Israele-Palestina, solo una protesta alla Bobby Sands potrebbe aiutare: lo stallo che dura ormai da decenni, anzi che porta la situazione a peggiorare sia nell’assenza di conflitto esplicito come ad ogni nuovo conflitto, di Giovanni Amico
Israele-Palestina, solo una protesta alla Bobby Sands potrebbe aiutare: lo stallo che dura ormai da decenni, anzi che porta la situazione a peggiorare sia nell’assenza di conflitto esplicito come ad ogni nuovo conflitto, di Giovanni Amico
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Carità, giustizia e annunzio..
Il Centro culturale Gli scritti (19/5/2021)
Non c’è dubbio che la Palestina abbia il diritto di diventare una nazione indipendente. Non c’è dubbio a motivo del diritto internazionale e della giustizia umana. Qualsiasi politico israeliano che non si dichiari apertamente favorevole ad un nuovo Stato e non lotti perché questo si realizzi è nel torto. Le continue promesse israeliane, reiterate degli anni, che non si traducono mai in un aiuto concreto, almeno alle zone che non combattono la lotta armata, come la Cisgiordania, sono un segnale chiaro di una mancata volontà di collaborare - che segno sarebbe iniziare ad aprire strade fra i diversi villaggi palestinesi in Cisgiordania, permettendo spostamenti fra di essi liberi e autonomi, e che segnale ancora più grande sarebbe il ritiro da alcuni insediamenti, invece che la costruzione di nuovi!
Ma è altrettanto chiaro che tale indipendenza non può che basarsi sul riconoscimento dell’analoga legittimità dello Stato di Israele da parte palestinese. Per questo – ed è la cosa più ovvia del mondo – ogni azione violenta da parte palestinese è una dichiarazione netta che non è possibile al momento l’esistenza di due stati e che la destra israeliana ha ragione.
È un paradosso reale e concretissimo che la destra israeliana e Hamas siano “alleati” nell’impedire uno sviluppo positivo della situazione.
Hamas è responsabile di tale rinvio infinito e del fatto che venga rifiutata anche solo l’ipotesi di una indipendenza della Palestina. La destra israeliana è responsabile, ma anche Hamas.
Si pensi al lancio, dal nuovo inizio di ostilità violenta al 16 maggio 2021 (fonte adnkronos) di 2.900 razzi da Gaza contro civili israeliani (N.B. del 21 maggio: al momento della tregua sembra che i razzi lanciati siano stati 4.400). Ma come può anche solo ipotizzarsi una Palestina che riconosca la legittimità dell'esistenza di Israele se Hamas ha fatto passare nei tunnel che sono sotto il muro che divide Gaza da Israele un tale numero di armi di contrabbando (non si dimentichi che non c’è solo il muro israeliano, ma anche quello egiziano-arabo, perché l'Egitto sia “difeso” da Gaza e come, nonostante questo muro, i terroristi islamisti del Sinai siano in continuo contatto con la Striscia di Gaza per fornir loro armi)? Se la Palestina fosse un libero stato potrebbe acquistare molte più armi da guerra e tale ipotesi è giustamente inaccettabile per Israele.
Ebbene, si possono spiegare in dettaglio, come fanno i due articoli che seguono, le opposte responsabilità dei politici israeliani e di quelli palestinesi, ma resta il fatto che, anche se dovessero cambiare – come certamente avverrà, poiché l’uomo ha vita breve – i responsabili politici della contesa, solo la nascita di figure pacifiste e insieme capaci di lottare fino alla morte, come Bobby Sands, potranno cambiare in meglio la situazione e permettere di giungere alla sospirata e giusta indipendenza palestinese, mentre ogni atto di violenza o ogni posizione rinunciataria saranno perdenti.
La forza e la determinazione di Bobby Sands permisero di attirare l’attenzione internazionale sull’ingiusto trattamento degli irlandesi in Irlanda del Nord, ma lo fecero evitando di compiere atti di violenza, con lo sciopero della fame protratto sino alla morte.
