Roma è una città antiquata o provinciale dinanzi alle altre metropoli europee o mondiali? Qual è l’identità di Roma? Che idea di città per Roma? Di un’intuizione di Roma, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (11/4/2021)
A prima vista potrebbe sembrare che Roma sia una città obsoleta, rispetto ad altre città come New York o Londra o Pechino. Potrebbe anche sembrare una città provinciale, già dinanzi alla stessa Milano, molto più aperta al resto dell’Europa, dal punto di vista economico e professionale.
Ne potrebbe discendere l’idea della necessità di un totale rinnovamento, di una palingenesi, di una rifondazione, quasi a volerla nuova, con grattacieli e industrie da creare ex novo, rincorrendo altre metropoli apparentemente ben più affermate e moderne.
Ma veramente Roma non è moderna? Veramente Roma è provinciale? Questa è la grande questione. E perché Roma è detta città eterna, mentre non lo sono New York o Londra? Qual è il dono peculiare di Roma che la rende moderna, anche se di una modernità diversa a tal punto da essere “eterna”, unica rispetto a tutte le altre città del mondo? Cosa insegna la sua storia alla modernità e alla post-modernità? Perché Roma è luce per il mondo intero?
Non c’è dubbio su questo: la modernità di Roma consiste nel mostrare con la sua storia e con il suo presente quanto sia illusoria l’affermazione di coloro che si credono grandi e che confondono la modernità con la vera novità. Basta passeggiare qualche minuto per le rovine dei Fori ed accorgersi a cosa si è ridotto l’Impero romano che pretendeva di essere il sole dell’universo, la modernità che conferiva senso alla terra intera: di Augusto, di Nerone, di Marco Aurelio, di Decio, di Valeriano, sono rimaste solo pietre, solo “rovine”.
Ecco la forza di Roma. Essa ha elaborato nei secoli un antivirus che la rende inattaccabile da qualsivoglia trionfatore, dittatore, o benpensante autorità che si proponga come decisivo nella storia.
Il romano è, di fatto, scanzonato, capace di ironia, pronto a smontare ogni pretesa e ogni sicumera eccessiva.
Roma è la città che è eterna perché ha il grande antidoto contro ogni progetto palingenetico. Ogni autorità che proponga una nuova “nascita” (una “palingenesi” appunto), una rifondazione ex novo, un cambiamento fin dalle radici dell’esistente, si troverà sempre dinanzi un romano che la guarderà e sorriderà dicendogli: “Aho! Ma chi te credi de esse?”
Alcuni grandi attori romani, come Carlo Verdone o Alberto Sordi, hanno impersonificato questa anima romana che è saggia, autentica e vera.
Questo essere scanzonati, Roma lo porta con sé come un tesoro, anche dinanzi al suo secondo grande tesoro che è la presenza in lei della fede cristiana e, in particolare, del papa, del successore di Pietro, che la accompagna dalle origini del cristianesimo, da 2000 anni (e già questo è impressionante, il romano è abituato a ragionare per secoli e millenni, non per anni: cosa resterà dei potenti di grido fra 100 anni?).
Anche dinanzi al pontefice, il romano ripete i suoi modi di dire: “Morto un papa, se ne fa un altro”. Che vuol dire che ciò che è eterno è il papato, è la Chiesa, è Cristo, non il singolo rappresentante della Chiesa stessa.
Ma, si noti bene, questo non vuol dire, per Roma, il tradizionalismo o l’immobilismo!
Questa capacità di relativizzare, tipica di Roma che sempre confronta il transitorio e l’eterno, è non solo modernissima, assolutamente più moderna della modernità che si sente invece immortale, ma è anche ciò che la porta ad apprezzare ogni papa, a seguirne i suoi passi, a rinnovarsi progressivamente.
È ciò che la porta a rifarsi nuova, almeno in qualche suo tratto, in qualche opera di carità e di urbanistica, ad ogni Giubileo.
È ciò che la porta con i suoi Concili a rinnovare il mondo.
Ma è il tesoro anche dei romani non credenti che, a volte senza nemmeno esserne consapevoli, vivono in una città che è stata decisiva nella nascita della vera laicità: il conflitto e il dialogo fra la fede e la ragione - che sono come due sorelle - sono all’origine del lavoro di chi mai pretende di eliminare l’una o l’altra - la ragione o la fede - e perciò cammina a piccoli passi, illuminando le altre culture che non hanno ancora chiarificato quale sia il rapporto fra queste due sorelle.
Roma ama chi è realista, chi indica la strada con passi semplici, percorribili.
