Francesco Guccini. La sua grandezza ha un segreto da rivelare per l’analisi di ogni testo poetico e di ogni autore e cantante. Breve nota di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Musica e cantautori.
Il Centro culturale Gli scritti (1/8/2021)
Guccini appartiene certamente a quel gruppo di cantautori impegnati che sono stati il mito di una intera generazione.
Ma, a differenza di altri cantanti che hanno fatto dell’impegno politico la cifra della loro poesia, Guccini è grande perché ha sempre compreso e cantato che la storia non è tutto. Non ha mai posto se stesso, i suoi personaggi e i suoi luoghi innanzitutto dinanzi al risultato storico della loro opera, bensì ha collocato tutto dinanzi al creato intero, dinanzi al tempo e all’infinito.
Con ciò non è stato un cantautore mistico o spirituale, ma certamente ha saputo cogliere la nostalgia che ha il cuore dell’uomo quando guarda al fluire del tempo.
Guccini ha sempre cantato del brevissimo tempo dell’uomo, collocandolo nello stupore e nello sgomento dell’infinità del tempo e delle generazioni che si susseguono.
Per questo è stato anche il cantore delle generazioni passate, senza eroicizzare alcuno, bensì interrogandosi sul senso dell’azione umana nel breve lasso della vita.
Di certo per Guccini l’impegno storico non è sufficiente a riempire la vita dell’uomo.
Ecco il segreto che Guccini ci rivela. Per valutare se un testo o un autore è grande, è necessario domandargli se pone la domanda sul creato e non solo sull’uomo e il suo impegno storico. Un autore che cantasse solo dell’impegno storico dell’uomo, dimenticherebbe l’evidenza che egli è niente dinanzi al creato.
Insieme alla storia, il poeta deve evocare il fluire immenso del tempo. Dove tale dimensione è obliata non si ha poesia vera perché, in fondo, non si raggiunge ciò che è essenziale per ogni uomo.
«Un anno è andato via della mia vita, già vedo danzar l'altro che passerà.
Cantare il tempo andato sarà il mio tema perché negli anni uguale sempre è il problema:
E dirò sempre le stesse cose viste sotto mille angoli diversi,
Cercherò i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i visi che si sono persi,
Canterò soltanto il tempo...
Ed ora dove sei tu che sapevi ridare ai giorni e ai mesi un qualche senso.
La giostra dei miei simboli fluisce uguale per trarre anche dal male qualche compenso:
E dirò di pietre consumate, di città finite, morte sensazioni,
Racconterò le mie visioni spente di fantasmi e gente lungo le stagioni
E canterò soltanto il tempo...
E via, e via, e via parole vane che scivolano piane dalle chitarre
E se ne vanno e vibrano, non resta niente, un suono che si sente e poi scompare...» (da Il tema)
«Senza l'ultima parola, frase saggia da citarsi
Piegò il capo sul cuscino quasi per addormentarsi
Senza un grido, senza un nome, senza motti, senza un suono
né il rumore di battaglie, era morto un altro uomo
Restò solo qualcosa che volò
Nell'aria calma e poi svanì
Per dove non sapremo mai
Mai, mai, mai, mai, mai
Mai, mai, mai, mai, mai» (da L’uomo)
«O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia.
Diversa tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale,
La mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare» (da La canzone dei dodici mesi)
«Bisanzio è forse solo un simbolo insondabile
Segreto e ambiguo come questa vita
Bisanzio è un mito che non mi è consueto
Bisanzio è un sogno che si fa incompleto
Bisanzio forse non è mai esistita
E ancora ignoro, e un'altra notte è andata» (da Bisanzio).
«Vai, vecchio, vai
Non temere, che avrà una sua ragione
Ognuno ed una giustificazione
Anche se quale non sapremo mai, mai
Ora Van Loon si sta preparando piano al suo ultimo viaggio
I bagagli già pronti da tempo, come ogni uomo prudente
O meglio, il bagaglio, quello consueto, di un semplice o un saggio
Cioè poco o niente
E andrà davvero in un suo luogo o una sua storia
Con tutti i libri che la vita gli ha proibito
Con vecchi amici di cui ha perso la memoria
Con l'infinito
Dove anche su quei monti nostri è sempre estate
Ma se uno vuole quell' inverno senza affanni
Che scricchiolava in gelo sotto le chiodate scarpe di un tempo
Dei suoi diciottanni
Dei suoi diciottanni» (da van Loon, sul padre)
«Non lo sapevi che c'era la morte
Quando si è giovani, è strano
Poter pensare che la nostra sorte
Venga e ci prenda per mano
Venga e ci prenda per mano
Non lo sapevi, ma cosa hai sentito
Quando la strada è impazzita
Quando la macchina è uscita di lato
E sopra a un'altra è finita» (da Canzone per un’amica)
«Ma nel gioco avrei dovuto dirle
“Senti, senti io ti vorrei parlare…”,
Poi prendendo la sua mano sopra al banco
“Non so come cominciare…
Non la vedi, non la tocchi,
Oggi la malinconia?
Non lasciamo che trabocchi
Vieni, andiamo, andiamo via…”
Terminò in un cigolio
Il mio disco d’atmosfera
Si sentì uno sgocciolio
In quell’aria al neon e pesa
Sovrastò l’acciottolio
Quella mia frase sospesa
Ed io… ma poi arrivò una coppia di sorpresa.
E in un attimo, ma come accade spesso
Cambiò il volto di ogni cosa
Cancellarono di colpo ogni riflesso
Le tendine in nylon rosa
Mi chiamò la strada bianca
“Quant’e’?” chiesi, e la pagai
Le lasciai un nickel di mancia
Presi il resto
E me ne andai» (da Autogrill).
Anche nelle canzoni più politiche non c’è solo l’eroismo della storia, ma anche la consapevolezza che con il passare degli anni qualcosa della storia è veramente finita, anche quando si invocano nuove rivoluzioni:
«Che Guevara era morto e ognuno lo capiva
Che un eroe si perdeva, che qualcosa finiva
Che Guevara era morto e ognuno lo capiva
Che un eroe si perdeva, che qualcosa finiva
E qualcosa negli anni terminò per davvero
Cozzando contro gli inganni del vivere giornaliero
I Compagni di un giorno o partiti o venduti
Sembra si giri attorno a pochi sopravvissuti» (da Stagioni)
Anche nella Locomotiva, che racconta del fallimento di chi si oppone al progresso con la rivoluzione, il tema della morte del “rivoluzionario” ricorda il finire dell’esistenza dinanzi al tempo lunghissimo del creato: la brevità della vita dell’uomo è sempre là:
«E intanto corre corre corre sempre più forte
E corre corre corre corre verso la morte
E niente ormai può trattenere l' immensa forza distruttrice,
Aspetta sol lo schianto e poi che giunga il manto
Della grande consolatrice,
Della grande consolatrice,
Della grande consolatrice...
La storia ci racconta come finì la corsa
La macchina deviata lungo una linea morta...
Con l' ultimo suo grido d' animale la macchina eruttò lapilli elava,
Esplose contro il cielo, poi il fumo sparse il velo:
Lo raccolsero che ancora respirava,
Lo raccolsero che ancora respirava,
Lo raccolsero che ancora respirava...» (da La locomotiva).