Quel solo gesto fu più potente di tutta la serie di attentati che l’IRA aveva compiuto per una giusta causa, ma con mezzi assolutamente sbagliati. Servirebbero Bobby Sands palestinesi e israeliani pronti a lottare insieme fino alla morte, senza uccidere alcun avversario.
Solo una svolta pacifica della rivolta ha possibilità di successo e può condurre con sé il coinvolgimento della comunità internazionale. Ogni altro tipo di rivendicazione e di attacco missilistico da entrambe le parti è colpevole della mancata nascita della Palestina libera e indipendente.
Mai Israele permetterà la nascita di uno Stato a lei nemico ai suoi confini. Questa chiarissima determinazione israeliana può essere ritenuta ingiusta, ma non toglie che qualsiasi seria considerazione politica deve avere chiaro tale snodo.
Israele è più forte e solo una protesa alla Bobby Sands lo può piegare e anzi convincere! Le forze positive dello Stato di Israele, se vedessero che la Palestina assume modalità diverse, atteggiamenti diversi, nei confronti dello Stato ebraico, potrebbe – noi crediamo anzi che dovrà – giungere a permettere infine la realizzazione della tanto agognata indipendenza.
Ma se non ci sarà tale svolta pacifica da parte palestinese, non sarà mai possibile tale indipendenza, al di là delle ragioni della protesta. Hamas è la principale alleata della destra israeliana, perché le dà forza – come si può leggere negli articoli che seguono lo è in realtà anche la leadership più pacifica, ma estremamente corrotta dei palestinesi più disponibili a trattare, che sono probabilmente la maggioranza, ma che dovrebbero piegare la testa dinanzi ad Hamas se la Palestina diventasse indipendente.
D’altro canto le gravi responsabilità della destra israeliana sono equivalenti a quelle di Hamas-
Entrambe le parti dichiarano implicitamente che mai e poi mai sarà possibile il riconoscimento di Israele da parte di una Palestina libera e che, quindi, la destra israeliana ha ragione nell’impedirla e anzi nell’occupare via via nuovi territori e nel costruire nuovi insediamenti.
Se, insomma, la nascita di una Palestina realmente libera è un diritto assoluto ed è l’obiettivo che è il primato morale, d’altro canto molto più che l’inedia della leadership palestinese moderata è la violenza di Hamas che obbliga tutta la Striscia di Gaza a commettere violenza e a subirne le conseguenze, ad essere il principale ostacolo anche solo all’ipotesi di una tale indipendenza.
Ci vorrebbe un Bobby Sands. Bisognerebbe far tacere la jihad e far crescere una rivolta pacifica e pacifista. La storia ci ha insegnato che, quando si è militarmente più deboli, solo una rivolta veramente pacifica ha possibilità di successo. Altrimenti non c’è altra prospettiva che lo stallo o, peggio ancora, come sta avvenendo, la riduzione dei territori e il peggioramento delle condizioni di vita. Se nuovi Bobby Sands si levassero da entrambe le parti a collaborare insieme e mettessero a tacere Hamas e la destra israeliana!
La nostra analisi non si limita, come ben si comprende da quanto scritto, a discutere di quanto è giusto e di quanto è ingiusto, ma si pone sul piano di ciò che è possibile politicamente. In politica non conta innanzitutto il giusto, ma il perseguibile concretamente e le vie per realizzarlo.
In Israele e Palestina non ci si può basare solo sulla morale, perché sono in gioco il futuro, la vita e la morte e il realisticamente possibile. Se si dovessero assegnare colpe e responsabilità dall’antico passato ad oggi il conto da far pagare reciprocamente all’altro contendente sarebbe infinito.
Non c’è altra prospettiva del realisticamente possibile e se l’animo di Hamas permarrà quello della violenza ebbene la situazione regredirà ulteriormente.
