1/ Cosa si intende quando si ammette che è fallita l’“esportazione della democrazia” in Afghanistan? Primi appunti di getto, di Giovanni Amico 2/ Afghanistan: l’inevitabile fallimento dell’impero USA, di Sebastiano Caputo 3/ KABUL DOCET, di Martino Ghielmi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 17 /08 /2021 - 00:52 am | Permalink | Homepage
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1/ Cosa si intende quando si ammette che è fallita l’“esportazione della democrazia” in Afghanistan? Primi appunti di getto, di Giovanni Amico

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Islam contemporaneo.

Il Centro culturale Gli scritti (16/8/2021)

Quando si afferma che è fallita da parte americana l’“esportazione della democrazia” nel mondo islamico, di solito si hanno in mente questioni politiche e istituzionali: la democrazia come sistema delle regole non funzionerebbe in quei paesi.

Ma non è la “democrazia” come sistema elettorale ad essere la vera questione! Ben diverso e più profondo è il problema. In Afghanistan è la maggioranza “democratica” dei talebani a non avere alcuna intenzione di aprire le porte a due degli assiomi fondamentali del pensiero moderno e occidentale: la critica alla religione e la libertà sessuale. La decisione di toccare subito la condizione femminile ne è la cartina al tornasole più evidente e il timore delle donne afghane che stanno facendo pubbliche dichiarazioni in merito ne è la manifestazione chiarissima. 

Eventuali pubbliche elezioni non farebbero che confermare che la legge statale deve vietare qualsiasi forma di ateismo, addirittura privato, e che il medesimo sistema legislativo deve imporre la visione tradizionale della sharia sulla sessualità alla donna e ancor più agli omosessuali.

Certo, alcune donne sono contrarie a tale prospettiva, ma probabilmente la maggioranza la appoggerebbe. Tutto il mondo femminile, se anche nel proprio cuore non fosse d’accordo, non avrebbe spazio alcuno per attestarlo, di modo che sarebbe sempre e solo la “maggioranza” a dettare legge sulla critica religiosa e sulla libertà sessuale.

L’intellighenzia laicista non ha la minima idea di cosa sia un pensiero “duro”, quando afferma che tutte le religioni sono uguali: lo strabismo della cultura occidentale porta gli intellettuali a pensare che ogni religione abbia la stessa capacità del cristianesimo di mettersi in discussione, di dialogare, di elaborare nuovi punti di vista.

L’intellighenzia non ha la minima percezione che l’islam sia radicalmente diverso dal cristianesimo. Ha persino dimenticato che è solo in ambienti radicati nel cristianesimo che si sono diffusi l’ateismo e il comunismo.

In questi appunti scritti di getto non intendiamo proporre soluzioni, ma solo contestare l’approccio semplicistico occidentale quando non si rende conto che il problema non è semplicemente politico, non dipende solo da un determinato passato colonialista, da ingiustizie perpetrate, da azioni militare inopportune - tutte cose vere, ma alla resa dei conti non dirimenti.

La questione è ben più radicale: l’Afghanistan – e non solo l’Afghanistan – non ha alcuna intenzione di dichiarare possibile una qualsivoglia forma di critica alla religione e nemmeno una qualsivoglia forma di libertà sessuale.

La storia dell'Afghanistan, dai tentativi di "laicizzazione" nati sul modello turco, ai diversi tentativi liberali, al controllo della religione islamica voluto dal paese quando l'Unione Sovietica impose dall'esterno la via "comunista", fino alle odierne resistenze al tentativo di importare una via più "occidentale", mostrano quanto sia radicata nel paese una determinata visione dell'Islam, fino ad oggi resistente a qualsiasi tentativo interno od esterno di modificarla. Chiunque voglia attribuire solo a responsabilità americane tale visione della società, della donna e del ruolo della religione, è assolutamente incapace di comprendere l'Afghanistan, esattamente come lo sono stati gli americani stessi che hanno creduto di poter "cavalcare" la strutturazione culturale del popolo afghano: l'intellighenzia anti-americana e gli americani condividono la stessa visione del mondo e sono inadeguati a leggere la storia afghana.

