L'eredità del teologo gesuita. Scola: De Lubac, erede e padre del Vaticano II. Il cardinale e arcivescovo emerito di Milano ripercorre, a trent’anni dalla scomparsa l’eredità del teologo. Un’intervista di Filippo Rizzi
Riprendiamo da Avvenire del 4/9/2021 un’intervista di Filippo Rizzi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (12/9/2021)
Da sinistra l’allora don Angelo Scola
con il padre Henri de Lubac - Siciliani
Ricorrono proprio oggi i 30 anni dalla morte del cardinale gesuita Henri de Lubac (1896-1991), perito al Concilio Vaticano II e considerato una delle punte di diamante per la sua conoscenza della patristica e non solo della teologia contemporanea. Il cardinale e arcivescovo emerito di Milano Angelo Scola ha voluto per l’occasione ripercorrere la grandezza intellettuale e spirituale del religioso ignaziano. E di come il suo pensiero sia stato un riferimento costante, quasi un punto di incontro, per il magistero degli ultimi tre Pontefici: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco.
Eminenza era il 4 settembre del 1991 quando si spegneva a Parigi a 95 anni padre Henri de Lubac. Quale a suo giudizio è l’attualità di questo pensatore?
È considerevole per tre fattori che, intrecciandosi, determinano la profondità e l’originalità del lavoro scientifico del cardinal De Lubac, e soprattutto del suo esplicito amore alla Chiesa, persino quando dovette subire qualche ingiusta prova. Di quali fattori si tratta? Il primo, legato alla sua competenza di storico e allo stesso tempo di teologo, è l’aver elaborato una messa a punto dell’autentico concetto di soprannaturale; il secondo, aver recuperato una meditazione sulla Chiesa e sull’esegesi medioevale del tutto originale e feconda per gli studi successivi; il terzo - per me decisivo - praticare una teologia aperta alla storia e alla cultura. Penso agli studi importanti sulla “posterità spirituale” di Gioacchino da Fiore, su Pico della Mirandola così come il suo interesse per gli studi sul buddismo e l’aver approfondito il pensiero di Theilard de Chardin. Se è vero che De Lubac fu un teologo, uno studioso, non si può dimenticare il suo impegno - soprattutto all’inizio della II Guerra Mondiale - nel collegio gesuitico di Lyon-Fourvière con i padri Chaillet e Fessard per sostenere i cattolici francesi nel difficilissimo frangente che dovettero attraversare. Aveva una sensibilità pastorale molto acuta.
Forse oggi pochi ricordano che nel lontano 1985 lei, allora giovane sacerdote, fu l’autore del libro-intervista (un unicum editoriale) al padre De Lubac dal titolo “Viaggio nel Concilio”. Che cosa le è rimasto di quel lungo colloquio parigino, pensato per celebrare con il teologo francese i vent’anni del Vaticano II (1965-1985)?
Anzitutto è bene fare riferimento all’edizione finale di quel libro-intervista curato meticolosamente, come era nel suo stile, dall’allora padre De Lubac e pubblicato dall’editore francese Cerf con il titolo: Entretien autour du Vatican II. Egli vi aggiunse non pochi passaggi così come eliminò molte imprecisioni dovute al fatto che la mia prima redazione poteva basarsi solo sui miei appunti perché non aveva voluto dare risposte scritte né aveva permesso l’uso di un registratore. Quello che trovo singolare, ancora oggi, è il realismo con cui De Lubac a partire da quella che lui chiama la “sorpresa” per il suo invito a prendere parte attivamente al Concilio, è colpito ed indaga le radici di quello che sarà il disagio postconciliare. Non è possibile qui riprendere questi temi, ma riterrei molto utile non perderli di vista.
Da quel colloquio del 1985 avvenuto a Parigi e durato ben quattro ore e senza l’uso del registratore, per espressa volontà di de Lubac, lei rimase colpito dal «giudizio lucidissimo» con cui l’allora cardinale, quasi 90enne, era in grado di leggere e di tracciare un bilancio sulla situazione della Chiesa del dopo Concilio. Quali sono i suoi ricordi a tale riguardo?
