Pietro Pantoni, il carnefice del Regno di Sardegna, di Assunta Borzacchiello, con una nota di Andrea Lonardo su Mastro Titta e il contesto delle esecuzioni capitali dell’epoca

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 17 /08 /2021 - 00:55 am | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

1/ Nota di Andrea Lonardo su Mastro Titta e il contesto delle esecuzioni capitali dell’epoca

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sezioni L’Ottocento e il Risorgimento e Giustizia e malavita. Cfr. anche 1/ Le ultime esecuzioni capitali in Europa negli anni settanta, in Spagna nel 1974, in Francia nel 1977, nei paesi comunisti solo dopo il 1989. Le date sulla cessazione delle esecuzioni capitali nel mondo, di Andrea Lonardo 2/ La pena di morte in Europa e nel mondo: i fatti chiave. Il Parlamento si oppone duramente alla pena capitale e si batte per la sua abolizione a livello globale, dal sito del Parlamento Europeo 3/ L’ultima ghigliottina dello Stato Pontificio, di Antonio Dall'Osto (a cura di).

Il Centro culturale Gli scritti (15/8/2021)

Che la pena capitale fosse, tragicamente, condivisa da tutti i governi del tempo lo dimostra il fatto che 56 delle esecuzioni compiute dal famoso Mastro Titta, avvennero quando a guidare Roma erano i francesi rivoluzionari e non il papa, e fu proprio con essi che Mastro Titta si trovò ad utilizzare la ghigliottina appena giunta dalla Francia rivoluzionaria. Così scrive nel Dizionario Biografico degli italiani della Treccani Livio Jannattoni, alla voce “BUGATTI, Giovanni Battista” (vol 15 (1972) disponibile on-line): «La ghigliottina venne introdotta a Roma durante la dominazione napoleonica. "Nuovo edifizio per il taglio della testa", come la definì lo stesso Bugatti, che si dimostrò altrettanto esperto nel maneggio del nuovo strumento, spacciando cinquantasei teste in soli quattro anni, dal 1810 al 1813. Con la Restaurazione ritornò per breve tempo la forca, fino a che, a partire dal 1816, e salvo rare eccezioni, la ghigliottina non abbandonò più il palco delle esecuzioni romane».

Mastro Titta servì così il papa e gli anticlericali, tagliando teste a richiesta dei suoi diversi padroni.

Proprio nel periodo francese il numero delle esecuzioni divenne massimo in Piemonte, come scrive Milo Julini in La pena di morte nel Regno di Sardegna e nel Regno d’Italia Appunti (https://www.criminiemisfatti.it/fd.php?path=Julini-Pena-Morte.pdf):

«Secondo Viriglio, nel periodo francese, con Decreto del 1800, si proscrive la corda e il piombo, concedendo l’esclusività alla ghigliottina, ironicamente descritta come “macchina umanitaria”, posta in piazza Carlina, ribattezzata Place de la Liberté. Dal 1800 al 1814 sono ghigliottinati 423 persone, di cui 111 nel solo anno 1803. Il primo governo provvisorio repubblicano ha stabilito la pena di morte per chi critica il nuovo Governo, loda quello antico o atterra un albero della libertà».

Julini annota, quanto al numero delle esecuzioni capitali una volta che fu restaurata la monarchia nel Regno di Sardegna e d’Italia:

«Fra il 1815 e il 1855 nei vari stati preunitari le condanne furono 655 e le esecuzioni 469 (poco più di 10 all’anno). Nel periodo fra il 1867 e il 1876 - il primo per cui si hanno fonti affidabili (Studio statistico del Ministero di grazia e Giustizia fatto pubblicare dall’on. Mancini) - le esecuzioni portate a termine furono 27 (circa 3 all’anno). Questa riduzione è dovuta da un lato al nuovo Codice sardo, che aveva diminuito il raggio d’applicazione della pena di morte, dall’altro dall’entrata in vigore delle giurie popolari. È invalso l’uso che il Re conceda la grazia a coloro che la magistratura condanna a morte, come previsto dal Codice, commutando la pena capitale nei lavori forzati a vita. Varie sentenze del genere a Torino tra il 1869 e il 1870. Per i militari, la pena di morte continua ad essere applicata anche dopo il 1864, talvolta con qualche stridente contrasto: la fucilazione a Milano del caporale Pietro Barsanti (27 agosto 1870), coinvolto in un tentativo di insurrezione mazziniana, è criticata perché nello stesso tempo viene graziato uno spietato assassino (Dominique Rossignol)».