Parimenti inadeguato è chi, sempre a partire da modelli materialisti di lettura che non contemplano l'importanza e anzi la decisività della questione culturale e religiosa, riduce il problema alla disputa sul controllo della droga, quasi che maggioranze religiose e sociali non possano agire senza scrupoli morali in talune questioni, pur avendo una determinata visione religiosa fortemente radicata in loro.

Il grave errore americano di invadere l'Afghanistan, pensando di "esportare la democrazia" - che resta un errore politico gravissimo - viene ora fatto proprio dai media che proseguono la stessa linea erronea di lettura dei fatti, attribuendo tutte le colpe alle scelte politiche ed astraendo dalle radici culturali di quel popolo e di quelle tribù, quasi che fosse esistito in passato un periodo di libertà per le donne afghane! 

Ovviamente l’Afghanistan non è l’Islam: i musulmani conoscono ben altre aperture in numerosi paesi del mondo. Ma non si deve dimenticare che tali paesi sono tutti governati in maniera non democratica e solo il pugno di ferro dei governanti impedisce ai più integralisti di salire al governo, poiché in diversi paesi a maggioranza islamica con eventuali elezioni libere sarebbero i più duri a dettare legge.

Ma, al di là della questione politica, non si deve dimenticare che se esistono in diversi paesi a maggioranza islamica sviluppo economico – talvolta più che in occidente -, tecnologia, possibilità per la donna di studiare e di lavorare, sulle due questioni della critica alla religione e della libertà sessuale e omosessuale le posizioni non sono diverse da quelle dei “duri”.

Estremamente significativo è, soprattutto, che ancora sia totalmente assente quell’analisi del passato che diviene esplicita autocritica delle violenze commesse e della libertà negata nei secoli.

Anche oggi ci si aspetterebbe una forte sollevazione dell’opinione pubblica dei grandi stati musulmani contro la situazione dell’Afghanistan, mentre solo taluni articolisti ne dibattono: le popolazioni musulmane non si muovono in manifestazioni di protesta contro ciò che sta accadendo.

Ed è estremamente miope l’affermazione che si sente spesso ripetere che l’Islam sarebbe in ritardo di 622 anni rispetto alle civiltà fondate sulla cultura classica fusasi con quella cristiana.

A parte che, semmai, l’Islam dovrebbe essere 622 anni avanti e non indietro – che assurdità sarebbe dire che il cristianesimo è indietro di circa 1200 anni rispetto all’ebraismo!

Ma, se anche si volesse rovesciare in maniera erronea il fatto che l’Islam è nato ben 622 anni dopo il cristianesimo ed è, quindi più moderno, non si deve dimenticare che fare riferimento a 622 anni fa vorrebbe dire, quanto alla libertà di criticare la religione e quanto alla libertà sessuale, tornare all’anno 1399, cioè avere già Dante, Boccaccio e Petrarca alle spalle, l’umanesimo in piena fioritura e altro ancora.

Il mondo culturale islamico non analizza perché una lettura fondamentalista dell'Islam sia così facile e non riflette sulle proprie colpe nel passato, su come nei secoli la libertà di critica alla religione e la libertà sessuale siano state costrette, non fa autocritica, bensì inventa sempre nuovi capri espiatori esterni a sé. Allo stesso modo, tace anche il mondo laico e laicista e, ponendo in evidernza solo le cause politiche internazionali, manifesta la propria incapacità di capire il presente, rifugiandosi in vecchi schemi legati esclusivamente al ricordo delle colpe coloniali e neo-coloniali.

Con tutto questo non si intende assolutamente dire che la versione afghana – e anche pakistana – dell’Islam, rappresenterebbero l’islam del passato o del presente (anche se non si deve dimenticare che l’Arabia Saudita e l’Iran, i due paesi leader religiosi del mondo sunnita e sciita, hanno una visione religiosa estremamente dura).

Quello che si intende, invece, porre in evidenza sono tre questioni che così sintetizziamo:

A/ Se venissero a cadere i diversi monarchi, presidenti, principi e sceicchi che governano le diverse nazioni musulmane, si può essere certi che le visioni violente non possano emergere in via “democratica”? Si può dare per assodato un superamento della violenza vissuta nel passato dai paesi islamici, quanto alla libertà di criticare la religione e quanto alla libertà sessuale, perché è stata fatta una vera autocritica? 

