L'originale fecondità di Paolo. Oggi come allora, di Romano Penna

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 11 /07 /2021 - 14:28 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dalla rivista Itinerarium 17(2009) 41, pp. 29-39 un articolo di Romano Penna. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Lettere paoline.

Il Centro culturale Gli scritti (11/7/2021)

1. Una premessa[1]

L'attualità di Paolo per la chiesa d'oggi si misura non altrimenti da ciò che egli significò per la chiesa delle origini. Anzi, guai se egli significasse qualcos'altro! Vorrebbe dire che il suo magistero e la sua importanza non corrisponderebbero più alla sua specifica identità e che tra la sua persona storica e l'oggi si sarebbe verificato uno iato incolmabile. È ben vero che alcuni dettagli, da lui trattati, oggi non hanno più la stessa urgenza del suo tempo: penso alla questione della circoncisione, alla proibizione di adire ai tribunali civili, al velo richiesto alle donne durante le assemblee liturgiche.

Ma lo scandalo che egli rappresentò all'interno della chiesa primitiva si misura a ben altri livelli ed esso continua purtroppo a caratterizzare una valutazione imbarazzata che, sia pure implicitamente, ancora oggi si tende a dare di lui. Già nel secolo IV Giovanni Crisostomo scriveva: «Soffro e mi rattristo all'idea che non tutti conoscono quest'uomo come dovrebbero, e che certuni lo ignorano al punto da non conoscere esattamente il numero delle sue lettere: e questo, non per mancanza di istruzione, ma perché non vogliono intrattenersi regolarmente con quest'uomo»[2].

Certamente Paolo resta un personaggio scomodo; come si esprimeva Otto Kuss, egli «è stato, e continua ad essere, una fonte di continua inquietudine per la Chiesa e la teologia»[3]. Per la verità, tale non è se ci limitiamo a considerare, sia la sua radicale adesione a Cristo, sia il suo enorme impegno missionario, sia l'utilizzo delle lettere viste come mezzi di comunicazione sociale. Ma Paolo non è tutto qui. Ciò che disturbò allora e ancora può mettere in questione le nostre precomprensioni «religiose» non è propriamente la fede cristologica in senso stretto, ma, per dirla subito chiara, si trova nella sua originale ermeneutica dell'evangelo e specificamente nell'impatto antropologico che lo contraddistingue.

Ma procediamo con ordine. Le definizioni altisonanti di Paolo si sprecano, e provengono da versanti opposti. In senso encomiastico, dopo che un eretico iberico del secolo VII lo qualificò come incarnazione dello Spirito Santo, più recentemente lo si è gratificato con gli svariati titoli di tredicesimo apostolo, di primo dopo l'Unico, di enfant terrible delle origini cristiane, di garante della libertà di pensiero nella chiesa, di fondatore dell'universalismo, se non addirittura di secondo iniziatore del cristianesimo. Altre definizioni, più antiche, sono invece di disapprovazione e di censura: già i cristiani ebioniti del II secolo lo qualificarono come apostata dalla legge, e la letteratura giudeo-cristiana delle cosiddette Pseudo-clementine ripete le qualifiche di «avversario, nemico, impostore», mentre nel secolo XIX Renan lo riteneva la causa dei principali difetti della teologia cristiana. Nella stessa Germania, che pur vide imporsi nel suo nome la Riforma (cfr. Lutero: «Non venne mai al mondo nulla di tanto audace»), un filosofo come F. Nietzsche, figlio di un pastore luterano, poté vedere in lui nientemeno che il prototipo del dys-angelista! Per non far torto a nessuno, Adolf von Harnack vide in lui il padre sia della chiesa cattolica sia dell'eresia. Ora, se il secondo gruppo di giudizi nasconde un approccio miope e aprioristico, il primo blocco tende comunque a velare l'effettiva dimensione storica del personaggio in questione.

Si può ben pensare che ognuna di queste etichette esprima un qualche granello di verità, almeno a seconda dei punti di vista. Ma si tratta in ogni caso di formulazioni teoriche e soprattutto globalizzanti, che non riescono a trasmettere il profilo reale di un personaggio certamente complesso come quello di un fariseo che finì per credere in Gesù Cristo. La cosa più sicura e concreta da cui partire, perché poggia sui suoi dati biografici, è che egli ha vissuto un vero e proprio paradosso: da iniziale avversatore del cristianesimo, ne divenne poi egli stesso avversato. Vediamo perché e quale sia la posta in gioco.

