Gesù non rideva? Eppure tutto il Vangelo è un inno alla gioia, di Gianfranco Ravasi
Riprendiamo da Avvenire del 3/10/2010 un testo di mons. Gianfranco Ravasi, pubblicato dal quotidiano cattolico per presentare il nuovo volume di mons. Ravasi “150 risposte ai perché di chi crede e non crede”, Mondadori, Milano, 2010, di cui il brano pubblicato fa parte. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (5/10/2010)
Gesù ha mai riso? Cristo piange davanti alla tomba dell’amico Lazzaro, di fronte alla città santa, freme e soffre quando s’avvicina la sua ora finale. Conosciamo i suoi sentimenti. I Vangeli ci informano sul suo sdegno, che s’accende fino al punto di fargli impugnare una frusta. In sintesi, Gesù partecipa della natura umana amando, mangiando, provando tristezza e dolore. Ma si può dire che condivida con noi il riso e l’ironia? C’è qualche passo dei Vangeli in cui lo si oda ridere? Certo, partecipava volentieri ai banchetti, ma esiste una menzione del suo sorridere? Oppure il suo era sempre un volto severo come quello che ha rappresentato Pasolini nel suo Vangelo secondo Matteo?
«Flevisse lego, risisse numquam» ('Leggo che egli ha pianto, mai che abbia riso'). Così scriveva in modo lapidario un autore medievale, che si celava sotto il nome di Ambrogio, il celebre Padre della Chiesa (lo Pseudo-Ambrogio), negando che le labbra di Cristo siano state sfiorate dal sorriso.
Certo, se ci attestiamo sul verbo rigoroso del ridere - in greco gheláo - dobbiamo riconoscere che esso non ha mai come soggetto Gesù. Ridono, anzi, «deridono» (katagheláo) Gesù solo i lamentatori e le prefiche di professione nella casa di Giairo (Mt 9,24), ironizzando sulla sua dichiarazione nei confronti della figlia del capo-sinagoga («Non è morta, ma dorme»).
Ridono anche quelli che ora godono nei piaceri, in attesa che avvenga però il grande ribaltamento dei destini: «Beati voi che ora piangete, perché riderete… Guai a voi che ora ridete perché… piangerete» (Lc 6,21.25). E nella stessa linea si muoverà la Lettera di san Giacomo: «Gemete, peccatori, sulla vostra miseria, fate lutto e piangete; il vostro riso [ghélos] si muti in lutto e la vostra allegria in tristezza» (4,9). Così stanno le cose se ci fermiamo al puro e semplice verbo «ridere».
Tuttavia si devono fare due osservazioni rilevanti. La prima riguarda i Vangeli che, com’è noto, non sono biografie complete e compiute della figura storica di Gesù di Nazaret, ma sono solo dei profili, illuminati dalla luce della fede.
Che manchi qualche tratto dalla fisionomia umana di Cristo non significa automaticamente che esso non sia stato presente durante la sua esistenza terrena. I banchetti, appunto, possono essere una testimonianza indiretta dell’allegria vissuta anche da Gesù, tant’è vero che egli stesso dichiarerà di essere stato accusato di eccessiva libertà in questo senso: «È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve e dicono: Ecco, è un mangione e un beone, amico di pubblicani e di peccatori» (Mt 11,19).
Potremmo supporre che il riso abbia fatto parte dell’esperienza di Gesù, anche perché esso è una componente fondamentale - insieme alle lacrime - dell’essere uomini. L’Incarnazione, infatti, comporta l’assunzione dell’umanità da parte del Figlio di Dio nella sua integralità.
C’è, però, una seconda considerazione da fare. Come si suol dire nel linguaggio «tecnico», un orizzonte semantico può essere coperto da più termini che ne descrivono le varie sfumature. Il ridere fa parte, ed è segnale, dell’orizzonte più vasto della gioia il cui molteplice significato può essere espresso con più vocaboli.
In questa luce la domanda del nostro interlocutore può ottenere una risposta diversa da quella così categorica che abbiamo citato in apertura. Particolare attenzione meriterebbe il Vangelo di Luca che uno studioso tedesco, Helmut Gollwitzer, ha idealmente posto in un suo commento sotto il titolo Die Freude Gottes, 'La gioia di Dio' (1952). Basterebbe solo cercare i vocaboli della felicità per accorgersi dell’insistita presenza del tema nel terzo Vangelo.
Ci perdonino perciò i lettori, se faremo scorrere i vari termini greci. Il verbo cháiro (gioire, rallegrarsi) e il sostantivo chará (gioia, allegria) echeggiano cumulativamente per venti volte in Luca a partire da quel «Rallègrati» rivolto da Gabriele a Maria e divenuto il nostro «Ave» (1,28).
C’è poi l’«esultanza» espressa per quattro volte col verbo agalliáo e col sostantivo agallíasis . È, questa, la felicità messianica di tenore spirituale. Così, quando Gesù pronuncia quella stupenda preghiera, detta appunto «l’inno di gioia», riferita da Luca 10,21-22 («Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli…»), l’evangelista nota in apertura: «In quello stesso istante Gesù esultò [agalliáo] nello Spirito Santo e disse…».
Luca, solo tra tutti gli autori del Nuovo Testamento, usa per tre volte anche il verbo dell’allegria fisica, in greco skirtáo, applicandolo al piccolo Giovanni che «danza di gioia» nel grembo di Elisabetta quando incontra Maria (1,41.44) e ai giusti perseguitati che nel giorno del giudizio «si rallegreranno esultanti» perché grande sarà la loro ricompensa nei cieli (6,23).
E se si vuole trovare un brano intero che mostri come Gesù proclami la gioia della salvezza - 'Vangelo', com’è noto, significa 'bella, gioiosa notizia' - basterebbe leggere il capitolo 15 di Luca con le tre celebri parabole della misericordia divina: quelle della pecora, della dracma e del figlio smarriti e ritrovati.
Un esegeta, Bruno Maggioni, ha intitolato quel capitolo «Un invito alla gioia di Dio in Cristo». Non potendo citare per ragioni di spazio tutti i passi, suggeriamo ai nostri lettori di prendere in mano un Vangelo e, nel capitolo 15 di Luca, di leggere i versetti 5, 6, 7, 9, 10, 23, 24, 25, 29, 32. In essi, tra l’altro, c’è un altro verbo greco di gioia: eufráino.
Gesù, quindi, esalta il gioire festoso che prende spunto da vicende umane concrete, come il ritrovare un oggetto prezioso smarrito o il riabbracciare dopo tanto tempo una persona cara. Anzi, Luca, che aveva aperto il suo Vangelo col sorriso festoso del natale del Battista e di Gesù, lo conclude con la raffigurazione della Chiesa che conosce l’intensità della gioia: «… dopo averlo adorato tornarono a Gerusalemme con grande gioia [chará] e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (24,52-53).
Fermiamo qui la nostra ricerca, che potrebbe essere allargata agli altri Vangeli (e ancor di più all’Antico Testamento, ove appare ampiamente il «ridere» di Dio). Noi vorremmo concludere con le parole che, secondo Giovanni, Gesù pronuncia nell’ultima sera della sua vita terrena: «Queste cose io vi ho detto perché la mia gioia sia con voi e la vostra gioia sia piena» (15,11).
Curiosamente Lutero descriverà così la Gerusalemme celeste, sulla scia di un’immagine medievale: «Allora l’uomo giocherà con cielo e terra e sole e con le creature. E tutte le creature proveranno anche un piacere, un amore, una gioia lirica e rideranno con te, o Signore, e tu a tua volta riderai con loro».