Incomincio da un particolare. All’inizio dell’intervista che, come da accordi, doveva durare un’ora, De Lubac sembrava molto stanco. Ed io, accompagnato dal giornalista Alver Metalli di 30Giorni, ero in difficoltà perché, volendo trattenere tutto quel che diceva, potevo servirmi solo del quaderno e della penna. Ma un banale intervento naturale ci venne in aiuto. Scoppiò su Parigi un fortissimo temporale che galvanizzò De Lubac. Il risultato fu che l’intervista durò quattro ore perché ritrovò l’energia che non sembrava avere all’inizio.
Per quanto riguarda l’analisi sulle speranze, l’ottimismo e le paure mi impressionò il suo grande realismo e, lo ripeto ancora una volta, la sua alta considerazione della Chiesa certamente dovuta a tutti i suoi studi ma soprattutto alla sua fede profonda. Per lui la Chiesa è amabile sempre, al di là dei limiti e degli errori degli uomini di Chiesa. Dopo l’emarginazione subita a causa dei suoi primi scritti sul soprannaturale, all’inizio dei lavori conciliari dovette toccare con mano che il sospetto era ancora vivo. L’Entretien mostra lo sforzo di abbandonare ogni reattività per cercare una valutazione oggettiva della situazione. In una parola il suo giudizio sui fermenti dialettici conciliari e su certe posizioni postconciliari lo impegnò, con grande umiltà, anche a distaccarsi del tutto dalla sua vicenda personale. Ciò a cui teneva sempre era il bene della Chiesa.
Ma il grande gesuita di Cambrai, e tra gli ultimi testimoni e padri nobili della scuola teologica di Lyon-Fourvière, da cui uscì anche il suo amico e maestro Hans Urs von Balthasar, è stato un faro e un punto di riferimento per il magistero di Giovanni Paolo II che lo volle cardinale nel 1983 e di cui riconobbe tra i suoi meriti di aver «raccolto il meglio della Tradizione cattolica nella sua meditazione sulla Scrittura, la Chiesa e il mondo moderno». Perché De Lubac fu, a suo giudizio, un teologo così in sintonia con papa Wojtyla?
I due si conobbero al Concilio e nacque subito un rapporto intensissimo. Le citazioni di Wojtyla contenute nei due volumi di “Quaderni del Concilio” sono numerosissime. La grande sintonia fra queste due forti personalità, ne sono convinto, si radica proprio nella fede in Cristo e nel comune amore per la Chiesa come condizione per amare l’uomo. Giovanni Paolo II parlò dell’uomo come “via alla Chiesa” e De Lubac, su questo stesso terreno, cercò e ricercò di situare l’uomo nella storia contemporanea a partire dalla Chiesa, come si può vedere nel volume Memoria intorno alle mie opere. Per quanto il mondo oggi sia assai cambiato, il magistero di Giovanni Paolo II e la lettura degli scritti, soprattutto di carattere culturale, di De Lubac offrono criteri di lettura decisivi per capire la travagliata transizione in atto. Per questo mi dispiace che queste personalità non vengano oggi adeguatamente valorizzate.
Un altro pontefice, Benedetto XVI, ha sempre nutrito una grande stima per il teologo francese, conosciuto come perito tra i banchi del Concilio Vaticano II e con cui fondò nel 1972 la rivista Communio. Ci può spiegare la radice di questa sintonia teologica tra Ratzinger e il religioso francese?
Fu anzitutto una sintonia di carattere teologico nel senso profondo del termine, un appassionato approfondimento dei misteri costitutivi della Chiesa, soprattutto di quelli piuttosto emarginati, se non apertamente messi in discussione. E, come De Lubac stesso ha scritto parlando della soprannatura, una cosa che viene lentamente emarginata alla fine viene dimenticata. Inoltre un altro punto in comune tra De Lubac e Ratzinger è certamente l’affronto analitico della storia e della cultura. La ricerca di entrambi infatti non si limita ai contenuti teologici in senso stretto ma è tesa sempre a trovare le implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche dei misteri cristiani.