2. Paolo di fronte a Gesù, alla chiesa primitiva, e al giudaismo

Chi vuole fare di Paolo il secondo fondatore del cristianesimo dopo Gesù dimentica un dato storico elementare: che cioè tra Gesù e Paolo c'è di mezzo la comunità cristiana primitiva, quella di Gerusalemme (per non dire di altre comunità certamente esistenti nell'area galilaica). Da una parte, egli cita pochissime volte detti di Gesù (quelli sicuri sono appena tre: 1Cor 7,10; 9,14; 11,23-25) e in questi casi sempre lo chiama «Signore». Dall'altra, e soprattutto, riconosce esplicitamente il proprio debito nei confronti della comunità che lo ha preceduto. Lo si vede da vari elementi quali: la sua personale preoccupazione di mantenere opportuni legami con coloro che avevano aderito a Cristo prima di lui (cfr. Gal 2,2.9: «per non trovarmi nel rischio di correre invano ... Diedero a me la loro destra in segno di comunione»), qualche riporto esplicita del credo comune (cfr. 1Cor 15,3-5: «Vi ho trasmesso ciò che anch'io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e poi ai Dodici»), e l'utilizzo di testi che la critica letteraria riconduce con tutta probabilità ad ambiti giudeo-cristiani preesistenti (cfr. la confessione cristologica di Rm 1,3b-4a: «Nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito figlio di Dio potente secondo lo Spirito di santità dalla risurrezione dei morti»; e l'ampia composizione innica in Fil 2,6-11). Semmai bisognerebbe precisare quale sia stata la chiesa che maggiormente gli trasmise la formulazione degli elementi fondamentali della fede cristiana, se Gerusalemme o Antiochia[4]. C'è poi da calcolare il ruolo che a Gerusalemme dovrebbe aver svolto nei suoi confronti il gruppo dei sette cristiani di provenienza giudeo-ellenista, rappresentati da Stefano e dalla sua predicazione (almeno secondo il racconto di Luca in Atti 6-7, visto che Paolo nelle sue lettere non ne parla mai), la cui critica al Tempio e alla Legge mosaica potrebbe avere rappresentato per lui un punto di partenza, sia prima per la persecuzione sia poi per il ripensamento del messaggio cristiano[5].

Bisogna poi anche riconoscere che la teologia di Paolo, non solo non è spuntata come un fungo all'interno del cristianesimo delle origini, ma neppure è rimasta confinata in uno splendido isolamento. Paolo ebbe già in vita tutta una serie di collaboratori che condivisero il suo pensiero prima che la sua sorte apostolica (cfr. uomini come Barnaba, Timoteo, Tito, Epafra, Epafrodito, Tichico, Clemente, Aquila; e donne come Lidia, Priscilla, Febe, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Pèrside, Giulia), e poi originò una successiva tradizione teologica attestata sia dalle cosiddette lettere deuteropaoline (sei: 2Tes, Col, Ef, l-2Tim, Tit) sia da alcuni autori posteriori (come Ignazio di Antiochia, Marcione, Giustino, Ireneo di Lione).

Chi poi volesse vedere in Paolo un apostata, dovrebbe ricordare che egli non rinnegò mai la sua matrice giudaica. Certo è che non si professa «cristiano», anche perché il termine è probabilmente posteriore (nonostante At 11,26). E non solo si dichiara «circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei» (Fil 3,5), «stirpe di Abramo» (2Cor 11,22), ma giunge persino ad augurarsi di essere «anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne» (Rm 9,3), ai quali riconosce tutta una serie di peculiarità distintive: «Essi sono Israeliti e possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi, e da essi proviene Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5). Paolo condivide le stesse «sacre Scritture» (Rm 1,2), la stessa fede monoteistica dello Shemà (cfr. 1Cor 8,6), la stessa attesa del futuro «giorno del Signore» (1Cor 5,5; 1Tes 5,2; eec.), la stessa concezione di fondo su Israele come popolo scelto e amato da Dio, che lo ha chiamato «senza pentirsene» (Rm 11,29). Egli perciò avrebbe sicuramente continuato a definirsi un «Giudeo», anche se un giudeo «in Cristo».

Resta il fatto che Paolo fu a sua volta incompreso e fortemente contrastato. Ciò si verificò già da parte degli ebrei di fede giudaica, da cui fu ripetutamente flagellato («Cinque volte dai Giudei ricevetti i quaranta colpi meno uno»: 2Cor 11,24; cfr. anche 1Tes 14-16) e in vari luoghi fu variamente oggetto di violenza (cfr. At 9,23 [a Damasco].29 [a Gerusalemme]; 13,50 [ad Antiochia di Pisidia]; 17,5 [a Tessalonica].13 [a Berea; 18,12-17 [a Corinto]; 21,27 [tentativo di lapidazione a Gerusalemme]). Ma l'opposizione fu messa in atto sorprendentemente anche da quegli Ebrei, che per aver aderito a Gesù Cristo condividevano la stessa fede cristiana, sostenendo però un'altra ermeneutica dell'evangelo. Egli li chiama ironicamente «super-apostoli» (cfr. 2Cor 11,4-5.22-26) o «falsi fratelli, che si sono intromessi a spiare la libertà che abbiamo in Cristo» (Gal 2,4-5; cfr. anche Gal 2,11-15; 4,29; 5,11; Fil 3,2-3; Rm 16,17-18). Questi fatti suscitano un interrogativo inevitabile: Come mai Paolo fu così osteggiato? Qui si pone il complesso problema storico e teologico del cosiddetto «giudeo-cristianesimo», cioè di quel settore del primo cristianesimo di provenienza giudaica (di cui fu esponente Giacomo, «fratello del Signore», autore o referente della lettera omonima), che accettò la fede in Gesù Cristo ma la combinò con una perdurante osservanza della Torah o di parte di essa[6].

3. Il punto nodale

Una cosa è sicura: Paolo ripensa in maniera personale e originale l'evangelo cristiano. Egli non si accontenta del dato ricevuto per tradizione, ma lo reinterpreta con il proprio genio; e così, come ebbe a scrivere un po' enfaticamente Albert Schweitzer, assicurò per sempre nel cristianesimo il diritto di pensare! Del resto, è ciò che riconoscerà anche Agostino: Fides, si non cogitetur, nulla est. Ebbene, Paolo più di ogni altro ha ripensato a fondo la fede cristiana.