B/ Se anche, cadendo gli attuali monarchi, si giungesse ad elezioni democratiche veramente libere, a che punto si sarebbe con la libertà di criticare la religione e cosa si potrebbe dire della libertà sessuale, cioè dei due caposaldi dell’occidente?

C/ Tali questioni pongono una terza problematica speculare: per l’occidente rinunziare ad “esportare la democrazia” significa  accettare come un dato di fatto che non si possa criticare la religione e che sia possibile rinunciare alla libertà sessuale?

P.S. Non intendiamo uniformare a quanto esposto i due articoli che seguono. Li abbiamo ripresi, invece, perché pongono ulteriori domande, diverse rispetto al mainstream. Insistiamo sul fatto che proprio chi parla sempre di inter-cultura e di necessità di comprendere le culture altre e poi utilizza banali criteri di lettura storica che attribuiscono responsabilità unicamente ai fattori economici e bellici nega i suoi stessi principi e mostra di non essere minimamente interessato alle questioni delle culture proprie dei popoli e delle religioni, con i loro peculiari punti di vista, e pertanto non capisce il mondo e non lo ascolta.

2/ Afghanistan: l’inevitabile fallimento dell’impero USA, di Sebastiano Caputo

Riprendiamo dal profilo FB di Sebastiano Caputo un suo post pubblicato il 16/8/2021 in cui metteva a disposizione un suo articolo pubblicato lo stesso giorno su L’Indipendente. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Islam contemporaneo.

Il Centro culturale Gli scritti (16/8/2021)

In molti lo avevano previsto, alcuni auspicato, ma nessuno credeva che la presa di Kabul da parte dei talebani sarebbe stata così veloce. Gli ultimi report delle intelligence occidentali avevano ipotizzato sei mesi e invece dal ritiro dei militari in missione per conto della Nato ne sono trascorsi soltanto tre.

L’avanzata “degli studenti”, dalle province alla capitale, è stata fulminea. Eppure quei report, agli occhi di Joe Biden sono passati inosservati. In una discussione question time dell’8 luglio riportata dal sito della Casa Bianca, parlando del piano di “exit strategy” dei soldati statunitensi, il presidente democratico spiegava che il ritorno dei talebani non era un processo ineluttabile: “i 300mila soldati afghani sono addestrati – ben addestrati come qualsiasi esercito al mondo - e posseggono una forza aerea contro qualcosa come 75mila talebani”.

E alla domanda in cui si tracciava un parallelismo col Vietnam replicava così: “non vedremo in nessun modo il personale diplomatico sollevato dal tetto della nostra ambasciata”. Un mese dopo queste dichiarazioni, la storia è un’altra.

Vent’anni dopo l’invasione statunitense, Kabul è tornata nelle mani dei talebani, sul palazzo presidenziale sventola, la bandiera bianca con la shahada in nero, simbolo dell’Emirato, e in rete già circolano le fotografie che ci riportano a Saigon nel 1975 al momento dell’evacuazione del corpo diplomatico statunitense, dal tetto dell’ambasciata appunto.

In realtà quelle di Joe Biden erano frasi di circostanza, perché il destino dell’Afghanistan era stato già scritto a Doha negli accordi di pace firmati il 29 febbraio del 2020 tra gli Stati Uniti e la delegazione dei talebani. In cambio del ritiro delle truppe straniere, Zalmay Khalilzad, delegato dell’amministrazione Trump chiedeva al Mullah Baradar l’impegno di questi ultimi a rinunciare a ogni legame con il jihadismo transnazionale.

In sintesi, già un anno e mezzo fa, la Casa Bianca voltava le spalle al governo di Kabul – che ha sempre chiesto di sedersi al tavolo delle trattative -, legittimava politicamente Muhammad Yaqoob, figlio del Mullah Omar, l’Emiro che governò il Paese dal 1996 al 2001, e apriva il terreno al loro riconoscimento internazionale.

Quella è la causa profonda che racconta le immagini, alcune strazianti, che stiamo vedendo in mondovisione. Altrimenti non si spiegherebbe come i talebani siano riusciti in cosi poco tempo a conquistare provincia dopo provincia, città dopo città, senza quasi sparare un colpo. I famosi 300mila soldati afghani addestrati in questi vent’anni si sono sentiti abbandonati, e di fronte all’avanzata dei talebani, hanno preferito disertare, così come il governo di Kabul non appena questi hanno accerchiato la capitale.