Infatti, il nuovo Codice Penale del 1859 – che rappresenta il secondo Codice Penale del Regno di Sardegna ma che diviene il primo Codice Penale italiano – mantiene la pena di morte in tredici casi (fonte Julini):

- attentato alla sacra persona del Re (art. 153);

- attentato contro persone Reali (art. 154);

- corruzione del giudice onde derivi una condanna capitale che sia eseguita (art. 222);

- falsa testimonianza che abbia per conseguenza una condanna capitale eseguita (art. 366);

- parricidio (art. 531);

- veneficio (art. 531);

- infanticidio (art. 531);

- assassinio (art. 531);

- omicidio per mandato (art. 533);

- omicidio sine causa, ovvero bestiale (art. 533);

- omicidio per cagione di altro maleficio (art. 533);

- grassazione nel caso di furto accompagnato da omicidio;

- crimen incendii, incendio o distruzione che provoca morte di qualche persona, tranne che questa conseguenza non abbia potuto essere prevista dal delinquente (art. 660).

Sono istituite, dal 1860, le Corti di Assise, dove il giudizio di colpevolezza o di innocenza è dato da dodici giurati, scelti fra gli elettori, e non più da giudici togati, come è avvenuto nelle Corti d’Appello.

Tali fatti mostrano come sia errato storiograficamente, in vista di una corretta ricostruzione scientifica dell’evoluzione storica, isolare Mastro Titta- Giovanni Battista Bugatti, facendone un caso a parte: egli è, invece, uno dei tanti testimoni delle esecuzioni capitali dell’epoca.

La storia di Pietro Pantoni, il boia del Regno di Sardegna, contemporaneo di Mastro Titta, è pertanto particolarmente illuminante.

2/ Pietro Pantoni, il carnefice del Regno di Sardegna, di Assunta Borzacchiello

Riprendiamo sul nostro sito dal sito della Polizia Penitenziaria (https://www.poliziapenitenziaria.it/pietro-pantoni-il-carnefice-del-regno-di-sardegna/) un articolo di Assunta Borzacchiello. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sezioni L’Ottocento e il Risorgimento e Giustizia e malavita.

Il Centro culturale Gli scritti (15/8/2021)

Nel secolo scorso, quando era ancora in vigore la legge che, in nome della giustizia degli uomini, armava la mano del carnefice, le esecuzioni capitali avvenivano nelle piazze, alla presenza di un pubblico che accorreva rumoroso per assistere al tragico spettacolo, proprio come se partecipasse a una festa popolare.

Adulti e bambini, popolani e contadini, ladri e prostitute condividevano lo spettacolo di morte che si svolgeva nelle piazze principali di paesi e città, in tutta Europa.

Se nella seconda metà del XIX secolo si discuteva più o meno accademicamente, nelle sedi parlamentari, nei circoli culturali e sulla stampa, se abolire o no la pena di morte e gli abolizionisti erano in netta maggioranza rispetto ai sostenitori della pena capitale, il popolo chiedeva ancora a gran voce di vedere scorrere il sangue dal patibolo, temendo e rispettando nella stessa misura il carnefice che infilava la testa del condannato nel cappio di una forca o sotto la lama affilata della scure o della ghigliottina.

Tra i boia rimasti famosi per la loro lunga attività e per il notevole numero di condanne eseguite nel XIX secolo, più noti sono Pietro Pantoni, operante nell’ex Regno Sardo e Giovan Battista Bugatti, più noto come Mastro Titta, carnefice dei papi.

Pietro Pantoni era nativo di Reggio Emilia e figlio d’arte, il padre, infatti, era Antonio Pantoni, di origine ferrarese, che aveva svolto l’attività di carnefice a Modena.

Boia era pure il fratello maggiore di Pietro Pantoni, Giuseppe, attivo nella città di Parma.

La triste storia di Pietro Pantoni viene descritta da un anonimo biografo di fede carbonara, criminalista e fervente abolizionista, che definisce la pratica dell’esecuzione capitale pubblica un immondo spettacolo, inefficace per dissuadere dal commettere reati punibili con la pena di morte, ma buono per soddisfare il sadismo di chi vi assiste e di chi vi partecipa, primo fra tutti il boia.