La questione semmai consiste nel sapere se la teologia di Paolo abbia un centro e quale esso sia. Mentre la tesi luterana classica sostiene la centralità della giustificazione per fede (così R. Bultmann, E. Käsemann, H. Hübner), altri all'interno dello stesso protestantesimo puntano piuttosto sulla decisività dell'unione mistica con Cristo (W. Wrede, A. Schweitzer, E.P. Sanders); altri ancora sottolineano il valore della teologia della croce (U. Wilckens, J. Becker) o la dimensione apocalittica della rivelazione di Dio in Cristo (J.C. Beker) o la costante tensione verso orizzonti universalistici (K. Stendahl, F. Watson, J.D.G. Dunn) o infine evidenziano Cristo stesso come il fattore oggettivo e scatenante di tutta la teologia del Paolo cristiano (L. Cerfaux, R. Schnackenburg). Quest'ultima scelta merita la nostra attenzione, poiché per Paolo è appunto la scoperta della figura di Cristo e della sua valenza soteriologica a costituire la causa, l'origine, la fonte del suo sfaccettato discorso sulla fede, sulla giustificazione, sulla partecipazione mistica, sull'evento croce-risurrezione, e sulla destinazione universale dell'evangelo.

Non che tutti questi vari capitoli sarebbero rimasti lettera morta senza l'adesione a Cristo. Per esempio, di fede in Dio Paolo avrebbe certamente continuato a parlare anche come semplice Giudeo, viste le celebrazioni che della fede (’emunàh) si fanno in vari scritti rabbinici[7]; così pure della rivelazione di Dio nella storia umana, specialmente di Israele, come si esprime qualche testo rabbinico sia pure stabilendo una netta differenza con i pagani[8]; inoltre, benché il messianismo del tempo fosse un fenomeno molto complesso[9], Paolo avrebbe comunque continuato a sperare nella venuta del Messia come liberatore d'Israele, se non dell'umanità intera[10], anche se in base alla sua formazione farisaica avrebbe piuttosto attribuito alla Torah il peso maggiore come criterio di individuazione del vero Giudeo.

Ma di tutti questi concetti egli ha operato una sorta di reset, una riconfigurazione, tale da rielaborarli e fonderli in una sintesi nuova, sicché ciascuno di essi alla fine è caratterizzato da una semantica diversa da quella originale. Ebbene, la causa responsabile dell'innovazione non è altro che la percezione della portata dirompente di Gesù Cristo, il quale, nient'altro che per la sua identità messianica diversamente concepita in rapporto alle premesse giudaiche, ridefinisce sia la fede in Dio sia l'idea di storia della salvezza. Si intuisce che la novità del pensiero di Paolo va assolutamente associata con la determinante esperienza da lui fatta sulla strada di Damasco[11], a cui si aggiungerà anche il fatto di un certo qual sviluppo del pensiero[12], condizionato di volta in volta dalle diverse situazioni delle chiese destinatarie delle sue lettere cioè delle sue prese di posizione.

4. Ermeneutica soteriologica e universalistica della figura di Gesù il Cristo

Chi è dunque Gesù Cristo secondo Paolo? La posizione di chi vorrebbe vedere nell'Apostolo il vero fondatore del cristianesimo come religione di redenzione, in quanto avrebbe appunto trasformato Gesù in un Redentore, cozza inevitabilmente contro due fatti inoppugnabili: il fatto che già prima di lui Gesù veniva confessato come «morto per i nostri peccati» (1Cor 15,3: citazione di una confessione di fede anteriore all'Apostolo), e il fatto che egli non definisce mai Gesù né come Redentore[13] né come Salvatore[14], mentre la formulazione astratta e d'impronta cultuale circa la morte «per i peccati» acquista in lui un accento personalistico con la dizione «per tutti, per voi, per noi, per me, per gli empi» (cfr. rispettivamente 2Cor 5,14s; 1Cor 11,24; 1Tes 5,10; Gal 2,20; Rm 5,6).

L'Apostolo condivide con il cristianesimo primitivo, a lui anteriore, la fede scandalosa di definire Messia (Christòs) e persino Signore (Kyrios)[15] non un sovrano potente e glorioso, ma un oscuro galileo miserevolmente condannato all'ignominia della croce, la cui gloria in termini paradossali si ritiene che gli provenga soltanto dal fatto di avere dato la vita per gli altri e di essere stato, proprio «per questo motivo» (così nell'inno prepaolino di Fil 2,9), inopinatamente risuscitato dai morti da Dio stesso. Dunque, almeno in gran parte, i primi cristiani ritengono che Gesù sia «morto per i nostri peccati» (1Cor 15,3)[16] e che con la risurrezione dai morti sia stato «costituito figlio di Dio potente» (Rm 1,4a). Inoltre, alcune forme di missione (giudeo-cristiana, all'interno di Israele) devono essere esistite anche prima di Paolo, benché limitate e soprattutto esenti da conclamate sottolineature polemiche nei confronti della matrice giudaica[17]. Perciò l'ebreo Paolo condivide con altri ebrei (poiché tali furono tutti i primi discepoli di Gesù) una fede che riguarda pure un altro Ebreo, certamente atipico, ma estremamente umano, culturalmente appartenente a una non brillante regione palestinese del tempo. Certo, dal punto di vista storiografico, c'è da essere meravigliati che nel giro di pochissimi anni di un certo Galileo chiamato Gesù si siano potute dire cose del genere. Ed è già tantissimo.

