[Abbiamo bisogno di un maestro come Virgilio per attraversare la vita. Da Dante all’università dei nostri giorni]. Per l’alto mare aperto. L’Università al tempo della grande incertezza. Lectio Magistralis di Marta Cartabia alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa
Riprendiamo dal sito della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa la Lectio Magistralis tenuta da Marta Cartabia il 9 dicembre 2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura e la sotto-sezione Dante e Petrarca.
Il Centro culturale Gli scritti (31/1/2021)
1 Introduzione[1]
In apertura di questa cerimonia che mi onora con un così grande riconoscimento, è ai miei maestri che innanzitutto vorrei rivolgermi, per quel moto di riconoscenza e di affetto che in occasione di momenti così solenni sgorga spontaneo nell’animo. Ritrovo in me quella stessa gratitudine che, si parva licet, mosse Albert Camus all’indomani del conferimento del Premio Nobel nel 1957. In una breve lettera rivolta al suo maestro scrisse:
«Caro signor Germain, ho aspettato che si placasse la confusione che mi ha circondato in tutti questi giorni, prima di rivolgermi a Lei con tutto il cuore. Mi hanno fatto un onore davvero troppo grande che non ho né cercato né sollecitato. Ma quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che io ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo. Non sopravvaluto questo genere di onori. Ma è un’occasione per dirle che cosa lei è stato, e continua a essere, per me, e per assicurarle che i suoi sforzi, il suo lavoro e la generosità che lei ci metteva sono sempre vivi in uno dei suoi scolaretti che, nonostante l’età, non ha cessato di essere il suo riconoscente allievo. L’abbraccio con tutte le mie forze. Albert Camus».
Anche voi mi state facendo un onore davvero troppo grande e se siamo qui oggi è grazie ai maestri che ho incontrato.
Il tempo della vita universitaria è stato, per me, essenzialmente, il tempo dell’incontro con grandi maestri. O meglio, il tempo di una vita in una comunità di persone che ha consentito l’incontro decisivo con alcuni grandi maestri. È su questo aspetto degli studi che vorrei svolgere qualche considerazione, in un frangente, come quello che stiamo guadando, in cui la vita universitaria è sottoposta a grandi pressioni e trasformazioni, per le condizioni date.
2 L’università e le sue trasformazioni.
L’università, lo sappiamo, è una istituzione millenaria che ha attraversato radicali trasformazioni; è tanto duratura quanto profondamente cambiata nel corso della storia. O forse tanto duratura perché profondamente cambiata nel corso della storia, sulla base delle sollecitazioni provenienti dall’ambiente circostante.
Oggi l’università è segnata da una crescente articolazione di compiti: per un verso rimane dedita allo studium come laborioso otium, e preserva le sue caratteristiche di luogo della ricerca e della trasmissione del sapere totalmente disinteressato; per altro verso si rende disponibile al compito di preparare alle professioni intellettualmente più impegnative, tecnicamente più complesse e, spesso, socialmente più ambite.
Più recentemente ancora, le Università sono diventate altresì centri di attività di ordine culturale, sociale e di divulgazione rivolti alla cittadinanza. La “terza missione” si affianca alle tradizionali attività di insegnamento e di ricerca. Agli atenei italiani si chiede un impegno molto complesso, sempre più complesso, rivolto ad ogni aspetto della elaborazione della diffusione della cultura.
3 L’università oggi, al tempo della pandemia
Con questa sfida di fondo sempre aperta, l’università si trova di fronte ad una nuova svolta, provocata da un evento tanto imprevisto quanto radicale, che riapre domande fondamentali. A richiedere un ripensamento non è soltanto, il “distanziamento sociale” – e con esso la didattica a distanza -, quanto il senso di insicurezza che la situazione data alimenta nella vita di ciascuno, a livello personale e nella dimensione collettiva.
Viviamo in una condizione di grande incertezza, siamo chiamati a convivere forse a lungo con la precarietà, esposti a variabili indipendenti dalla nostra volontà che rischiano di imprigionare il tempo in una quotidianità senza sviluppo e prospettiva – come nella famosa commedia Groundhog Day (Ricomincio da capo) – e gravano come una ipoteca su ogni progetto futuro. Già segnati dalle gravi crisi che hanno scandito i primi decenni del XXI secolo – il terrorismo internazionale e la crisi finanziaria –, tuttora immersi nelle grandi trasformazioni epocali date dalle imponenti ondate migratorie e soprattutto dalle radicali trasformazioni tecnologiche, ci siamo ritrovati disarmati di fronte all’imprevisto e all’imprevedibile.
