Una dittatura militare comunista in Myanmar e la prigionia di Aung San Suu Kyi 1/ Nel gesto di pace di suor Ann il Myanmar che vuole libertà, di Gerolamo Fazzini 2/ Come è nata la dittatura di Myanmar, di Piero Gheddo 3/ È davvero finito il pericolo comunista?, di Piero Gheddo
1/ Nel gesto di pace di suor Ann il Myanmar che vuole libertà, di Gerolamo Fazzini
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gerolamo Fazzini pubblicato su Avvenire del 2/3/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Laicità e diritti umani e Il novecento: il comunismo.
Il Centro culturale Gli scritti (10/3/2021)
Chissà se un giorno, sui libri di storia, verranno pubblicate le straordinarie immagini di Ann Nu Thawng, provenienti dal Myanmar blindato e rimbalzate nelle ultime ore in Occidente grazie ai social.
Sono foto di domenica, in cui si vede una sconosciuta suora-coraggio per le vie di Myitkyina, capitale dello Stato Kachin, estremo Nord del Paese. La religiosa si prostra, piangendo, davanti a un plotone di poliziotti in assetto d’attacco. Poi, restando in ginocchio, solleva lo sguardo, fissando gli uomini in divisa, minacciosamente schierati a pochi metri da lei; quindi alza le mani in segno di pace, chiedendo di smettere di arrestare i manifestanti.
Sul suo account Twitter il più autorevole uomo di Chiesa del Paese, il salesiano Charles Maung Bo, cardinale di Yangon, ha postato le immagini e le ha fatte così conoscere al mondo, affermando che, grazie al gesto di suor Ann, un centinaio di persone sono riuscite a sottrarsi all’arresto.
Quelle immagini – scattate nel giorno più buio, sin qui, della repressione militare della protesta in Myanmar – ci rimandano a un’altra scena, entrata nella memoria collettiva: l’indimenticabile immagine del giovane cinese che affronta, disarmato, i carri armati in Piazza Tiananmen nel fatidico giugno 1989. Davide che sfida Golia, a mani nude.
L’energia misteriosa della non violenza che non si piega alla brutalità dei violenti. È la sintesi di quanto sta avvenendo, da un mese in qua, per le vie delle città del Myanmar: il popolo che si ribella alla prepotenza dei militari affidandosi alla disobbedienza civile. È il potere dei senza potere che urla al mondo la sua voglia di cambiare.
Dopo le Primavere arabe che hanno infuocato Nordafrica e Medio Oriente, le rivolte popolari in Turchia, le proteste dei giovani (e non solo) che da tempo si protraggono in Hong Kong, ora è l’ex Birmania che interpella la comunità internazionale e chiede solidarietà per la causa dei non violenti.
Le immagini di sister Ann Nu Thawng sono l’icona più bella, il segno più tangibile, della sete di pace che anima tutto il popolo del Myanmar. Pochi giorni fa i vescovi dell’ex Birmania lo hanno espresso in un documento comune, dai toni molto forti: «Le immagini di giovani che muoiono sulle strade colpiscono il cuore e feriscono la coscienza di una nazione. Questa nazione è reputata e chiamata come 'il Paese dorato'. Fate che il suo sacro suolo non sia imbevuto del sangue dei fratelli. Le lacrime delle madri non sono mai state una benedizione per nessuna nazione». Non si sottolineerà mai abbastanza come le parole dei vescovi riassumano il sentire di un intero popolo.
Nelle passate settimane abbiamo assistito allo spettacolo – inusuale in Myanmar – di un Paese, composto da ben 135 componenti etniche, che si solleva in maniera unitaria contro gli autori del golpe che ha estromesso dal governo Aung San Suu Kyi, la leader democratica premiata dal voto popolare del novembre 2020.
Un Paese dove monaci buddhisti sfilano per le stesse strade nelle quali si sono riversati preti cattolici, suore e seminaristi, insieme a una moltitudine di giovani. Nulla di tutto questo è scontato. I rapporti tra cattolici e buddhisti sono rimasti tesi per decenni. Nel 1961, l’anno prima dell’arrivo al potere dei militari, padre Stefano Vong, missionario cattolico di origine cinese Vong venne ucciso da un bonzo buddhista, invidioso del successo che la predicazione del sacerdote andava suscitando.