Di suo, in più. Paolo ritiene che questo Gesù (Cristo e Signore) sia l'iniziatore di una nuova stagione della storia e di una nuova identità antropologica dalle ricadute universalistiche, eventualmente paragonabile non a un re come Davide o a un profeta come Isaia, ma neppure a un grande legislatore come Mosè, bensì soltanto a chi è anteriore a tutti costoro e per di più non appartenente al popolo storico d'Israele, cioè ad Adamo progenitore dell'intera umanità (cfr. 1Cor 15,21-22.45-47; Rm 5,12-21). Sicché, con il Cristo ha luogo nell'uomo credente una «nuova creazione» (2Cor 5,17; Gai 6,15). Certamente Paolo non ha un'idea gnostica di Gesù, quasi fosse un rivelatore angelico che non avesse nulla da spartire con questo mondo caduco e con i chiaroscuri della storia; al contrario, egli sa bene che Gesù è discendente di Abramo (cfr. Gal 3,16), poiché è precisamente il popolo israelitico ad avere prodotto «il Cristo secondo la carne» (Rm 9,4).

Ma gli orizzonti di questo giudeo atipico che è Paolo vanno molto al di là di Israele: a lui interessa l'uomo come tale, ogni uomo, a prescindere da qualunque distinzione o, peggio, contrapposizione culturale e religiosa. Lo confessa ai Romani: «Io sono in debito tanto verso i Greci quanto verso i Barbari, tanto verso i sapienti quanto verso gli ignoranti» (1,14); e ai Corinzi ammette: «Mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, ... con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge ... Tutto io faccio per l'evangelo, per diventarne partecipe con loro» (1Cor 9,20-23). Anzi, se ha una preferenza, essa è per i Gentili, cioè per coloro che erano tradizionalmente tagliati fuori dalla tipica coscienza di Israele circa la propria elezione distintiva: «Ecco che cosa dico a voi Gentili: come apostolo dei Gentili, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni» (Rm 11,13-14).

In quest'ultima frase sarebbe fuori luogo leggere anche solo un'ombra di antigiudaismo, poiché subito dopo Paolo definisce «sante le primizie e la radice», su cui sono fondati i Gentili convertiti alla fede cristiana, e «buono» l'ulivo su cui «contro natura» è innestato l'ulivo «selvatico» degli stessi Gentili credenti (Rm 11,16-24)[18]. In queste dichiarazioni non si può affatto intravedere la fregola di un proselitismo a tutti i costi, magari fine a sé stesso; ma c'è sicuramente l'entusiasmo di chi «vive per Cristo» (Fil 1,21), poiché è stato «ghermito» da lui (Fil 3,12), è «tenuto in pugno dal suo amore» (2Cor 5,14), e si sentirebbe un traditore se non lo annunciasse ai quattro venti (cfr. 1Cor 9,16-17; Fil 1,18). Né si può parlare di fanatismo, che semmai contraddistinse la fase pre-cristiana della sua vita; come cristiano, invece, egli esorta a «non farsi un'idea troppo alta di sé», a «non rendere a nessuno male per male», a «vivere in pace con tutti» (Rm 12,16-18), a «sperimentare ogni cosa e tenere ciò che è buono» (1Tes 5,21), in una parola a pensare in grande: «Tutto ciò che è vero, tutto ciò che è nobile, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è onesto, tutto ciò che è amorevole, tutto ciò che vi fa onore, se c'è qualcosa di valore e se c'è qualcosa di lodevole, questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8).

Ma ecco ancora ripresentarsi la domanda: che cosa significava, dunque, Gesù Cristo per Paolo? In breve, e a livello di superficie, potremmo dire che ai suoi occhi il Cristo rappresentava il superamento della disuguaglianza tra Giudei e Gentili: non nel senso della eliminazione della peculiarità di Israele, ma nel senso di una equiparazione dei secondi con i primi. Tutta l'attività missionaria di Paolo, che con ogni verosimiglianza, almeno nella forma a noi nota, non avrebbe avuto luogo senza la sua adesione alla fede cristiana[19], consistette proprio in questo: nell'eliminare la distanza che separava i Gentili dai Giudei, ritenuti comunque il popolo dell'alleanza con Dio, al fine di includervi anche gli «altri», i «diversi», i «lontani»[20]. Ma il principio ispiratore del suo impegno non era più soltanto il desiderio di procurare a Israele dei «proseliti» provenienti dal versante dei Gentili, così da realizzare la voluta parità sulla base dell'osservanza della medesima Torah divina[21]. Era invece la persona viva di Gesù Cristo, in quanto ritenuto mediatore non più della rivelazione di una nuova legge imposta all'uomo, bensì di una grazia cioè di un favore divino, che includeva i Gentili prima ancora e, anzi, a prescindere da ogni criterio legalistico o morale. Il giudeo Paolo poteva pur ritenere anche la legge mosaica come una grazia concessa da Dio a Israele (cfr. Dt 4,7-8.37-40; Bar 3,27-4,4) o comunque come qualcosa di conseguente rispetto al favore fondamentale della liberazione dall'Egitto, su cui peraltro si basava la legittimità della Legge stessa[22]. Ma il cristiano Paolo ritiene ormai che con l'offerta totale della vita fatta da Cristo e con la sua risurrezione, la grazia di Dio non solo non passa più attraverso comandamenti e precetti, ma supera anche di gran lunga l'idea di liberazione (nazionale e politica) connessa con l'antico esodo; anzi, se questa costituiva il fondamento della Torah, ormai con la morte/risurrezione di Cristo il fondamento è cambiato, e dunque la sua sostituzione regge anche qualcosa di sostitutivo della Legge. Secondo lui, pertanto, l'uomo può ormai essere ritenuto «giusto» (cioè, santo) agli occhi di Dio, non più in base a ciò che l'uomo stesso possa fare di moralmente giusto in conformità ai dettami della legge (le «opere»), ma in base alla semplice accettazione per fede di quell'evento di morte e risurrezione in quanto valido per tutti gli uomini e per ogni singolo individuo. E se la legge mosaica non è più il criterio distintivo della rivelazione di Dio e dell'identità religiosa dell'uomo, allora l'accesso a Dio (al Dio d'Israele!) non è più riservato ai Giudei ma è aperto anche a tutti i Gentili. Così quella di Paolo diventa una battaglia in favore dell'inclusivismo.

