindustria, 2006.
Lo si vede dalle absidi michelangiolesche! (anche da via Piccolomini)
3/ Il ruolo decisivo di Bramante
H. BREDEKAMP, La fabbrica di San Pietro. Il principio della distruzione produttiva, Einaudi, Torino 2005, pp. 24-25.
Condivi racconta come Michelangelo pensasse immediatamente di portare a compimento il progetto risalente a cinquant'anni prima per ricavare in questo modo lo spazio destinato ad accogliere la tomba di Giulio II: «Era la forma della chiesa allora a modo d'una croce, in capo della quale papa Nicola V aveva cominciato a tirar su la tribuna di nuovo, e già era venuta sopra terra, quando morì, all'altezza di tre braccia. Parve a Michelangelo che tal luogo fosse molto a proposito, e tornato al papa gli espose il suo parere, aggiungendo che, se così paresse a Sua Santità, era necessario tirar su la fabbrica e coprirla»[1]. La proposta rafforzò le componenti dinastiche del progetto per il monumento sepolcrale. Con la nuova costruzione del coro di Niccolò le tombe dei papi Della Rovere si sarebbero corrisposte non solo dal punto di vista iconografico e formale, bensì anche nella loro collocazione al centro di gigantesche cappelle. Lateralmente e dalla testata avrebbero conferito all'intera chiesa un'impronta specificamente di famiglia, come a Giulio II sino alla fine dei suoi giorni era stato a cuore. Negli ulteriori progetti di rifacimento si era sempre preoccupato che la cappella di Sisto non venisse toccata[2] e il giorno del suo testamento designò ufficialmente la «Capella Iulia» del coro come luogo della propria sepoltura[3]. Nel resoconto di Condivi echeggia lo spontaneo entusiasmo del pontefice di fronte alla proposta avanzata da Michelangelo nel 1505 di trasformare San Pietro in una chiesa di famiglia dei Della Rovere: «II papa l'addomandò che spesa sarebbe questa. A cui Michelangelo rispose: "Centomila scudi". "Sien (disse Giulio) dugento mila"»[4].
(L’assalto di Bramante al vecchio San Pietro), pp. 30-31
Quando con folgorante intuito già nel 1505 Bramante si rivolse a Giulio II chiamandolo «secondo Cesare»[5] per incitarlo a una demolizione e ricostruzione inaudite, egli stesso era in preda ad accessi di cesarismo. Da celebrato architetto quale egli era essere ridimensionato a operare nell'interesse di uno scultore alle soglie della vecchiaia deve essergli apparsa un'insopportabile pretesa. Non si peritò di suggerire al papa di eliminare il vecchio San Pietro per cancellare con il coro anche il luogo dove avrebbe dovuto essere collocata l'opera di tutta una vita di Michelangelo. In questa sfrenatezza, che scaturiva da un atteggiamento di rifiuto, si rivela la testa di Giano della sua volontà di progettare in modo innovativo e su grandi superfici. L'attacco di Bramante fa pensare che per lui le costruzioni storiche non fossero che un giocattolo sullo scenario della sua fantasia. La risposta del «secondo Cesare» fu dapprima tanto laconica quanto negativa. Giulio II riconobbe all'istante che il panegirico di Bramante serviva solo a dissimulare i suoi intenti. All'argomentazione di Bramante secondo cui la tomba di Pietro poteva essere spostata senza problemi al centro della nuova costruzione, Giulio II rispose rudemente che «niente doveva essere alterato» e che tutto doveva essere lasciato così com'era[6]. E che egli avrebbe «posto il sacro al di sopra del profano, il timor di Dio al di sopra dello splendore esteriore e la pietas al di sopra degli ornamenti, poiché non sta scritto: la tomba sia posta nel tempio, bensì il tempio sia costruito intorno alla tomba»[7]. Giulio II poteva lasciar cadere l'argomentazione di Bramante con tanta maggior facilità in quanto questi non aveva sfiorato, né tanto meno risolto, la faccenda che gli stava a cuore, ossia quella di creare il luogo dove collocare il monumento funebre. E per quanto riguardava l'obelisco di Cesare, soggiunse di sfuggita, se ne sarebbe occupato lui personalmente.