E anche oggi a Kentung (la diocesi di Vong) un’imponente statua di Buddha continua a stagliarsi verso il cielo, dando le spalle, in segno di offesa, alla cattedrale cattolica che si erge a poca distanza.
Oggi il clima è cambiato. Il desiderio di libertà e democrazia accomuna credenti di religioni diverse. Non possiamo assistere inerti a uno spettacolo del genere, men che meno dopo che l’ambasciatore birmano all’Onu, Kyaw Moe Tun, è stato sollevato dall’incarico dai militari. La sua colpa: aver chiesto l’aiuto della comunità internazionale.
2/ Come è nata la dittatura di Myanmar, di Piero Gheddo
Riprendiamo dal sito gheddopiero.it un articolo di padre Piero Gheddo, pubblicato nel settembre 2007 su Avvenire. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Laicità e diritti umani e Il novecento: il comunismo.
Il Centro culturale Gli scritti (10/3/2021)
Nel dopo guerra, quando i governi europei concedevano in Asia l’indipendenza alle loro colonie, nel sud-est asiatico la Birmania sembrava il paese più fortunato, evoluto, ricco di materie prime e di terre. Già nel 1937 il governo di Londra concedeva alla Birmania l’autonomia dal dominio inglese in India e le classi colte e intellettuali si preparavano all’indipendenza.
Ma erano le élites birmane (il 72% della popolazione), mentre le popolazioni tribali preferivano il dominio inglese, che aveva concesso loro ampia autonomia rispetto alla vera Birmania.
Dal 1946 vari incontri fra le due parti si concludono col patto che dieci anni dopo l’esperienza dello stato indipendente, le singole etnie potevano uscire dalla Federazione birmana e costituirsi in stati separati. Il 4 gennaio 1948 nasce l’Unione Birmana e si ribellano i due partiti comunisti, “della bandiera rossa” (staliniano) e “della bandiera bianca” (maoista), in lotta contro lo stato: volevano una democrazia popolare e non parlamentare.
Poco dopo, anche le minoranze tribali entrano in campo perché, dicevano, il governo federale non rispettava le promesse: infatti, dominato dai birmani, dimette i loro capi (saboà), “birmanizza” l’esercito nazionale licenziando i loro militari e soprattutto privilegia il buddhismo per portare i tribali nella “sangha” (comunità buddhista). Così nasce “la guerra cariana” (1948-1953), combattuta non solo dai cariani. Una guerra crudele e sanguinosa, che minaccia l’unità nazionale anche perché i ribelli si alleano con i due partiti comunisti, uniscono le forze e riescono a liberare alcune regioni e anche la loro capitale Toungoo (cioè “Kawthule”, gennaio 1949), puntando poi su Rangoon.
L’esercito nazionale alla fine prevale, si fanno diversi accordi, ma la guerra ristagna: i tribali occupano buona parte delle loro regioni, il governo tutta la parte pianeggiante abitata dai birmani. Ma ogni tanto scoppiano scontri armati, il paese non è tranquillo. I cariani erano orientati dalle élites battiste, che predicavano la guerra contro i birmani, mentre i cattolici volevano la pace; qui nasce la prima “persecuzione” dei cattolici, nella quale vengono uccisi tre missionari del Pime, Mario Vergara e Pietro Galastri (1950), Alfredo Cremonesi (1953).
Il governo democratico della Birmania delega diversi poteri alle forze armate, fin che, nel 1962, il generale Ne Win destituisce il primo ministro U Nu, promettendo di riportare l’ordine e instaurando una “democrazia popolare” sul modello sovietico. Infatti, nazionalizza le terre e le attività economiche, requisisce le scuole e le strutture sanitarie delle missioni cristiane e nel 1966 espelle tutti i missionari stranieri entrati nel paese dopo il 1948 (30 italiani del Pime): tutto è dello stato.
Occorre chiarire la natura della “dittatura militare”, che non è solo militare. Il regime fin dall’inizio si dichiara ateo e vuole instaurare un “socialismo birmano” e “di ispirazione buddhista”, che in realtà è un autentico comunismo e porta alla dittatura del partito e alla miseria: nel 1948 la Birmania era “il granaio dell’Asia”, esportava riso, oggi a mala pena basta a se stesso.