L’anonimo autore, allo scopo di rafforzare le posizioni abolizioniste in vista della discussione parlamentare del nuovo codice penale (che sarà emanato molti anni dopo, nel 1889 e recherà la firma del Ministro Zanardelli), racconta della visita fatta a Pietro Pantoni nel 1865.

A quell’epoca Pietro Pantoni ha sessantasette anni, trentatré anni di servizio effettivo alle spalle negli Stati del vecchio Piemonte (pochi, però, rispetto alla carriera di Mastro Titta), durante i quali aveva eseguito 127 pene capitali, senza conteggiare la prima esecuzione svolta a Modena, dove, nel 1831 aveva iniziato l’attività di carnefice.

Sposato con la figlia di un popolano di Reggio Emilia, era padre di cinque figli, tre femmine e due maschi.
Il figlio maggiore, che il padre avrebbe voluto seguisse le sue orme, si era mostrato poco portato alla carriera di boia
, tant’è che, con grande contrarietà del Pantoni, studiava pittura con un sacerdote e così veniva descritto dal padre: «Due volte ho tentato di condurlo con me all’OPERA, per vedere almeno per apparare: ma non è buono, egli piange».

Il visitatore descrive il drammatico incontro con il boia Pantoni avvenuto a Torino nell’abitazione di questo, nel massiccio edificio che ospitava le Carceri Senatorie dell’ex capitale del Regno.

All’ultimo piano, sopra l’appartamento del Capo Custode, abita il boia Pantoni con la sua famiglia.
Il visitatore, accompagnato da un amico, bussa al soglio del boia, la porta si apre e i visitatori si trovano al cospetto di un uomo di mezza statura, con le spalle troppo robuste rispetto al corpo tozzo.

I primi attimi trascorrono in un silenzio imbarazzato da parte di tutti, ma è il boia a rompere il silenzio ed a mostrarsi comprensivo e quasi onorato per quella visita che gli offre l’opportunità di raccontare la propria storia e spiegare i motivi per cui ha iniziato l’ingrata attività, sforzandosi di giustificare l’utilità sociale di essa. Fatalità, così Pantoni spiega il perché é diventato esecutore di giustizia: «Io sono un disgraziato, il mio babbo che Dio l’abbia in gloria, era Esecutore di Giustizia e lo fu per fatalità. (…) Mio Padre Antonio, era un brav’uomo, abbandonato dal padre suo, nonno mio, fuggissene da Ferrara, dove abitava e andò, dove? Alla Capitale degli Stati del Papa! In cerca di fortuna. Fuori porta Pinciana, morto di fame, di sete, senza quattrini, fu ospitato da un brav’uomo, lo pareva, lo tenne con sé, gli fu secondo padre».

Il padre di Pietro si innamora della figlia del suo benefattore, e scopre che l’uomo svolgeva la professione di Giustiziere del Papa: il benefattore era il famoso Giovan Battista Bugatti, meglio noto come Mastro Titta, Fu inevitabile che il padre di Antonio Pantoni finisse col diventare aiutante del suocero e nominato anch’egli Esecutore di Giustizia.

La vita, però, per Antonio Pantoni è dura, perciò diserta dalle terre del Papa e va in cerca di un migliore destino.

Ritornato a Reggio cerca un mestiere meno ingrato, ma senza fortuna, così, spinto nuovamente dalla necessità, è costretto a riprendere l’antico mestiere di Esecutore di Giustizia, in quanto «ivi mancava il braccio dritto della Giustizia».

Pietro nacque quindi a Reggio «durante lo esercizio di mio Padre! Mi allevarono come poteasi, il figlio di un esecutore. Ebbi un fratello per nome Giuseppe, che vive, ed aiutava al Padre. Io non mi sentiva da tanto».

Pietro Pantoni cercò dunque di sfuggire all’antico mestiere del padre che il fratello aveva invece già intrapreso e per sottrarsi all’ingrato destino, racconta: «Giovanotto, senza professione, figlio di un Boia, svergognato me ne fuggii in Francia!».