In Israele e Palestina non c’è altra via d’uscita.
Ci permettiamo di riprendere, di seguito, due articoli che presentano le responsabilità della politica israeliana e della leadership palestinese, così come di presentare alcune chiavi dell’evoluzione del quadro politico israeliano. Ma tali riflessioni non porteranno a nulla senza nuovi Bobby Sands. E se nuovi Bobby Sands non sorgeranno, ebbene per ora non è pensabile sviluppo alcuno.
Come ha scritto in questi giorni su FB un nostro amico, esperto della politica di quei luoghi: «Tre settimane fa Yamina di Naftali Bennett si apprestava a liquidare Netanyau facendo un governo con gli arabi moderati. Tre settimane fa l’Autorità Palestinese si preparava alle elezioni del 22 maggio, le prime dopo 15 anni. Non ci vuole molta fantasia a capire chi è l’artefice - da entrambe le parti - di tutto questo “casino”».
1/ Le elezioni in Israele. Netanyahu aspetta Naftali Bennett. La differenza di voti tra la coalizione del premier e quella dell'opposizione è esigua. Il leader di Yamina ha davanti a sé una scelta importante anche per il suo futuro politico, di Micol Flammini
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Micol Flammini da Il Foglio del 24/3/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Carità, giustizia e annunzio..
Il Centro culturale Gli scritti (19/5/2021)
Ogni elezione israeliana ha il suo ago della bilancia, il suo kingmaker. Questa volta il ruolo spetta al leader di Yamina che dovrà decidere a quale dei due blocchi, tra i pro Bibi e gli anti Bibi, dare il suo sostegno. I rapporti con il premier, le ambizioni e le parole in campagna elettorale
Con quasi il 90 per cento dei voti scrutinati, la coalizione di Benjamin Netanyahu potrebbe arrivare ai 61 seggi necessari per avere la maggioranza, ma soltanto se, in questi calcoli, si include il partito di Naftali Bennett, Yamina. Nei voti che si susseguono nella politica israeliana – quello di ieri è stato il quarto in due anni e c’è chi già invoca il quinto vedendo la frammentazione della nuova Knesset, frammentata quanto la precedente – c’è sempre l’ago della bilancia, il kingmaker, l’uomo con i seggi necessari per cambiare le cose.
Il ruolo è stato interpretato per anni da Avigdor Lieberman, leader di Israel Beitenu, ex ministro dei governi Netanyahu e anche ex membro del Likud. Dopo aver fatto cadere un governo e dopo averne tenuti in ostaggio altri, il ruolo di Lieberman è stato ridimensionato, o meglio: è apparso per quello che è sempre stato. Dopo questo ciclo elettorale a prenderne il ruolo è arrivato Naftali Bennett, leader del partito di destra Yamina, che esce da questo voto con l’assegnazione di 7 seggi.
Bennett è un altro ex, come Lieberman, come Gideon Sa’ar, come Yair Lapid. Hanno tutti fatto parte dei governi di Netanyahu, alcuni di loro (Lieberman e Sa’ar) anche del suo partito, ma nella storia di Bennett c’è anche un elemento personale e familiare: nel 2006 era il capo di gabinetto del premier, ma ha lasciato dopo due anni a causa dei suoi litigi con Sara, la moglie di Netanyahu. Bennett ha detto di essere stato umiliato e allontanato e da quel momento è iniziata la sua ricerca di una nuova casa politica. Prima nel partito Bayit Yehudi, poi, nel 2019, ha fondato il suo Yamina. Ma ex lo è sempre rimasto, anche se fuori dal Likud è stato ministro della Difesa, dell'Istruzione, dell'Economia, degli Affari della diaspora e dei Servizi religiosi, prima di finire nell’ultimo governo, inaspettatamente, all’opposizione. La sorpresa fu grande per lui: fu Bibi a dimostrare di poter fare a meno del suo ex capo di gabinetto formando un governo di unità nazionale con Kahol Lavan di Benny Gantz.