Fra alterne vicende, i “militari-socialisti” sono ancora al potere, anche se, dopo la rivolta studentesca del 1988, sono stati costretti a convocare le elezioni nel 1990, vinte dalla figlia del “Padre della patria”, Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace. I militari non riconoscono la sua vittoria (il loro partito aveva solo il 10%), lei non ha mai governato e i suoi deputati eletti, metà sono fuggiti all’estero, metà uccisi o in carcere.
Il regime birmano da più di dieci anni è soggetto alla Cina. Un testimone oculare mi scrive: “I militari stanno costringendo i contadini a coltivare l’oppio per loro e fanno della Birmania il maggior esportatore del mondo… Oggi la Cina rifornisce i militari di armi per ripagare i legni pregiati, i minerali, il gas e il petrolio; costruiscono strade, ci inondano dei loro prodotti”. I cinesi sono già in Birmania, “colonizzano” e modernizzano alcune regioni tribali di confine. I buddhisti sono la maggior forza d’opposizione: se non riesce le loro ribellione pacifica, per Myanmar si aprono scenari ancora più cupi: potrebbe diventare, per interposto governo “locale”, una provincia cinese. I governi europei e quello italiano cosa fanno?
3/ È davvero finito il pericolo comunista?, di Piero Gheddo
Riprendiamo dal sito gheddopiero.it un articolo di padre Piero Gheddo, originariamente pubblicato nel 2007 su Il Timone. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Laicità e diritti umani e Il novecento: il comunismo.
Il Centro culturale Gli scritti (10/3/2021)
Nel mondo sono attive circa trenta guerre o guerriglie. La più interminabile è la guerra civile in Birmania, che dura dal 1948, anno dell’indipendenza dall’Inghilterra, quando le tribù minoritarie (28% dei 50 milioni di abitanti) si sono ribellate al governo dei birmani chiedendo l’indipendenza o il federalismo.
Non è coinvolto l’Occidente cristiano, quindi non interessa la stampa italiana. Nel 1962 la Birmania (dal 1989 si chiama “Myanmar”) è sotto la dittatura militar-socialista, venuta alla ribalta dell’attualità nel 1989 col Premio Nobel per la Pace signora Aung San Suu Kyi. Dopo non se ne parla quasi più.
Interessante l’ideologia che ha generato il “socialismo birmano ispirato al buddhismo”, staliniano e dichiaratamente ateo. Fra i paesi comunisti sopravvissuti al crollo del muro di Berlino non si nomina mai la Birmania, il cui regime è ben descritto dalla sua Carta costituzionale: “The Philosophy of the Burma Socialist Programme Party”, pubblicata il 17 gennaio 1963, con la dichiarazione programmatica del Consiglio Rivoluzionario intitolata “The burmese Way to Socialism”, “La via birmana al socialismo”, nel quale si legge[1]:
L’uomo è il più importante di tutti gli esseri, è l’”Essere Supremo”. Al posto di dio (il dio di qualsiasi religione compreso Buddha come dio del buddhismo), bisogna mettere l’Uomo. La filosofia del nostro partito è una dottrina puramente mondana e umana. Essa non è una religione. La storia dell’umanità è non solo storia di nazioni e di guerre, ma anche di lotta di classe. Il socialismo intende mettere fine a questo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’ideale del socialismo è una società prospera, ricca, fondata sulla giustizia. Non c’è posto per la carità. Noi faremo di tutto, con metodi appropriati, per eliminare atti e opere di falsa carità e assistenza sociale. Lo stato pensa a tutto.
Nutrire ed educare i figli dei lavoratori sarà esclusiva responsabilità dello stato, quando ci saranno abbastanza risorse economiche. L’attività di imprese sociali fondate sul diritto di proprietà privata è contro natura e non fa che sfociare in antagonismi sociali. La proprietà dei mezzi di produzione deve essere sociale. Un’azione può essere considerata come retta, morale, solo quando serve agli interessi dei lavoratori. Per un uomo, lavorare tutta la vita per il benessere dei suoi concittadini e per quello dell’umanità in spirito di fratellanza è il “Programma delle Beatitudini” per la Società dell’Unione Birmana.
In base a questi principi il governo ha nazionalizzato le banche, le industrie, le piccole e medie aziende artigianali, i negozi, le terre, i giornali, le radio, gli alberghi e i ristoranti; e poi le scuole e il sistema sanitario. Il 31 marzo 1964 è la volta delle scuole cristiane e un missionario scriveva[2]:
Il governo, dichiarando sue tutte le scuole private si è appropriato pure dei fabbricati, del denaro, delle terre e perfino delle automobili e dei pullman che trasportavano gli alunni alle scuole. Naturalmente il governo non dà alcun compenso, mentre i debiti restano a carico degli antichi proprietari.
