Napoleone e la musica. Storia d’amore e di propaganda, di Francesco d’Alfonso
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Francesco d’Alfonso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Il Settecento e i primi dell’Ottocento.
Il Centro culturale Gli scritti (19/5/2021)
Genio militare e statista, dittatore e leader, Napoleone Bonaparte fu soprattutto un grande comunicatore. O meglio, uno stratega della comunicazione, in grado di sfruttare sapientemente tutti i mezzi che la comunicazione del tempo (lontana più di due secoli dalle odierne dinamiche social) metteva a disposizione di un personaggio impegnato a costruire intorno a sé un eccezionale consenso, strumentalizzando iconografia, immagine e messaggio culturale per accrescere il suo personale prestigio.
«Fu vera gloria?» – si domandava Manzoni ne “Il cinque maggio” – «Ai posteri l’ardua sentenza»: per noi, suoi posteri, Napoleone è il paradigma di un perdente che riuscì a eternare se stesso al di là delle sconfitte e dell’«inestinguibil odio» di cui fu vittima. L’arte è uno dei mezzi di cui egli si servì, e tutta la sua carriera politica e militare fu fatta documentare dagli artisti più celebri, cosicché i suoi ritratti erano ovunque, dipinti o scolpiti, e le fonderie coniavano monete e medaglie commemorative; al tempo stesso, con grande acume, volle che quella stessa folgorante carriera avesse una specifica colonna sonora, in grado di sottolinearne i passaggi decisivi e di renderli immortali.
«Fra tutte le arti belle, la musica è quella che un legislatore dovrebbe più di ogni altra incoraggiare. Una sinfonia profondamente sentita, di autore maestoso, commuove immancabilmente l’animo e ha maggiore risultato di un libro morale, il quale, persuade la ragione, ma non influisce sulle abitudini», scriveva Napoleone, convinto com’era che la musica, mediante il suo linguaggio universale, fosse funzionale all’affermazione del suo potere. E ne fece quindi strumento di propaganda.
Se già durante la Rivoluzione Francese la musica era considerata un elemento coesivo del popolo, ancor più importanza assunse nella visione di Napoleone, che, quando fu proclamato Primo Console, volle circondarsi di musicisti illustri: basti pensare a Giovanni Paisiello (1740-1816) che, dopo l’esperienza pietroburghese alla corte di Caterina II, dopo il passaggio da Vienna – su invito dell’imperatore Giuseppe II – e il ritorno a Napoli, al servizio di Ferdinando IV (poi I delle Due Sicilie), nel 1802 fu chiamato a Parigi come maestro di cappella delle Tuileries, ricevendo uno stipendio di 1000 franchi mensili, oltre ai 4800 per vitto e alloggio.
Napoleone, che già nel 1797 aveva commissionato a Paisiello una Marche funèbre à l'occasion de la mort du général Hoche, diversamente da Caterina di Russia, amava realmente la musica e fu grande mecenate di musicisti, tra i quali preferì sommamente, appunto, il compositore tarantino.
Il nome del musicista figura persino in uno dei tentativi letterari di Napoleone, il romanzetto del 1798 Clisson et Eugénie, dove l’eroina è paragonata al canto dell’usignolo o a «una pagina di Paisiello, che piace soltanto alle anime sensibili, la cui melodia affascina e appassiona le anime fatte per sentirla profondamente, mentre a molta gente sembra banale».
A lui commissionò subito la Messa in pastorale in Sol maggiore e molta altra musica sacra, così come volle che componesse un’opera in stile francese, una trágedie liryque, e Paisiello scrisse la Proserpine, che però non incontrò il gusto dei parigini.
Secondo i cenni autobiografici dello stesso Paisiello, Napoleone gli offrì anche la direzione dell’Opéra e del Conservatoire, che però rifiutò.
Infine, segno dell’immensa stima di Bonaparte, per l’incoronazione imperiale in Notre Dame, il 2 dicembre 1804, a Paisiello fu affidata gran parte della “colonna sonora” dell’evento, la cui pompa è attestata in ogni particolare dal celebre quadro di David, che «trasmette anche l’ethos della cerimonia di celebrazione del Potere fatta dal Potere stesso: un ethos di frigida ostentazione d’una possanza di parvenus» (P. Isotta, Per un bicentenario. Paisiello e il mito di Fedra).