I kingmaker, gli aghi della bilancia, sono spesso piccini, ma è a loro che rimane appesa la formazione di un governo. A questo ruolo Bennett ha giocato sin dall’inizio e adesso potrà decidere se dare al paese un governo “totalmente di destra”, come ha detto Netanyahu, oppure un “governo sano”, come Yair Lapid ha definito un eventuale esecutivo guidato da lui: Yesh Atid è il secondo partito con 17 seggi.
Di critiche Bennett ne ha riservate sia a Netanyahu sia a Lapid, ma è al Likud che ideologicamente si avvicina di più e del premier ha anche la capacità di cambiare campo, di corteggiare elettorati diversi. È in grado di calpestare il confine tra destra religiosa e centro, scrive Haaretz. Ma in questa campagna elettorale è stato molto abile a tirarsi fuori dai due fronti: quello pro Bibi e quello anti Bibi. “Il paese è diviso in due culti”, ha detto, “ho deciso di non appartenere a nessuno dei due. Dobbiamo sostituire Netanyahu non perché lo vuole la setta degli anti Bibi, ma perché ha fallito profondamente. È tempo di dirgli: ciao, grazie, ma ora è il momento di Bennett”.
Il numero degli ex che ha cercato di superare il primo ministro, di prenderne il posto, di accerchiarlo, di sollevarlo, cresce a ogni ciclo elettorale. Mirano tutti ad assumere la sua leadership, anche quando, come ha detto la sondaggista Dahlia Scheindlin al Foglio, è chiaro che si tratti di un atto di hybris. Bennett è ambizioso, come lo è Lieberman, ma il suo Yamina che fino a qualche elezione fa non entrava neppure in Parlamento, è ancora troppo piccolo. “So di aver bisogno di ancora qualche mandato e ci sarò”, ha detto Bennett commentato gli ultimi sondaggi prima del voto a chi gli chiedeva se aspirasse a diventare premier: “Posso farcela”.
Bennett è nato ad Haifa da genitori americani di San Francisco, il suo legame con l’America è un altro tratto che lo unisce a Netanyahu. Ha vissuto a New York prima di stabilirsi in Israele e fondare una start up di sicurezza informatica. L’ha venduta a 145 milioni di dollari, poi si è gettato in politica, accanto a Bibi.
È attorno al premier che gira la sua carriera, è il premier il suo termine di paragone: a un elettorato conservatore si presenta come il rappresentante di una destra pura – più pura di Bibi – e all’elettorato più progressista come il rappresentante di “una destra sana” – più sana di Bibi – con l’ambizione di sostituire un giorno il premier che tutti inseguono.
Ora si trova tra le mani un capitale grande e la possibilità di lasciare in apprensione per un po’ il Likud, Yesh Atid, la Knesset, Israele. È il suo momento e Bennett, che in tanti dipingono come assetato di rivalsa nei confronti della famiglia Netanyahu è un politico più strategico che emotivo: la coalizione anti Bibi si regge soltanto sulla volontà di contrastare il premier, non c’è un programma elettorale condiviso, ma sfumature politiche diversissime, dalla destra di Sa’ar al centro sinistra di Lapid fino alla sinistra di Meretz e Labour. Il fronte pro Bibi ha un programma che Bennett condivide molto di più, forse anche più di Netanyahu, che ieri ha detto di aver parlato con i leader di vari partiti religiosi (Shas, United Torah Judaism e Religious Sionism) e anche con il fondatore di Yamina. Che ha soltanto risposto: “Farò ciò che è nell’interesse di Israele”.
2/ A chi fa comodo il rinvio delle elezioni palestinesi, di Amira Hass
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Amira Haas pubblicato sul quotidiano israelaino Haaretz e tradotto su Internazionale il 7/5/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Carità, giustizia e annunzio..