(La sconfitta di Michelangelo), pp. 46-47
A oltre quarant’anni di distanza Condivi asseriva orgogliosamente che senza il progetto di Michgelangelo per la tomba non si sarebbe mai arrivati al progetto di ricostruzione della chiesa: «Così Michelagnolo venne ad esser cagion, e che quella parte della fabbrica già cominciata si finisse, che, se ciò stato non fosse forse ancora starebbe come ell'era, e che venisse voglia al papa di rinnovare il resto con nuovo e più bello e più magno disegno»[8]. Condivi sottolineò il ruolo di Michelangelo nell’edificazione del nuovo San Pietro con tanta maggior enfasi per il fatto che il progetto della tomba non venne più realizzato. Anche la storia di questa revoca risale a Condivi. Egli presenta questa storia dal punto di vista di Michelangelo, ma il suo contenuto di verità è suffragato dagli eventi esterni. In un momento di sobrietà Giulio II giunse alla conclusione che la costruzione della chiesa e la tomba non erano compatibili dal punto di vista finanziario. Egli tagliò i fondi a Michelangelo, senza comunicarglielo personalmente: anche un secondo Cesare paventava la «terribilità» dell'artista[9]. Michelangelo fiutava un intrigo ordito dall'invidia. Aveva ricevuto tanti favori dal papa che «questi tanti e così fati favori furon cagione, come bene spesso nelle Corti avviene, d'arrecargli invidia e, dopo l'invidia, persecuzioni infinite. Perciocché Bramante architettore, che dal papa era amato, con dir quello che ordinariamente dice il volgo, esser mal augurio in vita farsi la sepoltura, ed altre novelle, lo fece mutar proposito»[10].
pp. 54-55
Michelangelo giudica Bramante fondamentalmente un «distruttore»: «[...] e massimamente che disfacendo egli San Piero vecchio, gittava a terra quelle maravigliose colonne che erano in esso tempio, non si curando, né facendo stima che andassero in pezzi, potendole pianamente calare e conservarle intere»[11].
pp. 56 I due diversi orientamenti di Giulio II e Bramante
Giulio II voleva vedere costruita la propria tomba e portata a compimento la ristrutturazione di tutto il settore occidentale della basilica in tempi non troppo lontani[12], mentre Bramante tramite i piloni della cupola tentava di consolidare la struttura del suo progetto globale.
pp. 63
Vasari sull’atteggiamento intransigente di Bramante
«Dicesi, che egli aveva tanta la voglia di vedere questa fabrica andare innanzi, che e' rovinò in San Pietro molte cose belle di sepolture di papi, di pitture e di musaici, e che perciò aviano smarrito la memoria di molti ritratti di persone grandi, che erano sparse per quella chiesa, come principale di tutti i cristiani»[13].
4/ Alla morte di Bramante, nel 1514, gli succede Raffaello
Incredibile che Bramante, Raffaello e Michelangelo muoiano tutti mentre stanno dando se stessi per San Pietro
Anche per questo il Rinascimento è romano
Il Breve di Leone X a Raffaello del 27 agosto 1515, molto citato e poco letto. In esso, il Papa non dà affatto a Raffaello (come spesso si dice) l'ufficio di soprastante alle antichità di Roma - una sorta di premonizione delle Soprintendenze d'oggi -, ma al contrario lo incarica di prelevare dalle rovine di Roma i marmi necessari per costruire la Basilica di San Pietro:
Dato che, per costruire il tempio del Principe degli Apostoli, è necessaria una gran quantità di pietre e marmi, che è opportuno trovare in patria anziché cercarli lontano, ho accertato che le rovine dell'Urbe possono fornire in abbondanza tali materiali (...). E poiché ti ho nominato a capo del cantiere [di San Pietro] e ho spesso constatato di persona la tua abilità artistica e la tua onestà, ti incarico di vegliare sugli scavi che da ora in poi si faranno, in Roma e nell'arco di 10 miglia, e sulle pietre che ne verranno tratte, e di acquistare per mio conto tutti i materiali utili alla costruzione [di San Pietro]. Pertanto ordino a chiunque scavi tali marmi di informartene entro tre giorni(...). Inoltre, poiché mi vien detto che molti marmi e pietre recano iscrizioni, che talora conservano informazioni degne di nota e meritano di essere conservate anche per lo studio e l'eleganza della lingua latina, ordino che i marmorarii specializzati nel tagliare le pietre non possano distruggere nessuna pietra iscritta senza il tuo ordine o permesso.
