Dante Alighieri… A 700 anni dalla morte. Un’intervista di Francesco d’Alfonso al prof. Luca Marcozzi
Riprendiamo sul nostro sito un’intervista di Francesco d’Alfonso al prof. Luca Marcozzi, tratta da Italia Informa, n. 2 Marzo/Aprile 2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Dante Alighieri.
Il Centro culturale Gli scritti (30/5/2021)
«Tutto è colossale, e tutto è naturale. E in mezzo torreggia Dante, il più infernale, il più vivente di tutti, pietoso, sdegnoso, gentile, crudele, sarcastico, vendicativo, feroce, col suo elevato sentimento morale, col suo culto della grandezza e della scienza anche nella colpa, col suo dispregio del vile e dell’ignobile, alto sopra tanta plebe, così ingegnoso nelle sue vendette, così eloquente nelle sue invettive».
Con queste parole il padre nobile della storia della letteratura italiana, Francesco De Sanctis, tratteggiava l’Inferno della Commedia e il suo autore, Durante degli Alighieri, noto a tutti come Dante. Quel Dante che oggi, a settecento anni dalla sua morte, è più vivo che mai.
Ne abbiamo parlato con il prof. Luca Marcozzi, Ordinario di Letteratura italiana all’Università Roma Tre.
Quando e perché nasce il mito di Dante?
Il mito di Dante, così come noi lo conosciamo, non è stato sempre vivo, anzi alcuni secoli hanno passato sotto silenzio o addirittura detestato la sua opera: nel Seicento, ad esempio, sono state pubblicate solo tre edizioni della Commedia, di scarso pregio e senza commento. In quel secolo si moltiplicò invece il fenomeno delle “fruste dantesche”, cioè saggi di eruditi che si dedicavano a rintracciare alcuni errori presenti nel poema. La riscoperta di Dante si deve ad Ugo Foscolo, che attraverso una sua edizione della Commedia pubblicata postuma da Mazzini nel 1843, consegna l’Alighieri alla venerazione dei nuovi italiani. Proprio in quell’occasione Mazzini presentò Dante come “l’apostolo della nazione”: più della sua poesia fu il personaggio Dante - con la sua grandezza di esule e con la sua dirittura morale -, a costituire un esempio fulgido di virtù per l’Italia del Risorgimento. Da lì in avanti, ogni volta che è stato necessario “fare” o “rifare” gli italiani, si è spesso ricorso a Dante, la cui vita, peraltro carente di notizie, è stata ricostruita a uso e consumo delle varie ideologie che si sono succedute. Questo era accaduto già nella Firenze del Trecento, con l’operazione di Boccaccio che aveva redatto diverse biografie di Dante cercando di esaltarne la sua figura ben oltre la realtà dei fatti, e ancor più nella Firenze del Quattrocento. Nel 1436 Leonardo Bruni scrisse una vita di Dante che lo riaccostava alla sua patria perduta, e poi ancora nel 1481 uscì l’imponente commento alla Commedia di Cristoforo Landino, che aveva un intento politico e ideologico ben preciso, quello cioè di esaltare la fiorentinità di Dante. All’indomani dell’Unità d’Italia, poi, sorsero in molte città monumenti celebrativi; e durante il Fascismo Dante fu esaltato a tal punto che si pensò di dedicargli addirittura un tempio, un Danteum, che sarebbe dovuto sorgere a Roma in Via dei Fori Imperiali, su progetto di Mario Sironi.
È giusto secondo lei insegnare Dante nella scuola media e nei licei?
La formazione culturale dei ragazzi non può prescindere dallo studio della Commedia, per molti motivi. Ne cito solo uno tra i molti: l’importanza della poesia di Dante è data anche dal suo rapporto con i classici, poiché la Commedia ha traghettato gran parte dell’epica classica, di Virgilio in particolare, ma anche di Lucano e Stazio, nella poesia italiana, con riferimenti a quelle opere che investono anche il piano linguistico, metaforico, stilistico. In questo senso, Dante rappresenta la continuità con la grande poesia antica e il transito di questa nella modernità.