La fuga sembra essere l’unica via di scampo per il giovane Pietro, ma i tempi non erano certo propizi per lui. I venti della rivoluzione agitavano l’Europa e il destino sembrava non lasciargli scampo. Anche a Parigi il fantasma del mestiere del padre lo insegue, la maledizione di essere figlio e fratello di un boia, non l’abbandona.

Pietro decide quindi di tornare a Reggio, a casa del padre e del fratello Giuseppe. Erano i primi mesi del 1831.

Pietro Pantoni inizia quindi l’attività di Esecutore di Giustizia in periodo particolare per Modena.È il 1831 e la città è stata scossa dai moti carbonari e dalle false assicurazioni di Francesco IV che prima promette la Costituzione e poi manda a morte patrioti.

Pantoni, però, decide che il racconto della prima esecuzione avverrà quando la visita sarà giunta a termine, nel frattempo decide di consegnare al visitatore il suo taccuino dove ha annotato le scarne notizie sulle esecuzioni svolte fino a quel momento.

Le sue note o le sue memorie (ogni boia che si rispetti ha annotato diligentemente le notizie che riguardano la sua attività) sono contenute in un quaderno con la copertina verde, ornata di fregi e con l’immagine dell’Aurora sul frontespizio. Sul retro della copertina compare l’immagine della Madonna del Rosario, con ai piedi genuflesso San Domenico di Guzman.

L’anonimo visitatore inizia l’inquietante lettura del taccuino. Le memorie iniziano dal 1831, ma al posto dell’annotazione riguardante la prima esecuzione Panconi ha segnato .solo dei puntini. Le aspettative del lettore vengono deluse dall’apprendere che il giustiziere ha annotato solo le date delle esecuzioni successive, senza riportare il nome dei giustiziati, né il motivo della sentenza.

Ogni vittima è indicata con un numero, cui segue il giorno, l’anno, se si tratta di un uomo o di una donna e il paese dove la condanna è stata eseguita.

Il reato, la causa, non interessano il Pantani, eppure per un solo reato Pantoni ha fatto eccezione, per il parricidio.

Il taccuino del boia annota 127 esecuzioni dal 1832 al 1864, ma non fa cenno alle esecuzioni avvenute per mano dei suoi apprendisti e allievi, e con la centoventisettesima esecuzione le memorie si arrestano.

La lunga mano della giustizia del carnefice, però, non si è fermata e l’autore della biografia scrive «A quest’ora, mentre io scrivo – anche Pantoni scrive – munito d’un Cartolaro nuovo, fiammante, e il Numero 127 è già salito a 128! – I29.., e…e…e chi sa quando deporrà la nequissima penna!».

IL DIPLOMA DA CARNEFICE
Il mestiere di boia era un mestiere ingrato, temuto dal popolo e quindi, nonostante assicurasse una paga sicura, non erano molti gli uomini disposti a intraprenderlo ed è per questo che si trasmetteva il più delle volte da padre in figlio.

Eppure iniziare la carriera di boia non era tanto difficile, non era prevista una nomina ufficiale, né il carnefice era dotato di brevetto.

Per diventare ufficialmente boia bastava compiere la prima esecuzione, anche se da volontario. Ciò rendeva il “volontario” maestro e quindi impiegato effettivo.

La nomina e la carriera del boia avvenivano nell’anonimato più assoluto, così era avvenuto per Pietro Pantoni che un giorno successe al vecchio boia operante in Liguria, il famigerato Gaspare Savazza, detto Gasparin, scomparso improvvisamente - «muoiono come nascono, e tutto è finito», sospira Pantoni.

Ma chi avrebbe avuto il coraggio di proporre una nomina?
Si chiede l’autore, forse «il Ministro di Grazia e Giustizia, cui spetterebbe per competenza e di cui l’esecutore è la vindice spada? E il carnefice è un mezzo di umana giustizia, ossia di legale vendetta ed è ben naturale che dopo bevuto alla coppa la si rompa e si getti come fastidio».

I sovrani, i giudici, quindi, hanno bisogno del braccio del boia eppure non hanno il coraggio di presentarsi in pubblico con esso, e gli stessi giudici che pure irrogano la condanna capitale aborriscono dall’assistervi, come a dire «Sarai mio strumento e poi ti manderò in fiamme…».