Il resto della Messe du Sacre fu commissionata a Jean-François Lesueur (1760-1837) e all’abate Nicolas Roze (1745-1819), che di Lesueur era stato insegnante di armonia e che, quale bibliotecario del Conservatoire, fu tra i predecessori di Berlioz. Louis Constant Wairy riporta nel suo Recollections of the private life of Napoleon, che per la cerimonia di incoronazione, studiata nei dettagli da Napoleone in persona, furono impiegate due orchestre, quattro cori e numerose bande militari, per un totale di circa cinquecento musicisti.
Ma già nel 1804 Paisiello, colmo di prebende, di onori e con una cospicua pensione, riuscì a ottenere licenza per tornarsene nella Napoli di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat: non fu presente nemmeno all’incoronazione, la cui musica fu diretta da Lesueur, che fu suo successore come maestro della Cappella imperiale; per Napoleone, tuttavia, continuò a comporre anche da lontano, inviando una Messa l’anno per il genetliaco dell’imperatore e tante altre pagine di musica sacra.
Tramontato Napoleone, e tornati i Borboni sul trono di Napoli nel 1815, terminò anche la gloria di Paisiello, che proprio a causa del favore avuto dai Bonaparte fu privato di ogni incarico.
Per il genetliaco dell’imperatore aveva scritto anche un altro genio della musica, Niccolò Paganini (1782-1840), che nel 1807, trovandosi a Lucca alla corte della principessa Elisa Baiocchi, sorella di Napoleone – della quale fu amante – compose la Sonata Napolèon, prima sua opera concepita per la quarta corda.
Intanto Napoleone, anche da imperatore, continuò a incoraggiare una produzione musicale che celebrasse lo splendore del suo impero: si scrivevano soggetti operistici patriottici e guerreschi, marce e inni militari, e fu recuperato persino lo Chant du depart di Étienne Méhul (1763-1810) che, nato come canto rivoluzionario e di guerra nel 1794, divenne l’inno ufficiale del Primo Impero.
Ma proprio a Méhul, così come ad altri musicisti francesi, Napoleone rimproverò di non scrivere come gli italiani, e di mettere nella loro musica «troppa scienza» e «poca grazia». Nel cuore dell’imperatore dei francesi, infatti, il posto d’onore era occupato dalla musica italiana.
Si pensi all’apprezzamento che ebbe verso Gaspare Spontini (1774-1851), il compositore che, a dirla con Paolo Isotta, meglio incarna lo spirito dei musicisti “stile Impero”. Giunto a Parigi nel 1803, il maestro marchigiano riuscì ben presto ad entrare prima nel giro del conte di Rémusat, amico della futura imperatrice Giuseppina e di sua figlia Ortensia, entrambe appassionate di romanze, allora di gran moda nella capitale francese, poi, nel 1805, a essere nominato Compositeur particulier de la Chambre de S.M. l’Imperatrice e a entrare nelle grazie di Napoleone stesso.
La sua opera più importante, La vestale, fu rappresentata a Parigi per la prima volta il 15 dicembre 1807, alla presenza di Giuseppina, poi nel 1810 vinse il Concorso per le Arti, voluto dall’imperatore, come migliore opera rappresentata nel decennio precedente. In effetti La vestale aveva ottenuto un successo strepitoso e fu replicata ben duecento volte: le linee vocali, il perfetto amalgama tra gli italianismi e la sensualità della lingua francese, la scenografia classicheggiante, con templi, aquile imperiali e tutto il resto dell’iconografia dell’antica Roma, costituivano dei riferimenti storico/ideologici in cui Napoleone, la corte e il popolo francese si riconoscevano perfettamente.
Il divorzio di Bonaparte dalla moglie Giuseppina allontanò Spontini dalla sua protettrice ma non dall’imperatore, che gli conservò il suo appoggio, nominandolo direttore d’orchestra del Théatre-Italien de Paris e commissionandogli un’altra opera, di carattere storico-celebrativo, il Fernand Cortez.