I rapporti con la preservazione dei beni antichi
L’idea di rinascimento e di età media nasce anche qui, a livello di ciò che si può distruggere e ciò che si deve preservare. Oggi ragioneremmo differentemente
Da S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, pp. 28-29
«L'ufficio di Commissario (più tardi Prefetto) alle Antichità di Roma fu creato in realtà qualche anno dopo la morte di Raffaello, quando Papa Paolo III Farnese, con Breve del 28 novembre 1534, lo affidò a Latino Giovenale Manetti. Seguirono molti altri, fra cui figure di prim'ordine come Giovan Pietro Bellori (1670-1694), Johann Joachim Winckelmann (1763-1768), Carlo Fea (1800-1836). […]
Andava intanto sviluppandosi la legislazione pontificia in materia di antichità, tesa a evitarne o limitarne l'esportazione da Roma. Già nel Quattrocento ci avevano pensato Martino V (1425), Eugenio IV [1437], Pio II (1462), e più tardi si susseguirono a ritmo serrato gli editti sullo stesso tema dei cardinali Camerlenghi Aldobrandini (1624), Sforza (1646), Altieri (1686), Spinola (1704, 1717), Albani (1733). Specialmente importante fu quest’ultimo editto, e non solo perché simultaneo alla decisione di Clemente XII di creare i Musei Capitolini, primo museo pubblico del mondo, ma specialmente perché fra i motivi di protezione del patrimonio artistico l'editto indicava per la prima volta, oltre al «pubblico decoro di quest'alma città di Roma», anche «il gran vantaggio del pubblico, e del privato bene», facendo leva sulla nozione giuridica di utilitas publica. Essa era al cuore della legislazione pontificia sin da Gregario XIII, che nella Costituzione Apostolica Quae publice utilia et decora (1574) proclamò l'assoluta priorità del bene e del decoro pubblico sulle cupiditates e sui commoda [interessi, profitti] dei privati, sottoponendo a rigoroso controllo l'attività edilizia. Un secolo e mezzo dopo, l'editto Albani applicava espressamente quello stesso principio alla tutela delle cose d'antichità e d'arte, e così fu da allora in poi in tutte le norme pontificie, come l'editto del Camerlengo Valenti [1750], dove si aggiunge che la conservazione delle opere d'arte «porge incitamento a' Forastieri di portarsi alla medesima Città per vederle, ed ammirarle»».
L’onore di lavorare per Santo Petro
Lettera di Raffaello a Simone Ciarla dell’1/7/1514.
«Circa a star in Roma: non posso star altrove più per tempo alcuno, per amore della fabrica di Santo Petro, ché sono in locho di Bramante. Ma quallocho è più degno al mondo che Roma, qual impresa è più degna di Santo Petro, ch'è il primo tempio del mondo, e che questa è la più gran fabrica che sia mai vista, ché montarà più d'un millione d'oro? E sapiate che 'l Papa ha deputato di spendare sessanta mila ducati l'anno per questa fabrica, e non pensa mai altro. Mi ha dato un compagno frate doctissimo, e vecchio de più d'octant'anni, e 'l Papa vede che 'l puol vivere pocho; ha risoluto S. Santità darmelo per compagno, ch'è huomo di gran riputatione, sapientissimo, accioch'io possa imparare se ha alcun bello secreto in architectura, acciò io diventa perfettissimo in quest'arte; ha nome fra' Giocondo; et onni di il Papa ce manda a chiamare, e ragiona un pezzo con noi di questa fabrica. Vi prego voi voliate andare al Duca e alla Duchessa e dirli questo: ché so lo haveranno chare a sentire che un loro ser[vitore] si facci honore, e racomandatimi a loro Signoria, et io del continuo a voi mi raccomando».
5/ Michelangelo fino al tamburo della cupola
Da Alessandro Brodini, San Pietro in Vaticano, in M. Mussolin (a cura di, con la collaborazione di C. Altavista), Michelangelo architetto a Roma Silvanaeditoriale, 2009, Milano, pp. 169-179
Anche se non era per loro possibile andare contro la volontà papale, i deputati cercarono molte volte di estromettere Michelangelo e ridimensionare il suo enorme potere, per esempio facendo talvolta leva sulla sua considerevole età; e se non vi riuscirono mai, furono comunque in grado di rendergli la vita difficile, anche quando Paolo III lo aveva decretato sovrano assoluto con un motu proprio (1549) che non aveva precedenti nella storia delle commissioni artistiche[14]. Tuttavia Michelangelo pose al papa una condizione: per il suo incarico in San Pietro non voleva che gli fosse erogato alcuno stipendio, perché intendeva lavorare solo per la gloria di Dio. In realtà è stato dimostrato che nel periodo in cui egli era occupato nella basilica continuò a percepire delle entrate mensili – tranne durante il papato di Paolo IV (1555-1559)[15]. Ma non si trattava affatto di un compenso erogato dalla Fabbrica – che quindi per lui non spese effettivamente nulla –, bensì di emolumenti che gli venivano dalla concessione del passo del Po presso Piacenza e in seguito dalla Cancelleria di Rimini[16]. Conformemente allo status che sentiva come proprio, e al fatto che non si considerava un artista comune, Michelangelo non voleva un salario ma una rendita.