La pandemia ha svelato ciò che invero è insito in ogni tempo: esiste una realtà che – nonostante la potenza, i progressi e gli indiscutibili benefici della scienza e della tecnologia – non è totalmente sotto il nostro controllo. In una interessante riflessione sul mondo che vivremo, Chiara Giaccardi e Mauro Magatti osservano che occorre guardarci da due reazioni tanto comuni quanto improduttive: sognare il ritorno a una situazione a rischio-zero, che coincide con una forma di diniego della realtà, o rimanere imprigionati nella paura[2].
In questo contesto, l’università, «gran vivaio delle nuove generazioni», come ebbe a dire Francesco De Sanctis nella prolusione del 1872 a Napoli, ha di fronte a sé un compito formidabile. Agli studenti di oggi più che a ogni altro, il futuro si presenta con contorni indeterminati. A loro che stanno progettando e lavorando per costruire il loro posto nel mondo, a loro, occorre offrire una strada, o almeno una rotta o una mappa, un punto di riferimento per orientarsi in queste condizioni così nebulose.
Cosa può e deve offrire l’Università in un frangente come quello attuale? Alle esigenze di una generazione fiaccata dall’effetto Covid-19, non è più sufficiente rispondere solo con l’offerta di una formazione professionale, che pure non può mancare. Se già prima della pandemia il mercato del lavoro e delle professioni era connotato da una profonda precarietà, oggi è utopistico, o meglio retropico, cercare di soddisfare il bisogno di sicurezza rincorrendo una professione prevedibile e stabile, come bene ha evidenziato Maurizio Ferrera[3].
Ci stiamo dirigendo verso una terra incognita, un mondo ancora sconosciuto, sì, ma da esplorare; stiamo attraversando un alto mare aperto (If XXVI 100), dove occorre convertire le fonti di rischio in moltiplicatori di opportunità.
Serve un punto di appoggio perché le nuove generazioni possano protendersi con slancio verso questo futuro ancora inimmaginabile e sprigionare quelle energie di creatività e costruttività indispensabili alla vita personale e sociale. Per questo oggi, più di sempre, la risorsa fondamentale a cui tutti guardano, su cui tutti contano è – per usare una espressione in voga – il «capitale umano». È nel soggetto e dal soggetto che può scaturire l’energia capace di contrastare la paura che paralizza, l’incertezza che mortifica le ambizioni e demoralizza ogni slancio. E l’università, oggi più che mai, è chiamata a questo altissimo compito e a questa gravissima responsabilità: far fiorire le singole personalità, sottraendole al rischio di rimanere soffocate dal contesto e dalla cecità del caso.
4 Riscoprire i maestri: Ben so ’l cammin, però ti fa sicuro (If IX 30).
C’è una immagine poetica e allegorica, che narra con potenza evocativa insuperata la paura e lo smarrimento generati da una situazione ignota e avversa, che appartiene alla esperienza umana in ogni luogo e in ogni tempo. È l’immagine che ci offre Dante – di cui sono iniziate da poco le celebrazioni in occasione del 700° anniversario della morte – in apertura della Commedia, che ritrae il poeta – a figura di tutti gli uomini nel mezzo del cammin di nostra vita (If I 1) – smarrito in una selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura (If I 5-6).
Allo smarrimento segue un breve momento di speranza grazie ai raggi del sole che sta per sorgere dietro a un colle che decide di scalare; ma subito compaiono, una dopo l’altra, tre fiere che gli sbarrano il passo, soprattutto l’ultima, una lupa, la cui vista gli fa tremar le vene e i polsi (If I 90). Paralizzato dalla paura e dall’ignoto, Dante è obnubilato – tant’era pien di sonno (If I 11) – e totalmente disorientato; ma proprio da quella spaventosa circostanza indesiderata e inspiegabile prende l’abbrivio la più straordinaria avventura della conoscenza umana che lo porterà con successo a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore (If XXVI 98-99) per usare le parole che egli attribuisce a Ulisse, che al contrario non riuscirà nell’impresa.