Francesco De Sanctis ha scritto, a proposito dei personaggi della Commedia: «Queste grandi figure, là sul loro piedistallo rigide ed epiche come statue, attendono l’artista che le prenda per mano e le gitti nel tumulto della vita e le faccia esseri drammatici. E l’artista non fu un italiano: fu Shakespeare».
De Sanctis si riferisce ai poeti cosiddetti primitivi, cioè gli autori dei grandi capolavori, secondo una visione già presente in Vico, e tra questi anche Shakespeare. In particolare, se vogliamo esercitarci su un confronto astratto, in Dante manca, rispetto a Shakespeare, una dimensione drammaturgica, teatrale, che del resto era assente nella sua epoca. In questo senso il giudizio di De Sanctis va valutato sul piano tecnico: i personaggi della Commedia sono statici, fissi nello spazio e nel tempo, mentre è Dante personaggio a muoversi e a incontrarli in sequenza. Essi si muovono solo nel ricordo che fissa una loro caratteristica o una loro azione esemplare, senza quella densità drammatica intesa come compiutezza di azioni, come chiaroscuro del pensiero, come approfondimento psicologico: la loro monumentalità, che li rende memorabili, nel giudizio di de Sanctis, nuoce alla loro profondità.
La Divina Commedia ha però ispirato molti artisti, nel teatro, nella musica, nella letteratura, nell’opera lirica…
La grandezza della poesia di Dante sta anche nella forza di ispirazione che ha avuto per artisti di ogni tipo: D’Annunzio, Victor Hugo, Listz, Rossini, Donizetti, Zandonai, fino ai fumetti e ai videogames. Poi ci sono le arti pittoriche: fin dai primi decenni, alla Commedia si è accompagnata una notevole tradizione figurativa, e sono moltissimi i manoscritti illustrati, importanti anche per capire come i lettori dell’epoca interpretavano alcuni passi oscuri del poema. Quasi tutti questi manoscritti interrompevano però il loro corredo figurativo con l’Inferno o al più il Purgatorio: figurare il Paradiso era un’impresa troppo impegnativa per gli illustratori, per i miniatori e per i creatori di programmi iconografici. La forza visionaria di Dante, soprattutto per il Paradiso, che è regno di pura luce, è assolutamente incomparabile con lo sforzo figurativo degli artisti, che non riescono a stare dietro all’«alta fantasia» - come il poeta la definisce – necessaria alla sua rappresentazione. Successivamente, dall’epoca rinascimentale in poi, ci sono stati esperimenti interessanti, con illustrazioni di grande pregio che hanno riguardato anche il Paradiso. Ma a una sua compiuta illustrazione – che passa per l’astrazione – si giunge solo alla fine del Quattrocento, con due stampe veneziane del 1491.
Quali sono i versi della Divina Commedia che lei ama particolarmente?
Il verso in assoluto che io amo di più è la descrizione della terra che Dante fa dall’alto, salendo verso il Paradiso e constatandone le ridotte dimensioni: «l’aiuola che ci fa tanto feroci» (Paradiso XXII, 151). È una gemma di sapienza, frutto anche della grande tradizione filosofica latina e medievale nota a Dante come il commento al Somnium Scipionis di Macrobio: manifesta una grande disillusione verso la dimensione umana, ma anche grande apertura verso una dimensione più alta, trascendente.
Perché è così importante celebrare Dante, e soprattutto perché è ancora importante leggere Dante?
Per la grandezza della sua poesia e del suo pensiero, perché tutti abbiamo familiarità con la sua opera e con i suoi versi memorabili, perché è uno degli assi portanti della nostra cultura e identità non solo nazionale, ma anche individuale. Perché è un poeta “popolare”, nel senso migliore del termine, che ha toccato e tocca ogni tipo di pubblico e si rivolge – credo per scelta precisa di Dante stesso – all’universalità dei lettori. Dante non è solo un mito nazionale, ma un eroe dell’umanità intera.