500 anni fa il futuro sant’Ignazio veniva ferito a Pamplona, di Giovanni Marcotullio
Riprendiamo dal sito Aleteia un articolo di Giovanni Marcotullio pubblicato il 20/5/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Maestri nello Spirito.
Il Centro culturale Gli scritti (30/5/2021)
N.B. L’autore, Giovanni Marcotullio, ha aggiunto su FB questo Nota Bene all’articolo: Nel pezzo non l’ho scritto perché è inelegante sottolineare l’evidenza, ma all’improvviso mi prende lo scrupolo che anche questa lapalissiana verità possa sfuggire a qualcuno: la palla di cannone che fracassò il ginocchio del futuro sant’Ignazio – quella a cui dobbiamo essere grati delle Reducciones in Paraguay, dell’evangelizzazione in India, Cina e Giappone, quella grazie alla quale abbiamo la teoria del Big Bang (e avremmo forse conosciuto Penny e Sheldon di #TBBT, senza?) e il pontificato di un Papa gesuita… – quella palla di cannone era FRANCESE.
Nessuno poteva neanche lontanamente sospettarlo, ma la palla di cannone che fracassò un ginocchio al futuro fondatore della Compagnia di Gesù stava per mettere in moto – con la grazia di Dio – una delle conversioni più decisive e incisive di tutta la storia moderna.
“Non tutti i mali vengono per nuocere”, siamo soliti dire, ma se ci chiedessero di spiegare che cosa intendiamo con questo proverbio potremmo trovarci spiazzati, e allora vagheremmo a tentoni cercando nella memoria un aneddoto che dimostri vero il proverbio: tipo quando mi sono cadute nel tombino le chiavi della macchina, e mentre chinato le ripescavo ho visto lì vicino un portafogli smarrito; o come quando vai a farti controllare un foruncolo dal dermatologo e quello ti salva da un melanoma sull’altra spalla, che noi avevamo trascurato. O cento altre storie di questo tipo.
Anche la storia della santità è piena di questi aneddoti, e se anzi il Preconio Pasquale saluta il peccato originale come una «felice colpa / che meritò di avere un così grande redentore»… si vede che i singoli aneddoti reiterano un’esperienza fondamentale di caduta e riscatto. Oggi si celebrano nella Chiesa cattolica i 500 anni da uno di questi fatterelli, avvenuto nell’assolata Pamplona.
Era un giorno come tanti altri, durante le interminabili e cruente scaramucce tra francesi e spagnoli, e una palla di cannone francese fracassò un ginocchio del cavaliere basco Íñigo de Loyola, il quale quella mattina a tutto pensava tranne che sarebbe diventato il Sant’Ignazio senza il quale la storia moderna (in particolare – ma non solo – quella della Chiesa) sarebbe impensabile.
L’inizio del Racconto del pellegrino
Lo stesso Ignazio, però, avrebbe scelto proprio quella data e quell’aneddoto per iniziare il suo “racconto del pellegrino” (un’autobiografia scritta in età matura per l’insistenza dei suoi primi gesuiti):
Fino a 26 anni fu uomo di mondo, assorbito dalle vanità. Amava soprattutto esercitarsi nell’uso delle armi, attratto da un immenso desiderio di acquistare l’onore vano. Con questo spirito si comportò quando venne a trovarsi in una fortezza assediata dai francesi: tutti erano del parere di arrendersi, alla sola condizione di avere salva la vita, poiché era evidente che non potevano difendersi; egli invece presentò al comandante argomenti così persuasivi che lo convinse a resistere. Tutti gli altri cavalieri erano di parere contrario, ma trascinati dal suo ardimento e dalla sua decisione, ripresero coraggio. Il giorno in cui si prevedeva l’attacco egli si confessò a uno di quei suoi compagni d’arme. Si combatteva già da parecchio tempo quando un proiettile lo colpì a una gamba e gliela spezzò, rompendogliela tutta; e poiché l’ordigno era passato tra le gambe, anche l’altra restò malconcia.