5. Cristo e/o Torah

In definitiva, l'evangelo e la missionarietà di Paolo si spiegano solo in base a precise premesse sia cristologiche sia anche giudaiche. Le premesse cristologiche sono le più decisive: esse consistono non tanto nel dovere di ottemperare a un comando missionario del Gesù terreno, visto che nelle sue lettere Paolo non cita mai una qualunque parola del Gesù terreno circa la necessità della missione[23], ma piuttosto nel fatto di essersi reso conto della portata dirompente della fede nel Cristo crocifisso/risorto, che d'un balzo supera ogni steccato e accomuna tutti gli uomini su un piede di parità. Le premesse giudaiche sono di vario genere: benché il giudaismo del tempo non attesti la prassi di una qualche propaganda missionaria ufficiale[24], tuttavia è innegabile che esso praticava in forme diverse il suo dovere di essere «un popolo di sacerdoti e una nazione santa ... in mezzo a tutti i popoli» (Es 19,5-6), non solo con la testimonianza di un'etica rigorosa, ma anche con la preghiera per i Gentili, con la sua vita liturgica e con una esplicita apologetica verbale[25]. La stessa fondamentale questione concernente i «Gentili» e la loro sorte non si spiega, se non in base a una prospettiva e precomprensione giudaica. Ebbene, Paolo si muove seguendo due linee ideali nei confronti di Israele: in consonanza con esso, egli continua a concepire lo status proprio di questo popolo e la decisività della sua funzione storico-salvifica, oltre al fatto di esprimersi con i canoni della sua cultura, sia per quanto riguarda la polemica anti-idolatrica propria del giudaismo del tempo ellenistico-imperiale e in specie di quello della diaspora egiziano-alessandrina (cfr. Rm 1,18-32; 1Tes 1,9)[26], sia per quanto riguarda lo stesso fondamentale concetto di «giustizia» cioè di ciò che fonda lo status di accettazione dell'uomo da parte di Dio, benché il Paolo cristiano opponga la fede alle opere[27]; in dissonanza con esso, egli si impegna in un progetto di superamento della separatezza dai Gentili, che Israele invece gelosamente nutriva per salvaguardare la propria identità nazionale e religiosa[28].

Dunque, Paolo coltiva due atteggiamenti apparentemente inconciliabili, che costituiscono il paradosso fondamentale del suo pensiero. Da un lato, continua a considerarsi personalmente parte di Israele, sopportando anche varie opposizioni provenienti da quella parte e mantenendo ferma la tipica fede giudaica nella salvezza escatologica di quel popolo[29]. Dall'altro, egli ritiene che sia ormai Cristo e non più la Torah a configurare la nuova comunità degli eletti di Dio.

In questo egli si distingue da altri settori del cristianesimo primitivo, la cui parte maggiore, soprattutto a Gerusalemme, riteneva che Cristo e la Torah fossero mutuamente compatibili, come Giacomo apertamente gli obietta (cfr. At 21,20: «Vedi, o fratello, quante migliaia di Giudei sono venuti alla fede e tutti sono gelosamente attaccati alla legge»); egli invece considera i due poli sostanzialmente in antitesi e perciò inconciliabili. Anche per lui non ci sarebbe stata nessuna tensione, se gli ultimi tempi si fossero definitivamente imposti con la domenica di Pasqua: nell'inaugurazione dell'éschaton la Torah avrebbe normalmente terminato il suo ruolo, sicché la funzione della Torah e del Messia sarebbero stati consequenziali e complementari.

Ma l'annuncio cristiano proclamava un Messia apparso prima della manifestazione escatologica del regno di Dio, proponendo così nel perdurare della storia una giustificazione/salvezza dell'uomo dipendenti essenzialmente dall'accettazione di quel Cristo e dall'appartenenza alla comunità che lo confessava Messia e Signore[30].