Il Centro culturale Gli scritti (17/5/2021)
La decisione di rinviare a data da destinarsi le elezioni generali palestinesi, annunciata il 29 aprile dal presidente palestinese Abu Mazen, mostra che lui e il suo gruppo di sodali del partito Al Fatah, dai quali si fa consigliare, sono più fedeli all’interesse d’Israele di preservare lo status quo e impedire qualunque scossone o cambiamento.
Rinviando le elezioni per il Consiglio legislativo palestinese (l’organo legislativo istituito dall’Autorità nazionale palestinese), previste per il 22 maggio, i leader del partito mostrano che l’opposizione di Israele allo scrutinio (il primo per i palestinesi dal 2006) ha un peso maggiore del parere del 93 per cento dell’elettorato, che si è registrato per votare, mostrando chiaramente di desiderare un processo democratico.
Lo status quo, paradossalmente, non è questo: cambia costantemente, a scapito dei palestinesi, in quanto popolo e in quanto individui, e a favore dell’appropriazione delle loro terre e delle loro case da parte di Israele.
Ma questo status quo fasullo permette al fossilizzato movimento di Al Fatah di restare attaccato a posizioni di potere economico, amministrativo e politico nelle enclave della Cisgiordania controllate dall’Autorità nazionale palestinese (Anp). Permette a funzionari non eletti (che contano sul loro glorioso passato di combattenti contro l’occupazione, in esilio o nei territori palestinesi conquistati da Israele nel 1967, o che hanno vinto elezioni da tempo scadute) di continuare a sviluppare e mantenere una classe di alti impiegati statali e di signori implicati nel business della sicurezza. E gli permette anche di continuare a controllare molte iniziative nel settore privato, promuovendo e dando la preferenza ai loro soci e amici fidati.
Una certa stabilità
La rigorosa fedeltà dei leader di Al Fatah e dell’Anp agli accordi di Oslo, e in particolare alla cooperazione con Israele in materia di sicurezza, mantiene una certa stabilità nella regione. Questa fedeltà a sua volta si traduce in donazioni e finanziamenti da parte della comunità internazionale che – anche se ridotti negli ultimi anni – sono ancora importanti per il funzionamento dell’autorità.
Questa stabilità, più propriamente nota come sicurezza di Israele a spese della sicurezza e dei diritti dei palestinesi, è importante per i paesi donatori, guidati dall’Unione europea e dagli Stati Uniti, che sotto il presidente Joe Biden hanno ripreso il sostegno economico ai palestinesi. L’Unione europea può anche aver espresso il suo supporto per elezioni democratiche e promesso di impegnarsi affinché il voto abbia luogo, ma è più difficile vederla usare la sua influenza contro l’Anp, sospendendo l’aiuto economico, una volta che il voto è stato cancellato. È lo stesso bastone che l’Unione europea ha usato contro i palestinesi in passato, dopo l’ascesa al potere di Hamas nel 2006.
Un’elezione palestinese è un male per Israele, ed è un male per la classe dirigente palestinese non eletta, per i seguenti motivi: ha avuto il potenziale di causare alcuni cambiamenti, soprattutto per quello che riguarda la spaccatura nel governo tra la Striscia di Gaza e le enclave della Cisgiordania. In fin dei conti questa spaccatura è stata il fulcro della politica israeliana dal 1991 in poi. Una campagna elettorale significa scambio di idee, espressione di dissenso e dibattiti e discussioni costanti che supererebbero i limiti della censura interna imposta da Abu Mazen.
In una campagna elettorale del genere anche Israele sarebbe sotto una lente d’ingrandimento internazionale, per vedere fino a che punto arriverebbe nel sabotaggio delle elezioni con arresti o con la censura delle opinioni contrarie alla posizione ufficiale di Al Fatah. Un’elezione con 36 partiti in corsa garantisce sorprese, cambiamenti non pianificati e nuove coalizioni. Ci sono 1.400 candidati, tra cui 405 donne e il 39 per cento con meno di quarant’anni, in lizza per 132 seggi. Questo avrebbe assicurato un parlamento più giovane, in cui i legislatori avrebbero dovuto dare ascolto ai propri elettori.