Caduto lui, tutta la guarnigione della fortezza si arrese subito ai francesi; essi, entrando a prenderne possesso, trattarono con ogni riguardo il ferito, e furono con lui cortesi e benevoli. Rimase a Pamplona dodici o quindici giorni; poi, in lettiga, fu trasportato nel suo castello. Là si aggravò; medici e chirurghi furono chiamati da varie parti: diagnosticarono che le ossa erano fuori posto; o erano state ricomposte male la prima volta, o si erano spostate durante il viaggio e questo impediva la guarigione. Per rimettere le ossa a posto bisognava rompere di nuovo la gamba. Si ripeté quella carneficina. In questa, come in tutti gli interventi prima subiti o che avrebbe affrontato poi, non gli sfuggì mai un lamento, e non diede altro segno di dolore che stringere forte i pugni.
Ma continuava a peggiorare: non poteva nutrirsi e manifestava gli altri sintomi che di solito preannunziano la fine. Il giorno di San Giovanni, poiché i medici disperavano di salvarlo, gli fu suggerito di confessarsi. Ricevette dunque i sacramenti e, la vigilia dei Santi Pietro e Paolo, i medici dichiararono che se entro la mezzanotte non migliorava, lo si poteva dare per morto. L’infermo era sempre stato devoto di San Pietro: nostro Signore volle che proprio da quella mezzanotte cominciasse a riprendersi; e andò così migliorando che di lì a qualche giorno fu dichiarato fuori pericolo.
Le ossa andavano ormai saldandosi, ma sotto il ginocchio un osso rimase sovrapposto all’altro di modo che la gamba rimaneva più corta. Per di più quell’osso sporgeva tanto da apparire una deformità: e questo lui non lo poteva sopportare; intendeva continuare a seguire il mondo e quel difetto sarebbe apparso sconveniente; per questo interrogò i medici se si poteva tagliare quell’osso. Risposero che lo si poteva certo tagliare, ma il dolore sarebbe stato più atroce di tutti quelli già sofferti: perché l’osso ormai si era saldato e perché l’intervento era lungo. Nonostante tutto, per suo capriccio, decise di sottoporsi a quel martirio. Suo fratello maggiore, spaventato, diceva che non avrebbe mai avuto il coraggio di sottoporsi a tale atrocità: ma l’infermo la sopportò con la consueta forza d’animo.
Fu incisa la carne e l’osso sporgente fu segato. Perché la gamba non rimanesse più corta, i medici adottarono vari rimedi: applicarono vari unguenti e la tennero continuamente in trazione; furono giorni e giorni di martirio. Ma nostro Signore gli ridava salute; andò migliorando a tal punto che si trovò completamente ristabilito. Solo che non poteva reggersi bene sulla gamba e doveva per forza stare a letto. Poiché era un appassionato lettore di quei libri mondani e frivoli, comunemente chiamati romanzi di cavalleria, sentendosi ormai in forze ne chiese qualcuno per passare il tempo. Ma di quelli che era solito leggere, in quella casa non se ne trovarono. Così gli diedero una Vita Christi e un libro di vite di santi in volgare.
Percorrendo più volte quelle pagine restava preso da ciò che vi si narrava. Ma quando smetteva di leggere talora si soffermava a pensare alle cose che aveva letto, altre volte ritornava ai pensieri del mondo che prima gli erano abituali. Tra le molte vanità che gli si presentavano alla mente, un pensiero dominava il suo animo a tal punto che ne restava subito assorbito, indugiandovi come trasognato per due, tre o quattro ore: andava escogitando cosa potesse fare in servizio di una certa dama, di quali mezzi servirsi per raggiungere la città dove risiedeva; pensava le frasi cortesi, le parole che le avrebbe rivolto; sognava i fatti d’arme che avrebbe compiuto a suo servizio. In questi sogni restava così rapito che non badava all’impossibilità dell’impresa: perché quella dama non era una nobile qualunque; non era una contessa o una duchessa; il suo rango era ben più elevato di questi.