Paolo da queste premesse tirò le conseguenze più logiche o almeno le più nette, sicché per lui ormai vale il principio secondo cui «Cristo è il termine della Legge» (Rm 10,4), e perciò: «Se qualcuno è in Cristo, lì c'è una nuova creazione: le cose antiche sono passate, poiché, ecco, ne sono sorte di nuove» (2Cor 5,17). E così, pur considerandosi un Giudeo in Cristo, egli finì per alienarsi le simpatie della maggior parte del suo proprio popolo, sia di quello che non aveva accettato l'identificazione di Gesù con il Cristo, sia però anche di quello che una tale identificazione aveva accolto e proclamava.

Il fatto che, nonostante tutto, egli non sia venuto meno alle proprie convinzioni, non solo denota la forza dell'impatto che la figura di Gesù Cristo esercitò sul suo animo (cfr. Gal 1,8: «Se anche noi stessi oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anatema»!), ma rappresentò la conferma che era iniziata una nuova ermeneutica dell'annuncio cristiano, il cui fascino non è ancora cessato e di cui ci si augura che resista a ogni addomesticamento devozionale o peggio moralistico[31].

Note al testo

[1] Il testo della Prolusione riproduce, modificato, l'articolo di R. PENNA, Apostolo o apostata? Collocazione ecclesiale e teologica di Paolo nel quadro delle origini cristiane, in Credere Oggi, XXIV, 143(2004)5, pp. 19-33.

[2] Argomento della Lettera ai Romani in PG 60, p. 391.

[3] O. Kuss, Paolo. La funzione dell'apostolo nello sviluppo teologico della Chiesa primitiva, Paoline, Milano 1974, p. 591.

[4] Decisivo per lui fu il triangolo formato da Gerusalemme-Damasco-Antiochia sull'Oriente: poiché di una comunità cristiana a Damasco sappiamo pochissimo, gli studiosi si suddividono in base alla preferenza da dare o a Gerusalemme o ad Antiochia; cfr. M. HENGEL, Il Paolo precristiano, SB 100, Paideia, Brescia 1992; M. HENGEL - A.M. SCHWEMER, Paul Between Damascus and Antioch. The Unknown Years, SCM, London 1997.

[5] Gli studi più rappresentativi in materia raggiungono conclusioni diverse. Per M. HENGEL, «Zwischen Jesus und Paulus. Die "Hellenisten", die "Sieben" und Stephanus (Apg 6,1-15; 7,54-8,3)», in ZTK 72 (1975) pp. 151-206, Stefano sarebbe un ponte tra Gesù e Paolo. Invece, secondo H. RÄISÄNEN, «The "Hellenists" - A Bridge between Jesus and Paul?», in ID., The Torah and Christ, Raamattutalo, Helsinki 1986, pp. 242-306, egli si connetterebbe più a Gesù che a Paolo. Da parte sua S. LÉGASSE, Stephanos, LD 147, Cerf, Paris 1992, ritiene che l'immagine di Stefano presente negli Atti sia sostanzialmente lucana cioè redazionale; così anche F. VOUGA, Il cristianesimo delle origini: scritti, protagonisti, dibattiti, Claudiana, Torino 2001, pp. 47-52. Più possibilista dal punto di vista storico si dimostra inveceE.J. SCHNABEL, Urchristliche Mission, Brockhaus, Wuppertal 2002, pp. 643-653.

[6] Cfr. l'intero fascicolo «Il giudeo-cristianesimo nel I e II sec. d.C.», Ricerche Storico-Bibliche 15(2003)2. Accogliendo la distinzione proposta alcuni anni fa da R.E. BROWN - J.P. MEIER, Antiochia e Roma, chiese-madri della cattolicità antica, Cittadella, Assisi 1987 («Introduzione»), potremmo suddividere i Giudei che aderirono a Gesù Cristo in quattro gruppi, da una posizione di destra a una di sinistra: (1) coloro che insistevano sulla piena osservanza della legge mosaica, inclusa la circoncisione (cfr. At 11,2; 15,5; Gai 2,4); (2) coloro che non insistevano sulla circoncisione ma richiedevano dai pagani l'osservanza di alcuni precetti giudaici (cfr. At 15; Gal 2,11-14; Ap 2,14; comprese le figure di Giacomo e forse di Pietro); (3) coloro che non insistevano né sulla circoncisione né su alcun altro precetto giudaico (così Paolo); (4) coloro che non riconoscevano più nessun significato al culto e alle feste giudaiche (forse i Sette di At 6,1- 6; certo il Vangelo di Giovanni e la Lettera agli Ebrei).

[7] Per esempio, il Talmud babilonese addirittura sintetizza i 613 precetti, dati secondo la tradizione a Mosè, nella sola frase di Ab 2,4b: «II giusto per la sua fede vivrà» (Makkot 24a).

[8] II midrash Genesis Rabbà 52,5, presupponendo una rivelazione anche fuori d'Israele, si esprime così: «Che differenza c'è tra i profeti d'Israele e i profeti dei pagani? Si può istituire il paragone con un re, che si trovava insieme a un amico in una sala e un velo pendeva fra di loro: quando il re desiderava parlare col suo amico, lo sollevava; ma quando parlò ai profeti dei pagani non sollevò il velo, bensì si rivolse loro standovi dietro. Si può anche paragonare con un re, che aveva una moglie e una concubina: la prima egli la visitava apertamente, l'altra segretamente. Similmente il Santo, benedetto egli sia, parlò ai profeti pagani soltanto con mezze parole, ma ai profeti d'Israele parlò con parole intere, con linguaggio d'amore».