Eliminato così l’interesse economico, l’architetto si era procurato un’altra arma da poter sfoderare contro le proteste dei deputati: le sue scelte in merito alla costruzione non erano infatti dettate dalla ricerca del profitto personale, ma unicamente guidate dall’amore per Dio. I deputati iniziarono così a prendere atto che le scelte progettuali erano ormai a loro precluse e si videro declassati al rango di semplici “pagatori”. Un episodio collocato da Vasari nel 1551 illustra con chiarezza questa nuova situazione e getta anche luce sul modo di lavorare di Michelangelo, a cui si è precedentemente accennato. L’architetto venne infatti convocato alla presenza del papa per dare conto di alcune accuse mossegli dai deputati i quali, non essendo a conoscenza del progetto, lamentavano che la costruzione del catino absidale meridionale avrebbe determinato una scarsa illuminazione (di nuovo la mancanza di luce come movente per le critiche). Dopo una rapidissima e sdegnata spiegazione di Michelangelo in merito alla realizzazione di altre finestre, i deputati gli risposero: “Voi non ce l’avete mai detto”[17]. La riluttanza a comunicare il suo pensiero per chiarire le proprie idee su parti dell’edificio non ancora compiute lasciava, ancora una volta, aperta la strada a modifiche e variazioni dell’ultimo minuto.
CCCII.
A Lionardo di Buonarroto Simoni in Firenze.
Venendomi a trovar qua in Roma circa du' anni sono messer Marinozzi d'Ancona, cameriere del duca Cosimo de' Medici, mi disse che sua Signoria àrebbe avuto grandissimo piacere ch'i' fussi ritornato in Firenze, e fecemi molte oferte da sua parte. Io gli risposi, che pregavo suo Signoria che mi concedessi tanto tempo che io potessi lasciare la fabrica di Santo Pietro in tal termine, che la non potessi esser mutata con altro disegnio fuori dell'ordine mio. Ò poi seguitato, non avendo inteso altro, in detta Fabrica, e ancora non è a detto termine; e di più m'è agunto che m'è forza fare un modello grande di legniame con la cupola e la lanterna, per lasciarla terminata come à a essere finita del tutto; e di questo son pregato da tutta Roma, massimamente dal Reverendissimo Cardinale di Carpi: in modo che io credo che a far questo mi bisogni star qua non man[1]co d'un anno; e questo tempo prego il Duca che per l'amor di Cristo e di Santo Pietro me lo conceda, acciò ch'io possa tornare a Firenze senza questo stimolo, con animo di non aver a tornar più a Roma. Circa l'esser serrata la Fabrica, questo non è vero, perchè, come si vede, ci lavora pure ancora sessanta uomini fra scarpellini, muratori e manovali, e con speranza di seguitare. Questa lettera io vorrei che tu la leggiessi al Duca, e pregassi suo Signoria da mia parte, che mi facessi grazia del tempo sopra detto, ch'i' ò di bisognio inanzi ch'i' possa tornare a Firenze; perchè se mi fussi mutato la composizione di detta Fabrica, come l'invidia cerca di fare, sare' come non aver fatto niente insino a ora.
(Di mano di Lionardo.) Di Roma. Riceuta addì 18 febraio 1556: de' dì 13 istante.
A Giorgio Vasari.
Messer Giorgio, amico caro. ― Voi direte ben ch'io sie vechio e pazzo a voler fare sonetti: ma perchè molti dicono ch'io son rimbambito, ò voluto far l'uficio mio. Per la vostra veggio l'amor che mi portate: e sappiate per cosa certa ch'io àrei caro di riporre queste mia debile ossa a canto a quelle di mio padre, come mi pregate; ma partendo ora di qua, sarei causa d'una gran rovina della fabbrica di Santo Pietro, d'una gran vergognia e d'un grandissimo peccato. Ma come sie stabilito tutta la composizione che non possa esser mutata, spero far quanto mi scrivete, se già non è peccato tenere a disagio parechi giotti ch'aspetton ch'io mi parta presto.
A dì 19 di settembre 1554.
MICHELAGNIOLO BUONARROTI in Roma.
CDLXXVI
Al mio caro messer Giorgio Vasari in Firenze.