Le questioni che affliggono il pubblico palestinese riguardano la corruzione e il clientelismo, gli accordi di Oslo, la cooperazione in materia di sicurezza mentre Israele amplia costantemente le colonie, la mancanza di trasparenza e dell’obbligo di rendere conto del proprio operato da parte di chi comanda, l’impotenza di fronte alla violenza dei coloni, e la questione della fondazione di uno stato in un contesto di debolezza politica. In un simile parlamento tutti questi temi avrebbero avuto l’opportunità di essere affrontati.
Un involucro vuoto
Non è affatto sicuro che Hamas sarebbe stato il principale beneficiario di queste elezioni. La sua lista probabilmente sarebbe diventata la più rappresentata in parlamento, ma non con una maggioranza tale da permettergli di formare una coalizione.
Due liste dissidenti di Al Fatah, in aggiunta a quella ufficiale, avrebbero potuto prendere i voti dei sostenitori del partito stufi del governo di Abu Mazen che nel 2006 scelsero Hamas con un voto di protesta. Le tre formazioni, insieme ad altre che si oppongono all’islam politico, sarebbero potute diventare una forza dominante nel nuovo parlamento e formare una coalizione, ma senza il dominio assoluto di Abu Mazen c’è un vuoto assoluto, che conviene anche a Israele.
Il rinvio delle elezioni per il Consiglio legislativo palestinese ritarderà anche il tentativo di ripristinare il Consiglio nazionale palestinese, che dovrebbe rappresentare l’intero popolo palestinese, sia qui sia in esilio. La terza fase del voto, dopo l’elezione del presidente, sarebbe dovuta essere l’elezione del Consiglio nazionale, il parlamento dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), mentre i rappresentanti del Consiglio legislativo sarebbero stati automaticamente inclusi.
Negli ultimi anni gli appelli per risuscitare questa istituzione pan-palestinese si sono moltiplicati, rappresentando uno dei tentativi per restituire all’Olp il suo status di organo che detta la linea politica palestinese. Durante gli anni di Oslo la situazione si è capovolta e l’Anp, che sulla carta è subordinata all’Olp, è diventata l’istituzione politica principale, facendo dell’Olp un involucro vuoto.
All’interno dell’Anp Al Fatah è il movimento dominante, e Abu Mazen e una ristretta cerchia di suoi sodali sono gli unici decisori. Per Israele è molto conveniente che la politica palestinese sia guidata da un piccolo gruppo di alti funzionari i cui privilegi e il cui futuro economico – loro e delle loro famiglie – sono tenuti in ostaggio da Israele.
Un’alternativa per Gerusalemme
Nelle ultime settimane, man mano che si avvicinava l’inizio della campagna elettorale, fissata per venerdì 30 aprile, il mantra “Niente elezioni senza Gerusalemme” è stato espresso sempre più insistentemente dai sodali di Abu Mazen, mentre Israele evitava di dare il suo assenso ufficiale allo svolgimento del voto a Gerusalemme. Il 28 aprile Mahmoud Aloul, leader della lista di Al Fatah e vice di Abu Mazen, ha dichiarato che tenere delle elezioni senza Gerusalemme sarebbe stato un tradimento e un crimine.
Lui e altri hanno totalmente ignorato un’opzione diversa dalla cancellazione delle elezioni, proposta più volte da altri partiti: trovare dei modi per organizzare il voto a Gerusalemme Est senza l’approvazione ufficiale di Israele. Per esempio, allestendo dei seggi elettorali negli edifici dell’Onu, nelle chiese e nelle moschee, compresa Al Aqsa, e andare casa per casa con un’urna elettorale, oppure istituire altri seggi nelle zone del governatorato di Gerusalemme che non sono state annesse a Israele.