[9] Cfr. J.J. COLLINS, The Scepter and the Star. The Messiahs of the Dead Sea Scrolls and Other Ancient Literature, Doubleday, New York-London 1995; G.S. OEGEMA, The Anointed and his People. Messianic Expectations from the Maccabees to Bar Kochba, Academic Press, Sheffield 1998.

[10] Cfr. l’apocrifo di timbro farisaico Salmi di Salomone 17,21-31 (secolo I a.C.): «Guarda, Signore, e fa sorgere il loro re figlio di David…e cingilo di forza così che possa spezzare i governanti ingiusti…E riunirà un popolo santo…e non permetterà che l’ingiustizia abiti ancora tra loro…terrà i popoli pagani sotto il suo giogo…sicché giungeranno nazioni dall’estremità della terra per vedere la sua gloria».

[11] Cfr. C. DlETZFELBINGER, Die Berufung des Paulus als Ursprung seiner Theologie, WMANT 58, Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 1985; S. KIM, The Origin of Paul's Gospel, WUNT 2.4, Mohr, Tübingen 1981; ID., Paul and the New Perspective. Second Thoughts in the Origin of Paul's Gospel, Eerdmans, Grand Rapids-Cambridge 2002.

[12] Cfr. per esempio P. BENOIT, L'évolution du langage apocalyptique dans le corpus paulinien, in AA.Vv. Apocalypses et théologie de l'espérance: ACFEB, Congrès de Toulouse 1975, LD 95, Cerf, Paris 1977, pp. 299-335; U. SCHNELLE, Wandlungen im paulinischen Denken, SBB 137, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1989.

[13] Certo Paolo impiega il sostantivo astratto «redenzione» (apolytrosis), ma molto raramente (solo in Rom 3,24; 8,23; 1Cor 1,30), e in più sapendo bene che esso non è di origine cultuale ma profana-sociale (rapportato al riscatto di schiavi o prigionieri).

[14] Paolo impiega il titolo di «salvatore» (sotér) una sola volta (in Fil 3,20), e lo fa in riferimento non all'operato storico o attuale di Cristo bensì soltanto alla sua venuta escatologica, come a dire che solo alla fine dei tempi egli si manifesterà come salvatore!

[15] Egli non utilizza mai i titoli cristologici né di Maestro né di Profeta, che pur dovevano appartenere al linguaggio dei discepoli della prima ora!

[16] Sull'esistenza di discepoli di Gesù che, tuttavia, non computavano la morte di lui come redentrice, cfr. R. PENNA, Cristologia senza morte redentrice: un filone di pensiero del giudeocristianesimo più antico, in G. FILORAMO-C. GIANOTTO (edd.), Verus Israel. Nuove prospettive sul giudeocristianesimo. Atti del Colloquio di Torino (4-5 novembre 1999), Paideia, Brescia 2001, pp. 68-94.

[17] Cfr. l'esposizione dettagliata di E.J. SCHNABEL, Urchristliche Mission, Wuppertal 2003, pp.654-883; e F. VOUGA, Il cristianesimo delle origini, pp. 36-52 e pp. 88-95; J. GNILKA, I primi cristiani. Origini e inizio della chiesa, Paideia, Brescia 2000, pp. 322-335.

[18] Cfr. maggiori approfondimenti nella monografia di T.L. DONALDSON, Paul and the Gentiles. Remapping the Apostle's Convictional World, Fortress Press, Minneapolis 1997.

[19] Con tutta probabilità egli sarebbe rimasto confinato nella terra d'Israele (o sarebbe tornato a Tarso?), forse come maestro di una vita «ortodossa», conforme alle regole della Torah; è probabilmente a questo che si riferisce in Gal 5,11, dove ammette di avere «predicato la circoncisione» quando non era ancora cristiano; un possibile modello di un'attività rivolta ai Gentili potrebbe essere dato dal mercante Eleazaro di età claudiana, che solo occasionalmente insegnò la Torah al pagano Izate re dell'Adiabene (Cfr. FLAVIO GIUSEPPE, Ant. 20,43).

[20] «La quintessenza del vangelo di Paolo sta nell'accettazione degli "altri", nel suo caso i Gentili, così come sono ... C'è qui un profondo messaggio per i cristiani di oggi, che affrontano la sfida di ridefinire la loro identità di fronte ad "altri" in questo sempre più pluralistico e postmoderno villaggio globale» (E. CHUN PARK, Either Jew or Gentile. Paul's Unfolding Theology of Inclusivity, Wesrminster J.K. Press, Luisville-London 2003, ix). Di fatto, Paolo è l'ebreo che ha precisato come anche noi pagani possiamo considerarci figli di Dio, legittimandoci a dirlo (Cfr. K. STENDAHL, Paolo tra ebrei e pagani, Claudiana, Torino 1995, 147s).

[21] Sull'argomento, cfr. la voce «Proselyte» in P.F. STUHRENBERG, The Anchor Bible Dictionary, vol. 5, Doubleday, New York-London 1992, pp.503-505; e più diffusamente in B. WANDER, Timorati di Dio e simpatizzanti. Studio sull'ambiente pagano delle sinagoghe della diaspora, SBA 8, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002.