Messer Giorgio, amico caro. ― A queste sere mi venne a trovare a casa un giovane molto discreto e da bene, cioè messer Lionardo, cameriere del Duca, e fecemi con grande amore e affezione da parte di sua Signoria le medesime offerte che voi per l'ultima vostra. Io gli risposi il medesimo ch'i' risposi a voi, cioè che ringraziassi il Duca da mia parte di sì grande offerte, il più e 'l meglio che sapeva, e che pregassi sua Signoria che con sua licenzia io seguitassi qua la fabbrica di Santo Pietro fin che fussi a termine, che la non potessi esser mutata per dargli altra forma; perchè partendomi prima, sare' causa d'una gran rovina, d'una gran vergognia e d'un gran peccato; e di questo vi prego per l'amor di Dio e di Santo Pietro ne preghiate il Duca, e racomandatemi a sua Signoria. Messer Giorgio mio caro, io so che voi conoscete nel mio scrivere ch'io sono alle 24 ore, e non nasce in me pensiero che non vi sia dentro sculpita la morte: e Idio voglia ch'i' la tenga ancora a disagio qualch'anno.
A dì 22 di giugno 1555.
Vostro MICHELAGNIOLO BUONARROTI in Roma.
Lettera a Giorgio Vasari del 12/5/1557
Messer Giorg[i]o amico caro,
io chiamo Idio in testimonio com’io fu’ contra mia voglia con grandissima forza messo da papa Pagolo nella fabrica di Santo Pietro di Roma dieci anni sono; e se si fussi insino a oggi seguitato di lavorare in decta fabbrica come si faceva allora, io sarei ora a quello di decta fabbrica, ch’io ò desiderato per tornarmi costà.
Ma per mancamento di danari la s’è m[o]lto alentata, e allentasi quando ella è g[i]unta in più faticose e dificil parte; in modo che abandonandola ora, non sarebe altro che con grandissima vergognia perdere tucto il premio delle fatiche che io ci ò durate in decti dieci anni per l’amore di Dio. Io v’ò facto questo discorso per risposta della vostra, perché ò una lectera dal Duca, che m’à facto molto maravigliare che Sua S(ignio)ria si sia degniata a scrivere, e con tanta dolceza.
Ne ringratio Idio e Sua Eccellenzia, e quanto so e posso. Io esco di proposito, perché ò perduto la memoria e ‘l cervello, e lo scrivere m’è di grande affanno, perché non è mia arte. La conclusione è questa di farvi intendere quello che segue dello abandonare la sopra decta fabrica e partirsi di qua. La prima cosa, contenterei parechi ladri e sarei cagion della sua rovina, e forse ancora del serrarsi per sempre; l’altra, che io ci ò qualche obrigo e una casa e altre cose, tanto che vagliono qualche migliaio di scudi, e, partendomi senza licenzia, non so come s’andassino; l’altra, che io son mal disposto della vita e di renella, pietra e fianco, come ànno tucti e’ vechi e maestro Eraldo ne può far testimonianza, che ò la vita per lui. Però il tornar costà per r[i]tornar qua a me no ne basta l’animo, e ‘l tornarvi per sempre, ci vole qualche tempo per asectar qua le cose in modo ch’io non ci abbi più a pensare.
Egli è, ch’i’ parti’ di costà, tanto che, quand’io g[i]unsi qua, era ancor vivo papa Clemente, che in capo di dua dì morì poi. Messer Giorg[i]o, io mi rachomando a voi e pregovi mi racomandiate al Duca e che facciate per me, perché a me non basta l’animo ora se non di morire; e ciò che vi scrivo dello stato mio qua è più che vero. La risposta ch’i’ feci al Duca, la feci perché mi fu decto ch’i’ rispondessi, perché non mi bastava l’animo scrivere a Sua S(ignior)ia, e massimo sì presto; e se io mi sentivo da cavalcare, io venivo subito costà e tornavo, che qua non si sare’ saputo. A messer Giorg[i]o Vasari amico karissimo.
Lettera ai deputati della Fabbrica del 18 febbraio 1562 per il mancato pagamento di un soprastante, in Petros eni. Pietro è qui, Roma, Edindustria, 2006, p.101
Facendoli sapere che io ci metto il corpo et l’anima per s.to Pietro […] si ricerca al honor mio non essendo obbligato a guadagno alcuno
-La questione della pianta centrale o della navata: l’ideale del Rinascimento e la realtà storica della comunità cristiana
6/ Il Rinascimento lasciò la questione aperta, fino alla “vittoria” finale del Bramante in età barocca
1538 muro divisorio
1605 decisione abbattimento della navata costantiniana
1614-1615 suo abbattimento
A sciogliere il conflitto sentito dai fautori della Historia sacra come tragico e a lungo irresoluto - voler conservare nella nuova costruzione la pianta cruciforme propria della basilica, ma per questo dover sacrificare l'antico prototipo – contribuì la stessa navata costantiniana offrendo il pretesto per la propria demolizione.