Per vent’anni i seguaci del Mullah Omar, si sono nascosti nelle montagne, rifugiati nel Pashtunistan, dispersi tra i civili, e oggi tornano al potere con un consenso reale che proviene essenzialmente dall’Afghanistan profondo. E rispetto ai loro padri, i talebani di oggi hanno imparato l’arte della diplomazia. Esistono delle congiunture internazionali, degli attimi decisivi, che improvvisamente ti riportano dai margini della società al potere politico.

Fu proprio il Mullah Omar che disse agli occidentali (e indirettamente ai suoi eredi): “voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”, e il Tempo, nella storia dell’Uomo, custodisce lo Spirito che solo chi conosce il territorio può comprendere.

E questa concezione quasi metafisica vale ancora di più in un Paese che possiede una struttura tribale, etnica e religiosa, e percepisce la nazione come un concetto astratto, lontano, sradicato dagli usi istituzionali e i costumi sociali.

Del resto Ashraf Ghani, ormai fuggito all’estero, veniva considerato uno straniero dai suoi nemici, un tecnocrate dai suoi avversari, un corrotto dai suoi alleati. Prima di diventare il presidente dell’Afghanistan, aveva studiato e insegnato negli Stati Uniti, per diventare poi un funzionario della Banca mondiale, infine un consulente per le Nazioni Unite. Ashraf Ghani è anche noto negli ambienti accademici per le sue pubblicazioni sul tema degli “Stati falliti” in cui tracciava la via della transizione politica collegata alla stabilità economica. Tra queste, le più celebri sono il libro Fixing Failed States: A Framework for Rebuilding a Fractured World e il paper Preparing for a syrian transition. Lesson from the past, thinking for the future.

Pubblicazioni teoriche, speculazioni intellettuali, che lette in queste ore, svelano l’ennesimo fallimento di un modello: quello dell’esportazione della democrazia. Se dunque la storia è un cimitero di aristocrazie, l’Afghanistan torna a essere la tomba degli Imperi. Vent’anni dopo, gli Stati Uniti lo hanno dovuto accettare, insieme alle conseguenze devastanti in termini di credibilità internazionale. Per i governi alleati, per gli Stati membri della Nato.

Ma il rischio è anche calcolato, perché il ritiro voluto da Donald Trump, approvato da Joe Biden può essere perfettamente funzionale a un’altra strategia. Il ritorno all’ «ordine talebano» può diventare una pistola puntata contro la Cina (confini dello Xinjiang musulmano), l’Iran (rivalità ideologica e religiosa) e la Russia (retaggio storico), dunque un fattore di instabilità nell’hearthland. Al momento tutti sono seduti al tavolo, il domani è quanto mai incerto. Questa è la scommessa della Casa Bianca.

3/ KABUL DOCET, di Martino Ghielmi

Riprendiamo dalla pagina FB VADOINAFRICA NETWORK | con Martino Ghielmi un post di Martino Ghielmi pubblicato il 16/8/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Islam contemporaneo.

Il Centro culturale Gli scritti (16/8/2021)

Ore concitate nella capitale dell’Afghanistan che torna in mano ai Talebani.

NB. Questo post non tratta di geopolitica o attualità (anche se tanti equivocheranno).

Parla invece della lezione che penso sia possibile trarre da questa vicenda.

A cosa mi riferisco?

All’importanza di prestare massima attenzione al #FattoreC, la CULTURA di chi avete di fronte: clienti, collaboratori, partner.

Senza questo, fuori dal vostro Paese di origine, non combinerete assolutamente nulla.

Anche con 1 trilione di dollari da buttare via (1.000 miliardi - all’incirca quanto hanno speso gli USA per “esportare la democrazia” in Afghanistan) non andrete lontani.

Non è questione di soldi o di mezzi.

Figuriamoci se poi, oltre all’arroganza, avete pure risorse ben più limitate.

Come succede spesso a imprenditori, aziende, ONG e ambasciate occidentali in tanti contesti africani.

Senza conoscere con precisione un contesto non “connetti” nè, tantomeno, crei nulla.

Se vi piace sognare il contrario, auguri.