Diverso è il caso di Luigi Cherubini (1760-1842), che, presente a Parigi tra il 1794 e il 1799, aderì pienamente allo spirito della repubblica musicando ben undici inni dedicati alle festività della Rivoluzione; il compositore fiorentino però, al contrario di molti suoi illustri colleghi, non aveva affatto l’animo del cortigiano e si disse sdegnato quando – raccontano le cronache – alla fine di un concerto l’altezzoso Bonaparte lo chiamò “signore” e non “maestro” o quando gli rimproverò che la sua musica fosse troppo rumorosa e avesse troppe note: «Tante quante ne occorrono», pare abbia riposto l’arcigno Cherubini, che più tardi, nel 1805, incontrato Napoleone a Vienna dopo la battaglia di Austerlitz, rifiutò persino la sua offerta di seguirlo a Parigi, segno di una evidente stima e ammirazione da parte dell’imperatore.
Ammirazione, del resto, che tutta Europa nutriva per il fiorentino, a cominciare da Ludwig van Beethoven (1770-1827), che lo considerava il massimo compositore vivente, ma che, come Cherubini, ebbe sentimenti contrastanti verso Napoleone. Quando il corso iniziò la guerra contro le potenze dell’Ancien Régime, ribaltando lo scacchiere politico europeo e mettendo in crisi equilibri e forme di potere consolidati ormai da secoli, Beethoven considerò quel generale un liberatore dalla tirannide e un benefattore dell’umanità.
Compose allora la Sinfonia n. 3, la Bonaparte, un’opera che segnò un decisivo momento di rottura nella storia della musica; ma quando l’opera fu data alle stampe nel 1806, l’autore aveva cancellato il nome di Bonaparte dal frontespizio, per sostituirlo con un titolo più generico: Sinfonia eroica, composta per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo. Perché usò il verbo “sovvenire” se nel 1806 Napoleone aveva appena annientato l’esercito prussiano e sembrava invincibile? In quel momento nessuno degli avversari della Francia riusciva a fermare il condottiero corso, ma Beethoven, con quella musica, sembrava invece celebrarne la memoria, come fosse un eroe del passato di cui taceva persino il nome; il Bonaparte cui aveva dedicato la Sinfonia n. 3 era diventato un’altra persona: proclamandosi imperatore, era ormai solo un grande traditore degli ideali della Rivoluzione francese a cui il repubblicano Beethoven aveva fortemente creduto.
La figura di Napoleone, nel bene o nel male, continuò comunque ad affascinare molti compositori che, anche in epoca contemporanea, in diverse occasioni, gli hanno dedicato alcuni lavori; tra essi Arthur Honegger, Zoltán Kodály, Nino Rota e Arnold Schönberg.
Quest’ultimo – compositore ebreo nato a Vienna nel 1874 – nel 1942 portò a termine l'Ode a Napoleone Bonaparte, quando da ormai nove anni viveva negli Stati Uniti, dopo aver abbandonato l'Europa per le campagne antiebraiche. L’opera, per voce recitante, quartetto d'archi e pianoforte, utilizza il testo scritto da Lord Byron nel 1814, quando, alla notizia dell’abdicazione di Napoleone e del suo esilio, lo scrittore inglese scagliò una violenta e impietosa invettiva contro il tiranno caduto. «Byron rimase così deluso dalla rassegnazione di Napoleone che gli riversò addosso lo scherno più feroce: e credo di aver colto questo aspetto nella mia composizione», scrisse Schoenberg alcuni anni dopo.
Nel testo byroniano Schoenberg aveva colto l’occasione simbolica per colpire, nell’immagine della tirannide napoleonica, quella della tirannide hitleriana, auspicandone una fine analoga e creando così un’opera di impegno dichiaratamente civile che può essere considerata uno dei più alti esempi di protest-music del Novecento.
N.B. de Gli scritti
Nel video Napoleone e Roma: storia di un sogno il documentario è accompagnato da brani dei seguenti autori:
- Samuel Barber, Adagio per archi in Si bemolle minore
- Jean-François Lesueur, Marche du sacre De Napoléon
- Niccolò Paganini, Capriccio n. 24 in La minore
- Ludwig van Beethoven, Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore Op. 55 (Eroica): 1. Allegro con brio 2. Marcia funebre: Adagio assai
- Nicolò Paganini, Sonata Napoleone, MS. 5
- Giovanni Paisiello, 6 Quartetti per flauto, violino, viola e violoncello Op.23: Allegro moderato
- Samuel Barber, Agnus Dei op. 11
- Nicolas Roze, Vivat in aeternum