I segni della fatiscenza portarono a pensare di migliorare la statica tramite degli annessi. Sotto Clemente VIII dal muro esterno a sud, di fronte alla rotonda di Santa Maria della Febbre (Sant'Andrea), si erano staccati dei pezzi e cosi nel 1604 nacque l'idea di aggiungere lì e sul lato opposto due nuove cappelle «[...] per assicurar la Chiesa vecchia»[18]. In tale contesto Carlo Maderno, che nel 1603 insieme a Giovanni Fontana era subentrato come primo architetto a Della Porta, presentò un primo disegno che implicava l'avvio dell'ampliamento della nuova costruzione verso est[19], dal momento che l'ampliamento verso est era diventato ormai un punto fermo e aveva sviluppato una dinamica propria rafforzando a livello subliminare l'idea di demolire tutta la navata costantiniana.
Questo obiettivo Paolo V (maggio 1605 - gennaio 1621) l'ebbe in mente da subito ma il succedersi di opinioni, relazioni ufficiali e operazioni discordanti ci fa capire come egli non trovasse affatto un appoggio univoco e dovesse invece superare forti resistenze. Il suo primo provvedimento fu un'azione punitiva nei confronti della commissione e l’insediamento nei posti chiave di membri del proprio seguito. Con un decreto del 15 giugno 1605 il pontefice insediò una commissione composta da soli tre cardinali, di cui facevano parte oltre all'arciprete di San Pietro, Giovanni Evangelista Pallotta, anche Benedetto Giustiniani e Pompeo Arrigone. Il giorno stesso venne annunciata l'istituzione di una seconda commissione che avrebbe dovuto occuparsi del controllo dell'assegnazione degli appalti[20]. L'obiettivo era edificare le due cappelle progettate mentre la formulazione «[...] che si mandi a terra la chiesa vecchia di San Pietro»[21] lascia aperto il problema se la basilica dovesse essere demolita solo fino al punto dove dovevano sorgere le due nuove cappelle o nella sua interezza e questa indeterminazione deve essere stata voluta.
I fautori della demolizione del vecchio San Pietro devono aver percepito come un dono del cielo il fatto che nel settembre 1605 nel corso di una perizia eseguita da un architetto si decidesse di abbattere una finestra degli annessi superiori mentre si stava celebrando la messa[22]. Il 17 settembre, come è documentato, in seno alle due commissioni di recente costituzione riunite in sede comune «si è risoluto batter a terra la chiesa vecchia, che minaccia rovina»[23]. Paolo Emilio Santoro però annota che il cardinale Cesare Baronio nella decisiva seduta del 26 settembre 1605 si oppose «aspramente e piamente» alla demolizione dell'antica basilica. Baronio stilò l'elenco degli oggetti di culto in pericolo e terminò profetizzando che «gli animi di tutti si sarebbero volti in pena, tristezza e gemito». Ma anche l'enfasi con cui concluse la sua perorazione - «e una tale chiesa sarà distrutta per opera delle nostre mani!» - non sortì alcun effetto[24]. Paolo V replicò impassibile che non vi era modo di non demolire la navata del vecchio San Pietro poiché essa era cadente e restaurarla avrebbe richiesto un'immensa quantità di denaro[25]. Il I° ottobre il cardinale Pallotta incaricato della demolizione e della messa in salvo dei preziosi oggetti ordinò l'inizio dei lavori di abbattimento dopo aver trasferito il Santissimo Sacramento dal vecchio al nuovo San Pietro[26]. L'energia con cui nel 1505 Bramante aveva progettato l'abbattimento giungeva ora, esattamente dopo un secolo, a realizzare il proprio obiettivo.
