Un’amicizia perenne per leggere l’Europa tra la stampa e Lutero. Da Studium, a cura di Giuseppe Gangale, le lettere 1499-1533 tra Erasmo da Rotterdam e Thomas More. Si conobbero in Inghilterra a casa di amici. La corrispondenza rivela, fra molto altro, la genesi delle opere-chiave: «Elogio della follia» e «Utopia», di Alberto Gaiani
Riprendiamo da Il Manifesto del 4/9/2016 (https://ilmanifesto.it/unamicizia-perenne-per-leggere-leuropa-tra-la-stampa-e-lutero/ ) un articolo di Alberto Gaiani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Riforma protestante e riforma cattolica.
Il Centro culturale Gli scritti (9/8/2021)
All’inizio dell’ottavo libro dell’Etica nicomachea, per definire il ruolo dell’amicizia nella vita degli esseri umani Aristotele sceglie un superlativo assoluto – anagkaiotaton – che in italiano non può essere reso con un’unica parola: l’amicizia è massimamente necessaria alla vita, e senza amici nessuno sceglierebbe di vivere. Nei paragrafi successivi passa in rassegna i legami fondati sull’utile, sul piacere e sulla virtù, identificando la forma perfetta dell’amicizia in quella che si genera tra due persone portatrici di una disposizione alla virtù e che in ciò si trovano profondamente simili.
Qualcosa di analogo deve avere riguardato, nel 1499, durante un viaggio in Inghilterra, l’incontro tra Erasmo da Rotterdam, a quell’epoca all’incirca trentenne, e Tommaso Moro, di una decina d’anni più giovane di lui, che conobbe in casa di amici comuni. Ne nacque un rapporto intenso e duraturo, le cui tracce si possono seguire in «Più di metà dell’anima mia». Corrispondenza a cura di Giuseppe Gangale, autore di un utilissimo apparato critico (Studium, pp. 239, euro 19,00).
Le lettere raccolte, che coprono gli anni dal 1499 al 1533, consentono anzitutto una lettura della storia europea del periodo in cui la cultura comincia a laicizzarsi e a diffondersi anche grazie all’affermarsi della stampa, negli stessi anni in cui la riforma protestante infiamma il continente a diverse latitudini e le scorrerie ottomane fanno temere il crollo della cristianità. Ma permettono anche di cogliere i pensieri e le aspettative degli autori dell’Elogio della follia (pubblicato per la prima volta nel 1511) e di Utopia (uscito nel 1516), il loro progetto di riforma politica e culturale, il loro tentativo spesso violentemente contestato di rimanere in equilibrio tra pulsioni riformatrici e brutali richiami alla tradizione. Infine, fanno luce su dettagli di vita materiale, sulle difficoltà economiche di chi si dedicava alla vita intellettuale agli inizi del XVI secolo, sulle tensioni di chi si trovava invischiato in dispute dottrinali e politiche che scuotevano i governi dei maggiori stati europei, sulle incertezze di chi, pur raggiunta la fama letteraria (Erasmo) o il vertice di una carriera politica (Moro), si rivolgeva all’amico di una vita per sottoporgli i dubbi più profondi, inconfessabili a chiunque altro.
«Sei per me più di metà di me», scriveva Moro nel 1520, riecheggiando ciò che Orazio scrisse di Virgilio, animae dimidium meae. E non era soltanto un artificio retorico o un empito di emotività: Moro usò questa espressione al termine di una lunghissima missiva in cui comunicava a Erasmo di avere assunto una posizione di scontro frontale nei confronti del francese de Brie, che aveva scritto un Antimorus in cui, oltre ad accusarlo di scrivere versi zoppicanti infarciti di barbarismi e di solecismi (accusa terribilmente infamante tra gli umanisti), cercava di mettere Moro in cattiva luce presso la corona inglese. Erasmo conosceva de Brie e ne apprezzava, ricambiato, l’opera. È perciò proprio in questo scambio che si coglie una delle chiavi di lettura dell’intero epistolario: nonostante le innumerevoli differenze, a dispetto della distanza, nonostante opinioni difformi e scelte contrastanti, rimane una radice comune, inestirpabile.