Il giornale governativo “The Guardian” così giustifica questa decisione del governo: “L’educazione è il fatto sociale più importante per trasformare la società e orientarla al socialismo, per raggiungere uno stato economicamente giusto e fiorente contemplato nel piano detto ‘La via birmana al socialismo’. In tale società l’educazione deve essere diretta ai bisogni della società e condurre a promuovere non solo pensieri, abitudini, ma anche tutto un modo di vita conforme alla ‘Via birmana al socialismo’. Bisogna perciò impartire una educazione che sia uniforme non solo nei programmi, ma anche nella qualità in tutte le scuole dell’Unione Birmana”.
Il governo si dichiara “socialista” ed esclude di essere un comunismo sovietico o maoista, ma professa il materialismo, nega l’esistenza dell’anima umana, insegna che tutti i fondatori di religione sono decaduti, introduce l’insegnamento dell’ateismo e della filosofia marxista nelle scuole; e assume come verità indiscussa che la proprietà è un furto per cui tutto appartiene al popolo, cioè al partito “socialista birmano” che esprime gli interessi del popolo, coordinando ogni cosa al “bene sociale”. Il regime è detto “Lanzin”, cioè “la via” al socialismo birmano: si tratta di una preparazione remota al vero socialismo il cui avvento si prospetta in un lontano futuro.
Il testo costituzionale rivela chiaramente la mentalità, la strategia per la trasformazione della società in senso socialista che i regimi comunisti perseguono dove ancora sopravvivono (Cina, Corea del nord, Vietnam, Cuba, ecc.). Ma è facile notare che queste intenzioni dichiarate in favore delle “scuole statali” e contro le “scuole private” portano all’imposizione graduale del “pensiero unico” fin dalla più tenera infanzia (i figli appartengono allo stato, non alle famiglie!), togliendo all’uomo il tesoro più bello che Dio gli ha dato: la libertà di pensiero, di scelta, di azione. Nessuna dittatura tendenzialmente totalitaria può lasciare libertà all’educazione.
Le scuole cattoliche e protestanti godevano di una reputazione secolare in tutta la Birmania, le famiglie si stimavano fortunate se potevano iscrivere i loro figli alle scuole cristiane. Il risultato della scelta statalista nel campo dell’educazione (come in altri settori della vita civile) è stata la decadenza dell’insegnamento e l’arretratezza del paese per mancanza di persone preparate. Oggi, ad esempio, anche il governo militar-socialista cerca di ricuperare i quarant’anni in cui non veniva più insegnata la lingua inglese se non nelle scuole superiori; non si trovano più insegnanti di inglese, i giovani conoscono solo la “lingua nazionale” che fuori del paese non serve quasi a nulla. Una delle migliori eredità che la vicina India ha ricevuto dall’Inghilterra è la lingua della nazione colonizzatrice, conosciuta da buona parte della popolazione e soprattutto dai giovani, che le ha permesso di inserirsi facilmente nel progresso scientifico e tecnologico mondiale, mentre la Birmania, ora che si sa aprendo al mondo esterno, è ancora bloccata da questo limite (ma ce ne sono tanti altri).
In Italia si dice che il comunismo non c’è più, che il pericolo di finire in un regime comunista è scomparso. È vero, ma il danno peggiore dell’ideologia socialista-comunista è quello espresso nel testo appena letto: la mentalità dello stato onnipresente che porta alla fine o alla mortificazione del libero mercato; lo stato che educa i giovani e orienta la società verso il “pensiero unico”; la proprietà privata è un furto quindi la tendenza allo statalismo: l’educazione dei giovani è compito dello stato, non della famiglia; l’ateismo come inevitabile prevalere di un’ideologia sconfitta dalla storia sulla libertà dell’uomo; e via dicendo. L’eredità peggiore del comunismo è questa “cultura” (mentalità), che sopravvive a tutte le smentite della storia.
Note al testo
[1] Sintesi fatta usando espressioni tratte dal testo originale, in “Venga il Tuo Regno”, Pime Napoli, 1967, pagg. 191-193.
[2] In “Venga il Tuo Regno”, Pime Napoli 1985, pagg. 238-239.