In tale contesto i canonici di San Pietro formularono però una petizione che equivaleva a un rifiuto del decreto di demolizione del 26 settembre 1605 in quanto, cosi asserivano, la basilica costantiniana non era affatto pericolante[27]. Poiché già verso la metà del xv secolo vi erano state lamentele sui problemi della statica, ma le pareti e il tetto avevano tuttavia resistito per più di centocinquant'anni, e ciò malgrado le lesioni imputabili al cantiere, l'argomentazione dei difensori della navata, nonostante gli ulteriori danneggiamenti subentrati sotto il pontificato di Clemente VIII e Paolo V, non era da escludersi. Anche per quanto riguarda l'ultima tappa si ha la netta impressione che la fatiscenza della basilica sia stata tirata in ballo per giustificare la demolizione come una necessità oggettiva ineludibile e cosi porre fine alla discussione. Ai canonici in definitiva premeva in primo luogo promuovere la migliore conservazione possibile dei tesori dell'antica navata[28].
In passi successivi i monumenti sepolcrali e i reliquiari dovettero essere aperti, le reliquie tolte, registrate e trasferite nei nuovi luoghi a loro destinati prima che i lavori di demolizione potessero cominciare. Già alla fine del 1606 la chiesa era stata sgomberata al punto che il 3 di febbraio fu possibile dare avvio ai lavori stessi. Il tetto della navata centrale venne abbattuto nel giro di un mese e in aprile vennero rimossi anche i tetti delle navate laterali[29]. Dall'agosto del 1608 una fessura portò alla demolizione della parete nord di Santa Maria della Febbre, rimasta parzialmente in piedi quale ultima testimonianza del vecchio ambiente solo perché il nuovo edificio la sfiorava soltanto[30]. Alla fine del 1609 venne demolita la cappella di Sisto IV e ciò comportò nel febbraio dell'anno seguente la rimozione della tomba del papa, vale a dire il monumento funebre che ispirando la tomba Giulia di Michelangelo aveva contribuito all'abbattimento della basilica costantiniana[31]. A causa di un'ulteriore fenditura nell'ottobre del 1610 venne demolito il campanile all'ingresso della vecchia facciata (fìg. 32)[32]. Nel novembre dell'anno seguente le fonti attestano che i lavori di demolizione procedevano con notevole rapidità: «Si discopre a furia la chiesa vecchia»[33]. Alla vigilia di Natale del 1614 venne infine messo a disposizione il denaro per l'eliminazione del muro divisorio[34], il quale crollò definitivamente il 24 marzo 1615[35]. In realtà erano rimasti ancora in piedi alcuni tratti delle vecchie mura laterali, ma lo smantellamento della monumentale parete di Antonio da Sangallo del 1538, che in un primo momento aveva protetto il vecchio San Pietro dal nuovo San Pietro, e poi quest'ultimo dalla demolizione della basilica, deve aver sortito l'effetto del solenne sollevarsi di un sipario. Un resoconto del 12 aprile, pervaso dall'empito dello storico evento, afferma che con l'abbattimento del muro per la prima volta l'immensa chiesa si offriva all'ammirazione di tutti[36]. Grimaldi per parte sua commenta laconicamente: «II muro divisorio tra la vecchia e la nuova basilica viene demolito, e le rovine dell'antica chiesa crollano»[37].
7/ Una parola conclusiva
L’uomo fu al centro del cosmo anche nel Medioevo (è oggi che non lo è più), così come il Rinascimento fu cristiano
Cfr. Ildegarda di Bingen
Cfr. H. de Lubac, Pico della Mirandola: l’alba incompiuta del Rinascimento, Milano Jaca Book
Pico muore a 31 anni, de Lubac lo difende dall’accusa di essere eterodosso
Il Rinascimento non ha immaginato un'umanità prometeica, o autocreatrice, perché la libertà "consiste interamente nel potere di modellare se stessa con la scelta del bene o del male, cioè con il riconoscimento o con il rifiuto di un ordine oggettivo"
Certo, non una storia che si può cogliere come procedente di per sé verso il bene e quindi pienamente comprensibile
Fu il Rinascimento a creare un passato “oppositivo”
Proprio la questione architettonica mostra come la questione del rapporto con il ME non fu solo ideale. L’idea del Medioevo come età di mezzo, comportò l’idea di abbattere e demolire anche fisicamente le strutture medioevali
Antoni Gaudí,
I lavori della Sagrada Família procedono lentamente, perché il suo Padrone non ha fretta.
La vita è amore, e l’amore è sacrificio. A qualsiasi livello si osserva che, quando una casa conduce una vita prospera, c’è qualcuno che si sacrifica; a volte questo qualcuno è un domestico, un servitore. Quando le persone che si sacrificano sono due, la vita del nucleo diventa brillante, esemplare. Un matrimonio, in cui i due coniugi hanno spirito di sacrificio, è caratterizzato dalla pace e dall’allegria, che ci siano figli o no, ricchezza o no. Se coloro che si sacrificano sono più di due, la casa brilla di mille luci che abbagliano chiunque si avvicini. Il motivo della crescita spirituale e materiale degli ordini religiosi è che tutti i membri si sacrificano per il bene comune.