Roma cammina così, non con svolte palingenetiche, ma ai passi del tempo e della storia, perché conosce il peso della storia, conosce quanto siano effimeri gli sbandieramenti palingenetici di qualsiasi ideologia. E conosce cosa resta saldo nei secoli e cosa non passerà mai.
Per questo Roma è vera nei suoi quartieri, nella sua carità, nelle sue parrocchie, nelle sue università, nelle sue piazze, nel suo turismo, nelle sue scuole e licei, nel suo amore per l’arte, per il cibo e per la vita.
Roma si offre, bellissima, ma anche sorniona e interrogante e questionante.
È questo il frutto della sua storia unica, del suo tessuto vitale, che vive non solo nel suo centro, ma anche nelle sue periferie. Roma è una città che conosce da sempre cosa sia la vera integrazione, iniziata in età imperiale e proseguita con la Chiesa, dove i popoli diversi e le persone di ogni etnia si sono sempre stretti la mano e hanno rinnovato le loro nazioni a partire dal germe presente nell’urbe (si pensi solo alla Fontana dei quattro fiumi che dice quanto Roma abbia trasformato nei millenni i diversi continenti con i suoi uomini inviati in tutti gli angoli della terra).
Non sarebbe di vero aiuto a Roma chi pensasse di rinnovarla con progetti futuristici, con quartieri avveniristici che sostituissero la trama stratificatasi dei suoi quartieri. Tutti i disastri urbanistici in Roma sono avvenuti proprio quando si sono impostati piani per nuovi quartieri con progetti calati dall’alto, vuoi di origine fascista come ispirati alle architetture socialiste, e solo il lento lavorio sia delle parrocchie che dei comitati di quartiere laici ha pian piano cercato di risanare questi interventi astratti.
Per questo Roma ha un antivirus, anzi Roma è un antivirus, un antivirus contro chi pensa di riprogettare le cose a tavolino in chiave palingenetica. È un antivirus di cui ha bisogno il mondo intero, il mondo moderno, per essere sempre di nuovo realista e per comprendere, sempre di nuovo, che cosa regge al passo del tempo, dei secoli e dei millenni.
Il romano ne ha viste tante e ogni volta, in maniera sorniona, ricorda la domanda: “Cosa ne sarà fra cent’anni?” Fra cent’anni, nessuno dei politici oggi viventi, dei giornalisti oggi viventi, dei preti oggi viventi, dei professionisti oggi viventi, sarà ancora vivo. Roma sa che l’uomo è mortale e che mortali sono le sue idee: questa modernità non le sfugge mai di mente.
Anche la sua tiepidezza dinanzi ad eventi rivoluzionari del passato non deve essere imputata al fatto che Roma non condividesse progetti democratici o unitari. Piuttosto essa sapeva bene quanta protervia era nascosta nelle modalità concrete che avvertiva in coloro che portavano avanti in maniera palingenetica quei progetti. Essa intuiva che, se essi non fossero stati mitigati dalla sapienza antica e cristiana, sarebbe stato un disastro.
Pensate, solo per fare un esempio, a cosa debbono aver pensato i romani di allora quando, all’arrivo delle truppe francesi rivoluzionarie alla fine del settecento, si videro cambiare il calendario in pochi giorni e abolire la domenica, con la sostituzione della settimana con le decadi. Videro cacciare il papa da San Pietro perché egli venisse poi lasciato morire appena passate le Alpi. Videro trafugate tutte le opere d’arte più belle di Roma a Parigi solo perché il Louvre doveva diventare il “Museo universale” e raccogliere le principali opere di tutta la terra che gliele avrebbe dovuto consegnare. I romani capirono subito che quel progetto era palingenetico e quindi pericoloso ed effimero.
Roma assomiglia all’autore del libro del Qohelet, testo modernissimo: Roma annuncia a tutti che tutto è vanità di vanità.
Ma Roma ama questa “vanità” che è la vita umana, come peraltro la ama il libro del Qohelet. Roma sa che, alla resa dei conti, proprio come insegna la finale di quel libro, resta l’uomo dinanzi al timore di Dio.
Qohelet è scettico, ma al contempo credente. Scettico sull’uomo che si crede sicuro di sé e pretende di essere da solo la luce della storia. Credente dinanzi a ciò che è eterno e che non muta di generazione in generazione. Roma è scettica dinanzi a tutti i potenti e a chi si propone come una divinità, mentre rispetta il timore di Dio e non lo dimentica, anche quando se ne fa beffe.
Roma sa che l’uomo è sempre lo stesso, che i suoi anni sono pochi, brevi e contati, e che però egli ha nel suo cuore un anelito all’infinito, come dice l’antico libro: «Dio ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine» (Qo 3,11).
Ecco un’idea di Roma. E non è poco.