Un’appartenenza condivisa che nulla può scalfire e che resiste ai silenzi, alle divergenze, al tempo che passa e ai malanni fisici perché, come diceva Aristotele, è massimamente necessaria alla vita.
Erasmo scrisse l’Elogio della follia in un periodo in cui era ospite nella casa di Tommaso Moro e gli dedicò l’opera con una lettera che poi sarà riportata in tutte le edizioni, nella quale giocava sull’assonanza tra ‘More’ e ‘moría’, follia in greco, affidando al sodale il frutto del proprio lavoro: «lo prenderai sotto la tua protezione come a te dedicato e non più mio, bensì tuo». Utopia di Moro fu pubblicata grazie all’interessamento dell’amico, alle sue conoscenze e alle sue intercessioni presso intellettuali e stampatori di mezza Europa, tanto che diversi studiosi affermano che il vero editore di Utopia fu Erasmo da Rotterdam. Entrambe le opere – insieme ad altre, ovviamente: nel 1513, solo per fare un esempio, fu pubblicato Il Principe di Machiavelli – si situano al principio dell’età moderna e in seguito sono state riconosciute come capitali, ma sono anche state spesso viste come un ibrido difficilmente classificabile: testi metaforici, allusivi, ironici, paradossali, lontani da un impegno teorico esplicito.
L’Elogio della follia è una critica sferzante alle tendenze dominanti del tempo, ai mille modi dispersivi e inautentici in cui gli esseri umani trascorrono la vita e si occupano pensando di compiere grandi imprese. Lì Erasmo usava i toni della satira, effettuando continui e manifesti richiami alla letteratura classica, da Cicerone a Orazio, da Ovidio a Luciano. In Utopia si trova una radicale messa in questione dei presupposti sulla base dei quali si stava sviluppando la società inglese dei primi anni del Cinquecento: attraverso una finzione letteraria, il racconto di un racconto, Moro illustrava i principi in base a cui può svilupparsi una società giusta, equilibrata, armonica.
Erasmo e Moro si accollarono entrambi, in forme differenti, un compito etico e politico, e per darvi corpo misero in piedi due mirabili costruzioni di fantasia. Certo: nella loro opera pesava molto lo spirito del tempo e il loro essere due umanisti integrali, uomini curiosi, lettori onnivori, indefessi studiosi delle letterature classiche, il che emerge con chiarezza in diversi passi del loro scambio epistolare trentennale. Ma qui si rivela anche un tratto che in un certo senso trascende la dimensione contingente in cui maturarono le loro opere e i pensieri scambiati per lettera. Entrambi si impegnarono in una critica serrata dell’esistente: sia Moro sia Erasmo, pur con accenti e ruoli differenti, seppero prendere posizioni scomode, contrastate, ma a volte decisive rispetto a questioni che riguardavano il mondo in cui vivevano.
Ebbero il piglio dei riformatori ma si tennero lontani dai settarismi, lottando sempre per soluzioni razionali, condivise, orientate al bene comune. In questo senso il riferimento alla classicità – come risulta anche dagli accenni presenti in molte delle loro missive – è un elemento essenziale del compito intellettuale di cui si sentivano investiti: dominavano con padronanza la letteratura latina, la letteratura greca, la filosofia antica, e i testi classici costituivano in un certo modo il loro lessico familiare, il serbatoio delle espressioni più precise e più evocative che si potessero usare per nominare le cose con le giuste parole.
Nel 1535 Moro morì decapitato per non avere accettato l’Atto di supremazia di Enrico VIII. L’anno successivo lo seguì Erasmo, afflitto dai reumatismi, dalla gotta, dalla dissenteria. Hanno lasciato dietro di loro un’eredità importantissima, ma forse il loro monumentum aere perennius è la reciproca amicizia. Preoccupato per la ricezione e la diffusione di Utopia, in un passaggio di una lettera del 1516 Moro scrisse: «Mi aspetto dunque che daranno approvazione alla mia opera, ed io la desidero assai. Tuttavia (…) il tuo solo voto mi sarà più che bastante. Secondo come sento, noi due siamo una folla, e penso che potrei essere felice con te anche in un deserto».