[1] Condivi 1930, pp. 92 sg.
[2] Thoenes 2000, p.18.
[3] «[...] et in qua corpus nostrum, nobis vita functis, sepeliri volumus» (Frommel 1977, Dok. 382, p. 126).
[4] Condivi 1930, pp. 93.
[5] Campbell 1981, p. 4.
[6] «Nihil ex vetere templi situ invertì» (Egidio da Viterbo, citato in Frommel, 1976, Dok. 8, p. 89; cfr. Metternich e Thoenes 1987, p. 45 e Hubert 1988, p. 196).
[7] [...] se sacra prophanis, religionem splendori, pietatem ornamentis esse praepositurum cum scriptum non sit, tumulum in tempio, sed templum in tumulo esse aedificandum» (Egidio da Viterbo, citato in Frommel 1976, Dok. 8, p. 90; traduzione tratta da Metternich e Thoenes 1987, p.45).
[8] Condivi 1930, pp. 93 sg.
[9] Ibid., pp. 94.
[10] Ibid., pp. 84 sg.; cfr. Ackerman 1974, pp. 344 sg.
[11] Condivi 1930, pp. 113 sg.
[12] Kempers (1996, pp. 223 sgg. e 292 sg.) sottolinea a ragione il fatto che ne Giulio II né i cronisti dell'epoca pensassero a un rinnovamento dell'intera basilica costantiniana, bensì solamente al rinnovamento del settore occidentale, come mostra la medaglia commemorativa.
[13] Vasari 1906, vol. IV, p.163.
[14] La completa libertà decisionale in merito a ogni questione riguardante la basilica fu confermata anche dai successori di Paolo III, cfr. Bredekamp 2008.
[15] Frey 1909, pp. 159, 161; Hatfield 2002, pp. 159-167.
[16] Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 84 [ed. 1568].
[17] Ivi, p. 92 [ed. 1568]
[18] Pollak 1915, 35, p.73; Corbo e Pomponi 1995, p. 230.
[19] Hibbard 1971, p. 158: 100; cfr. l’identificazione alternativa proposta da Thoenes 1992b: U 101 A, che qui e nei processi successivi è stato in grado di rivedere la cronologia dei disegni (1992b, pp.174 sg. e passim).
[20] Hibbard 1971, p. 168; cfr. i nomi degli altri componenti: Wazbinski 1992, p. 148.
[21] Orbaan 1919, p.33; Id. 1920, p.45; Hibbard 1971, p. 168.
[22] Corbo e Pomponi 1995, p. 230.
[23] Orbaan 1919, p. 35; Hibbard 1971, p. 168.
[24]«Baronius acriter et religiose repugnavit [...] , in miserationem, tristitiam ac gemitum animos converterant: et ea tunc bacilica manibus nostris excindebatur» (citazione tratta da Pastor 1927, vol. XII, p. 587, nota 2).
[25] Orbaan 1919, p. 35; Hibbard 1971, p. 168
[26] Orbaan 1920, pp. 63 sg.; Miarelli Mariani 1997, p.242, nota 75. <corbo e Pomponi (1995, p.238) citano il 30 settembre come data di inizio dei lavori di demolizione, Pastor (1927, vol. XII, p. 588) il 28 settembre.
[27] Niggl 1971, p. 34.
[28] Ibid., pp. 34-36.
[29] Orbaan 1919, p.8; Corbo e Pomponi 1995, p. 238.
[30] Corbo e Pomponi 1995, p. 239. Nel 1777 venne demolita completamente sotto Pio VI per edificare la nuova sacrestia (Krautheimer 1977, p. 181).
[31] Orbaan 1919, pp. 15 e 82 (20 febbraio 1610).
[32] Orbaan 1919, p. 95; Corbo e Pomponi 1995, p. 241.
[33] Citazione tratta da Orbaan 1919, p. 46.
[34] Ibid., p. 136.
[35] Ibid., p. 138.
[36] «Quo visum est primum totum ipsum longissimum et amplissimum templum omnium admiratione absolutum et expeditum» (Grimaldi 1972, fol. 1171; Orbaan 1919, p. 139.
[37] «Murus dividens veteram a nova basilica dejicitur et ruinae veteris templi deficiunt» (Orbaan 1919, p. 136, nota 2).