Il carnefice Pantoni è noto non solo a Torino, ma in tutte le province dello Stato Sardo e, successivamente, in quelle annesse dove, per potersi recare liberamente in missione, aveva bisogno di un lasciapassare, una specie di salvacondotto che gli viene rilasciato per la prima volta dal Ministro di Grazia e Giustizia Rattazzi, nel 1854.

Nel documento si raccomanda alle autorità militari e civili della città dove si reca il carnefice di «dare all’uopo aiuto ed assistenza agli Esecutori di Giustizia ed in caso di bisogno alloggio nella casa di deposito, od in una delle Camere della Casa Comunale».

Ma non basta avere assicurato un alloggio al carnefice in trasferta, un’altra esigenza era di assicurare l’incolumità di esso, trattandosi di agente della Legge e della Giustizia, pertanto «è stretto dovere di qualunque Autorità di proteggerli contro qualsiasi insulto cercando di procurare con ogni mezzo che della loro presenza non risulti pericolo alla loro persona, o sia alterato l’ordine pubblico».

Quanto veniva pagato l’esecutore di giustizia Pietro Pantoni per ogni prestazione? Prima del 1848 uno stipendio fisso di 1.500 grane all’anno, che non bastano a sostenere la numerosa famiglia, così Pantoni supplica che gli sia concesso un aumento di 300 lire, a cui si aggiungerà un soprassoldo di 600 lire, Un’esecuzione a Torino gli viene pagata 3 tornesi.

Il compenso aumenta se l’opera viene svolta fuori residenza, in quel caso ogni esecuzione gli viene pagata 22 franchi in più, più una diaria per ogni tappa di altre 16 lire e 20 centesimi. Le spese di viaggio, d’impianto e di “levata della forca” sono a carico del Governo.

La corda, invece, è a carico del carnefice, per il semplice motivo che dalla qualità della corda ne va l’onore dell’esecutore.

Alcuni colleghi di Pantoni arrotondavano il magro guadagno che ammontava a circa 3.000 lire all’anno, con altre fonti di lucro.

Ad esempio Gasparini, rivela Pantoni, «spacciava certi unguenti per epilessia», faceva cabale al lotto e, dietro buone mance, dava buoni numeri.

Il povero Pantoni cerca a tutti i costi di convincere l’interlocutore della natura buona del suo essere e racconta che prima di ogni esecuzione ascolta la messa e si rafforza i muscoli per potere operare prontamente, al fine di non infliggere molto dolore ai pazienti. Ma il vero lamento, però, Pantoni lo esprime per la fatica fisica richiesta dall’uso della forca mentre elogia l’invenzione inglese di una forca che somiglia alla ghigliottina per la rapidità con cui viene manovrata.

La confessione di Pantoni non può concludersi senza aver fatto chiarezza su quella prima condanna a morte eseguita nel lontano 26 maggio 1831 a Modena e che invano aveva cercato di allontanare con il fiume di parole, perché sa che il nome del giustiziato ispirerà nel suo interlocutore una reazione violenta, rabbia e dolore. Ecco la narrazione di Pantoni: nel Castello estense di Francesco IV, in una sala adattata a confortatorio siedono due prigionieri, custoditi da sgherri, circondati da confortatori e religiosi, i due sono stati condannati a morte.

La porta si apre ed entrano due Esecutori di Giustizia: Pietro Pantoni e suo fratello Giuseppe. Pietro era alla sua prima prova che lo avrebbe ufficialmente nominato Esecutore di Giustizia, carnefice, boia.

Aveva sostituito all’ultimo momento suo padre Antonio, carnefice ufficiale di Modena, dispensato da questa esecuzione perché il Duca temeva che l’esecuzione pubblica dei due martiri avrebbe sollevato dei tafferugli popolari.

Il carnefice titolare era stato quindi allontanato dalla città per precauzione e suo figlio Pietro ne aveva raccolto il testimone.

Il Duca aveva ordinato che il primo ad essere appeso alla forca doveva essere il “paziente” di Giuseppe Pantoni. Quindi sarebbe toccato a quello assegnato a Pietro.

Alle 8 del mattino del 26 maggio 1831 vengono quindi innalzate due forche sulla Piazza del Castello: i due cadaveri che penzolavano erano quelli di Borelli e Ciro Menotti, due patrioti che si erano immolati per la libertà della loro Patria.

Ciro Menotti era stato impiccato da Pietro Pantoni.