Afghanistan. La piccola comunità cattolica nell'occhio del ciclone: «Pregate per noi», di Giorgio Bernardelli

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /08 /2021 - 22:38 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire un articolo di Giorgio Bernardelli pubblicato il 20/8/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Medio Oriente e paesi a maggioranza islamica.

Il Centro culturale Gli scritti (22/8/2021)

Due taleban presidiano un check point a Kabul - Reuters

«Stiamo vivendo giorni di grande apprensione. Pregate, pregate, pregate per l’Afghanistan». L’unica dichiarazione da Kabul, dove tuttora si trova, il barnabita Giovanni Scalese, responsabile della piccolissima comunità cattolica dell’Afghanistan, l’ha affidata ai microfoni di VaticanNews. Poche parole in una situazione delicatissima per una presenza che aveva il suo cuore nell’ambasciata italiana a Kabul oggi evacuata.

Comunità dalla lunga storia: nel 1919 l’Italia fu la prima nazione occidentale a riconoscere l’indipendenza dell’Afghanistan e come segno di gratitudine ottenne di poter ospitare nella propria rappresentanza diplomatica una cappella per i fedeli cattolici stranieri, l’unica chiesa di Kabul. Ci vollero anni, però, prima che potesse arrivare anche un prete: accadde solo nel 1931, quando Pio XI l’affidò ai barnabiti che da allora si sono alternati a Kabul.

Nel 2002 – nel clima di speranza di quella stagione – Giovanni Paolo II aveva anche elevato questa presenza al rango di “missio sui iuris”, il primo passo canonico per la costituzione di una Chiesa locale. Ma le difficoltà erano rimaste grandi: i governi afghani hanno sempre tollerato solo un punto di riferimento per stranieri, funzionari e militari cattolici, vietando ogni attività di evangelizzazione tra gli afghani.

Un piccolissimo gruppo di sacerdoti e religiose, però, sono potuti entrare come operatori umanitari. Kabul, per esempio, è una delle frontiere impossibili varcate dalle Missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa: quattro di loro si trovano tuttora nel Paese. Bloccati in Afghanistan ci sono anche due gesuiti indiani, responsabili delle attività del Jesuit Refugee Service, attivo nel Paese in ambito educativo con scuole in ben quattro diverse province.

La catastrofe di questi giorni ha costretto bruscamente a sospendere questo impegno. «Tutti sono rintanati nelle case e nelle comunità – ha scritto uno dei due gesuiti –. I voli sono cancellati e dipendiamo dagli accordi tra gli organismi dell’Onu e i taleban».

Situazione simile è quella di “Pbk – Pro bambini di Kabul”, associazione fondata dal guanelliano don Giancarlo Pravettoni raccogliendo un appello lanciato da Giovanni Paolo II. Grazie a una rete di congregazioni religiose maschili e femminili, a Kabul, 15 anni fa, è nata una scuola per bambini con disabilità psichica: anche il destino di quest’opera ora è sospeso.

E se i canali diplomatici stanno lavorando per il rimpatrio in sicurezza dei religiosi, la domanda che suscita più angoscia è quella sulla sorte delle persone di cui si sono presi cura: giovani, ragazze, disabili, sfollati interni.

C’è poi un ultimo volto da non dimenticare, probabilmente il più indifeso: quello dei cristiani nascosti. Famiglie afghane che per lunga tradizione o per esperienze particolari hanno incontrato Gesù, ma vivono la propria fede nel segreto perché il pericolo è troppo grande. Su AsiaNews qualche giorno fa raccontava la loro storia Ali Ehsani, esule afghano in Italia, anche lui cristiano, autore del libro “Stanotte guardiamo le stelle”. Ehsani ha denunciato: «Le violenze contro di loro sono già iniziate. Il padre di una famiglia con cui sono in contatto è scomparso». Si sta lavorando per farli entrare tra le persone da accogliere in Italia con i corridoi umanitari. Per non lasciarli soli.