Infine papa Francesco, gesuita come il padre De Lubac già da arcivescovo di Buenos Aires ha fatto spesso riferimento agli scritti del teologo francese. Penso in particolare a un testo di importanza capitale come Meditazioni sulla Chiesa dove riprende e fa suo un tema chiave del suo attuale magistero petrino «la mondanità spirituale». Papa Bergoglio come i suoi diretti predecessori sulla Cattedra di Pietro sembra prediligere questo grande suo confratello francese (assieme a Michel de Certeau). Ci può spiegare, eminenza, perché Henri de Lubac è ancora così rilevante per la Chiesa di oggi e per la società post-cristiana alla luce anche del magistero dell’attuale Pontefice?
Penso possa bastare il riferimento alla «mondanità spirituale» già da lei introdotto. Il Papa ne ha più volte parlato in esplicito riferimento a De Lubac. Francesco, che nella sua formazione ha senza dubbio studiato accuratamente i teologi gesuiti, non poteva riprendere questa categoria delubachiana senza penetrare nello spirito del grande autore. La tentazione della mondanità spirituale è in fondo un mal interpretato adattamento della verità, della bontà e della bellezza dell’avvenimento di Gesù Cristo alla cultura dominante. Inadeguate riflessioni di stampo intellettualistico e moralistico rappresentano, tanto più in quest’epoca dolorosa del coronavirus, l’ostacolo maggiore alla possibilità che l’uomo di oggi, assetato di felicità, veda trasparire sul volto della Chiesa la bellezza del volto di Cristo.
Il pensatore riabilitato da Giovanni XXIII: chi era
Henri de Lubac nasce a Cambrai il 20 febbraio del 1896. Nel 1913 entra nella Compagnia di Gesù. Viene ordinato sacerdote nel 1927. Professore di teologia (tra i suoi discepoli ci sono stati Hans Urs von Balthasar e Michel de Certeau) e storia delle religioni fino al 1961 all’università dei gesuiti di Lyon-Fourvière, uno dei centri della cosiddetta “Nouvelle théologie”. Padre De Lubac è stato un intellettuale di prima grandezza per aver fondato, con il suo confratello e futuro cardinale Jean Daniélou, la collana “Sources Chretiennes” (1942), ma noto ancora oggi per aver ridato nuova linfa allo studio sui Padri della Chiesa. A lui si devono capolavori come «Catholicisme», «Surnaturel», «Meditazioni sulla Chiesa» (spesso citata da papa Francesco), «Il dramma dell’umanesimo ateo» o «Esegesi medievale». È stato un intellettuale talmente aperto ai saperi che spaziavano da Gioacchino da Fiore a Pico della Mirandola fino a Pierre Teilhard de Chardin. Prima del Vaticano II sono soprattutto i suoi saggi «Surnaturel» e «Le mystère du Surnaturel» del 1946 a porre in risalto la sua finezza di pensatore ma anche per questi scritti diventerà oggetto di critiche severe da parte di teologi del rango del domenicano Réginald Garrigou Lagrange e di monsignor Pietro Parente. La pubblicazione nel 1950 dell’enciclica da parte di Pio XII «Humani Generis» sarà letta come una condanna indiretta alla ricerca innovativa di De Lubac. Per questo sarà costretto a lasciare la cattedra universitaria. A riabilitare il teologo di Lione sarà Giovanni XXIII restituendogli la docenza universitaria e nominandolo – assieme a un altro religioso visto con “sospetto”, il domenicano Yves Marie Congar – perito al Concilio Vaticano II (1962-1965). Il 2 febbraio 1983 viene creato cardinale da Giovanni Paolo II. Muore a 95 anni il 4 settembre 1991 a Parigi. (F.Riz.)