Ma nostro Signore lo assisteva e operava in lui. A questi pensieri ne succedevano altri, suggeriti dalle cose che leggeva. Così leggendo la vita di nostro Signore e dei santi si soffermava a pensare e a riflettere tra sé: “E se anch’io facessi quel che ha fatto san Francesco o san Domenico?”. In questo modo passava in rassegna molte iniziative che trovava buone, e sempre proponeva a se stesso imprese difficili e grandi; e mentre se le proponeva gli sembrava di trovare dentro di sé le energie per poterle attuare con facilità. Tutto il suo ragionare era un ripetere a se stesso: san Domenico ha fatto questo, devo farlo anch’io; san Francesco ha fatto questo, devo farlo anch’io. Anche queste riflessioni lo tenevano occupato molto tempo. Ma quando lo distraevano altre cose, riaffioravano i pensieri di mondo già ricordati, e pure in essi indugiava molto. L’alternarsi di pensieri così diversi durò a lungo. Si trattasse di quelle gesta mondane che sognava di compiere, o di queste altre a servizio di Dio che gli si presentavano all’immaginazione, si tratteneva sempre sul pensiero ricorrente fino a tanto che, per stanchezza, lo abbandonava e s’applicava ad altro.
C’era però una differenza: pensando alle cose del mondo provava molto piacere, ma quando, per stanchezza, le abbandonava si sentiva vuoto e deluso. Invece, andare a Gerusalemme a piedi nudi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute abituali ai santi, erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si soffermava, ma anche dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno di gioia. Allora non vi prestava attenzione e non si fermava a valutare questa differenza. Finché una volta gli si aprirono un poco gli occhi; meravigliato di quella diversità cominciò a riflettervi: dall’esperienza aveva dedotto che alcuni pensieri lo lasciavano triste, altri allegro; e a poco a poco imparò a conoscere la diversità degli spiriti che si agitavano in lui: uno del demonio, l’altro di Dio. Questa fu la prima riflessione che egli fece sulle cose di Dio. In seguito, quando si applicò agli Esercizi, proprio di qui cominciò a prendere luce sull’argomento della diversità degli spiriti (Il racconto del pellegrino, 1-8).
Oggi dunque nella Chiesa Cattolica benediciamo quella palla di cannone francese che distrusse il ginocchio di un cavaliere basco, ma la benediciamo perché mentre quest’ultimo, che – a proposito di proverbî – aveva perso il pelo ma non il vizio, si sottoponeva a rudi trattamenti per tornare a vantare la bella figura necessaria con le armi e con le donne, il Signore Gesù si adoperava per erodere in lui le calcificazioni di quel vano amor proprio: tanta tempra, tanta volizione, tanto fervore venivano liberati dalla tirannide egolatrica di un cavaliere di ventura come ce ne furono tanti… e si disponevano a servire liberamente la causa di Cristo e del suo Evangelo. Solo uno, tra quel prato di cavalieri di ventura, diventò sant’Ignazio.
Dio cavalca le palle di cannone
E che sarebbe stato il mondo, da allora e fino ad oggi, senza quella palla di cannone? Georges Lemaître non avrebbe studiato fisica – giacché la studiò dai Gesuiti (prima di entrare egli stesso in Compagnia) – e chissà se noi sapremmo di un “Big Bang”… Francesco Saverio sarebbe diventato un polveroso barone alla Sorbonne e non sarebbe mai diventato lo sfavillante apostolo delle Indie, né Matteo Ricci o Alessandro Valignano avrebbero avuto motivi per recarsi in Cina e in Giappone. In Paraguay nessuno avrebbe impiantato le Reducciones – primo esperimento moderno di vita evangelica e silenziosa critica alla secolarizzazione del Vecchio Mondo – e almeno una buona metà della vita culturale di tutto il mondo ne sarebbe stata gravemente pregiudicata.
Oggi benediciamo dunque quella palla di cannone che fracassò il ginocchio di Ignazio. E soprattutto il Signore, che scelse non di deviarla bensì di cavalcarla.