[22] Cfr. approfondimenti di questo aspetto in E.P. SANDERS, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione, Paideia, Brescia 1986, pp. 133-136 (sul rabbinismo), p. 382ss. (suQumran).

[23] E dire che la tradizione proto-cristiana ha conservato molte parole di invio in missione, attribuite a Gesù: cfr. Mt 10,5-16; 28,19; Mc 13,10; 14,9; 16,15; Gv 17,18; 20,21; At 1,8.

[24] Gli studi in merito sono numerosi e rappresentano posizioni diverse: mentre alcuni sono fortemente negativi (cfr. S. McKNIGHT, A Light Among the Gentiles. Jewish Missionary Activity in the Second Temple Period, Fortress Press, Minneapolis 1991; E.WILL & C. ORRIEUX, «Proselytisme juif?». Histoire d'une errreur, Les Belles Lettres, Paris 1992; M. GOODMAN, Mission and Conversion. Proselytizing in the Religious History of the Roman Empire, Clarendon Press, Oxford 1994; E.J. SCHNABEL, Urchristliche Mission, cit., pp. 94-175), altri invece sostengono posizioni più sfumate (cfr. L.H. FELDMAN, Jew and Gentile in the Ancient World: Attitudes and Interactions from Alexander to Justinian, UniversityPress, Princeton 1993, soprattutto pp. 288-341; R. GOLDENBERG, The Nations that Know Thee Not. Ancient Jewish Attitudes toward Other Religions, Academic Press, Sheffield 1997; W. LIEBESCHUETZ, L'influenza del giudaismo sui non-ebrei nel periodo imperiale, in A. LEWIN (ed.), Gli ebrei nell'impero romano, Giuntina, Firenze 2001, pp. 143-159).

[25] In merito, cfr. le interessanti conclusioni di J.P. DICKSON, Mission-Commitment in Ancient Judaism and in the Pauline Communities, WUNT 2.159, Mohr, Tübingen 2003. Eloquente è il passo di Filone Al., Spec.leg. 1,320-323, dove si invitano i Giudei a non comportarsi come gli iniziati ai misteri greci, chiusi nell'oscurità, ma ad essere di beneficio a tutti gli uomini «in mezzo alla pubblica piazza»!

[26] Vedi R. GOLDENBERG, The Nations that Know Thee Not, pp. 51-62; Paolo condivide concetti comuni sia con il Libro della Sapienza sia con Filone Alessandrino.

[27] Cfr. M.A. SEIFRID, Justification by Faith: The Origin and Development of a Central Pauline Theme, NT Suppl. 68, Brill, Leiden 1992, soprattutto pp. 78-135; D.A. CARSON - P.T. O'BRIEN - M.A. SEIFRID (edd.). Justification and Variegated Nomism I. The Complexities of Second Temple Judaism, WUNT 2.140, Mohr, Tübingen 2001.

[28] Simbolo eloquente era l'iscrizione greca posta a Gerusalemme nell'area templare tra il Cortile dei Gentili e i cortili più interni riservati agli Israeliti, dove si leggeva: «Nessuno straniero penetri al di là della balaustra e della cinta che circonda lo hieròn; chi venisse preso in flagrante sarà causa a se stesso della morte che ne seguirà» (OGIS 598); vedi anche Lettera di Aristea 139 (secolo II a.C.): Mosè «ci ha circondati con una trincea invalicabile e con mura di ferro, perché non ci mescolassimo minimamente con gli altri popoli».

[29] Sempre suggestive sono le parole da lui pronunciate ai Giudei di Roma, quando vi giunse prigioniero: «È a motivo della speranza d'Israele che sono legato a questa catena»! (At 28,20).

[30] Cfr. T.L. DONALDSON, Paul and the Gentiles, pp. 290-292; e S.K. DAVIS, The Antithesis of the Ages. Paul's Reconfiguration of Torah, CBQ MS 33, The Catholic Biblical Association of America,Washington 2002.

[31] Cfr. J.D.G. DUNN, The Cambridge Companion to St Paul, University Press, Cambridge 2003, pp. 1-15. Il Dunn è stato anche l'iniziatore di una cosiddetta New Perspective su Paolo (cfr. The New Perspective on Paul, BJRL, 65 (1983)1, pp. 103-118), secondo cui l'Apostolo si sarebbe interessato più di annunciare l'evangelo ai Gentili che non di sminuire la Torah nell'evento della giustificazione. Su questa linea stanno per esempio F. WATSON, Paul, Judaism and the Gentiles, SNTS MS 56, Cambridge 1986 (però questo Autore si è apertamente ricreduto nel sito internet: http://www.abdn.ac.uk/divinity/articles/watsonart.hti); H. RÄISÄNEN, Paul's Conversion and the Development of His View of the Law, NTS 33 (1987), pp. 404-419; e K.L. YINGER, Paul, Judaism, and Judgment According to Deeds, SNTS MS 105, Cambridge 1999, pp. 169-175. Contro questa impostazione, invece, si pongono più giustamente P. STUHLMACHER, A Challenge to the New Perspective: Revisiting Paul's Doctrine of Justification, Downers Grove 2001 (avec un complement de DA. HAGNER, Paul and Judaism: Testing the New Perspective, pp. 75-105); e soprattutto S. KIM, Paul and the New Perspective: Second Thoughts on the Origin of Paul's Gospel, Grand Rapids/Cambridge 2002.