Aloul e Abu Mazen hanno parlato con il loro tipico disprezzo delle persone che hanno avanzato queste proposte, come se le elezioni a Gerusalemme fossero per loro una questione meramente tecnica. Hanno completamente ignorato l’aspetto sovversivo di queste proposte: frantumare l’illusione della normalità a Gerusalemme e lanciare una campagna di resistenza popolare attraverso l’atto stesso di far votare i palestinesi di Gerusalemme Est in qualunque modo possibile.
Abu Mazen, Aloul e molti dei loro fedelissimi non hanno spiegato perché fosse necessario attendere l’approvazione israeliana per il voto di Gerusalemme Est, e dunque arrendersi al veto israeliano alle elezioni. Il loro silenzio espone una tipica ipocrisia: gli alti funzionari di Al Fatah e dell’Anp elevano sempre a proprio modello la “lotta popolare”, in contrasto con lo slogan della lotta armata. Non sfruttare questa opportunità dimostra quello che tutti sanno: i leader di Al Fatah non credono nella lotta popolare, non gli interessa, e sicuramente non sono interessati a guidarla.
Prima che l’atteso rinvio delle elezioni fosse annunciato, chi si opponeva alla decisione ha espresso la propria posizione in molti modi, oltre che sui social network: incontri su Zoom, interviste con mezzi d’informazione indipendenti, una manifestazione a Gaza dei sostenitori della lista indipendente di Mohammed Dahlan e una veglia in piazza Manara a Ramallah.
La notte del 29 aprile, dopo l’annuncio ufficiale del rinvio delle elezioni, a Ramallah alcune centinaia di persone, tra cui un gruppo di sostenitori della lista indipendente, sono uscite per contestare la decisione.
La settimana precedente, Mahmoud Dudin, che insegna diritto all’università di Birzeit, ha affermato che il rinvio delle elezioni da parte del potere esecutivo viola la costituzione palestinese. Durante un incontro su Zoom promosso da Masarat, il centro palestinese per la ricerca politica e gli studi strategici, uno dei principali enti indipendenti che si batte contro la scissione politica palestinese e sostiene un dibattito critico su come trovare una via d’uscita dallo status quo, Dudin ha dichiarato che il rinvio del voto è una competenza esclusiva della Commissione elettorale centrale, a condizione che fornisca motivazioni convincenti. Secondo la commissione sarebbe possibile tenere le elezioni a Gerusalemme anche senza il permesso ufficiale di Israele, ha detto Dudin. Ma il 29 aprile la commissione elettorale ha comunicato la sospensione dell’intero processo elettorale.
Secondo Dudin l’opinione pubblica palestinese ha due opzioni: una è presentare delle petizioni alla Corte suprema palestinese contro la decisione di rinviare/cancellare le elezioni. Ma le possibilità di successo sono scarse perché il sistema giudiziario e i magistrati sono stati nominati dalla leadership politica (cioè da Abu Mazen) e sono suoi prigionieri, ha affermato Dudin. La seconda opzione è “rivoluzionaria”: una disobbedienza civile che creerebbe “una legittimità rivoluzionaria, l’equivalente di una legittimità costituzionale, e uno strumento per ripristinarla”.
È difficile immaginare che 35 partiti possano ignorare l’ordine di cancellare/rinviare le elezioni e continuare a prepararsi al voto come se niente fosse. Ma il semplice fatto di avanzare questa idea in pubblico riflette l’enorme distanza tra l’opinione pubblica palestinese e i suoi alti funzionari non eletti. Sulla scia di questa decisione e della generale avversione che ha incontrato, sarà difficile vedere la lista ufficiale di Al Fatah candidata in una qualsiasi elezione generale nel prossimo futuro.
(Traduzione di Francesco De Lellis)