L’imprevisto, il trauma e la consapevolezza della precarietà che ne deriva tendono a determinare la percezione di una chiusura del futuro in una solitudine disperata, ma possono anche permettere la riapertura di orizzonti inesplorati, offrendo l’occasione di un impulso nuovo, rimettendo in moto energie bloccate, destando una capacità di proiettarsi oltre il già noto. Sono molti ad osservarlo: i momenti di crisi più profonda sono anche i momenti delle più grandi opportunità come la storia del XX secolo ci ha insegnato. Già. Ma come?
All’origine di quel formidabile viaggio che Dante ha consegnato all’intera umanità nella Commedia, troviamo un incontro decisivo: è la presenza del maestro Virgilio a permettere a Dante di liberarsi dalla paura e dal disorientamento. Il maestro è un elemento fondamentale del ben ch’io vi trovai (If I 8), come dice Dante nel momento più tenebroso della sua esistenza: è lui che lo rassicura e lo rimette in cammino; meglio: lo accompagna nel cammino, non solo mostrandogli una strada, una direzione, una via percorribile, ma mettendosi in moto con lui: Allor si mosse ed io li tenni dietro (If I 136), si legge nell’ultimo verso del primo canto dell’Inferno.
È nell’incontro con un vero maestro che si aprono nuovi orizzonti, è lì la sorgente della motivazione che abilita al cammino, qualunque sia la condizione data. La presenza del maestro rende la selva oscura occasione irripetibile per una esplorazione inimmaginabile: non risolve l’avversità esterna, ma ti fa sicuro, vince la paura, perché sa suggerire una via percorribile per quanto ardua. Se c’è qualcosa che può contrastare lo scoramento di questa epoca è la presenza di qualcuno nelle cui orme possiamo posare il piede, dietro a le poste de le care piante (If XXIII 148). Ecco: il nucleo fondativo della vita universitaria, sin dalle origini, è dato da una comunità di persone impegnate per stimolare il pensiero e allargare la ragione, in cui è possibile incontrare maestri. Questo è il cuore pulsante del sistema, al quale occorre sempre tornare.
Ma chi è il maestro? Molti sono i docenti che si incontrano nei percorsi di studi, ma pochi i veri maestri. Quello con il maestro è un incontro coinvolgente, immediatamente riconoscibile, perché è dotato della capacità di ridestare la persona, di ridare fiducia in se stessi e di far scoccare la scintilla del desiderio di conoscere e di fare. Vorrei provare a tratteggiare ciò che ho appreso riflettendo sul rapporto con i miei maestri, rapporti cari e preziosi, capaci di segnare la direzione di una intera vita. Quelle che seguono sono riflessioni sull’esperienza, illuminate da alcuni spunti liberamente tratti dalla rilettura della Commedia, in cui domina il rapporto di Dante con almeno tre diverse guide, ma in particolare con il maestro Virgilio.
5 Riconoscere il maestro: tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore (If I 85)
La prima osservazione riguarda il momento del riconoscimento. L’autorità del maestro non deriva dagli allori ma dagli allievi: non bastano i riconoscimenti formali, che pure hanno grande rilevanza nel motivare i destinatari, oltre che nell’indicare le voci autorevoli.
Sono i discepoli stessi che riconoscono al maestro l’autorità e, dunque, l’autorevolezza, cioè la capacità di farli crescere – da augeo, tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore (If I 85), come dice Dante a Virgilio non appena lo riconosce. Dante non ha mai ricevuto l’amato alloro (Pd I 15), per il quale peraltro implora l’aiuto di Apollo, nel primo canto del Paradiso, a sottolineare l’importanza del riconoscimento pubblico.
Eppure, nessuno dubiterebbe che Dante sia e resti il più grande poeta, certo più grande di tanti, oggi sconosciuti ai più, “poeti laureati”. Nel percorso della Commedia è Dante che riconosce il maestro, ma a sua volta Virgilio è stato mandato a lui da tre donne benedette, Maria, Lucia e Beatrice. Il riconoscimento è reciproco e avviene secondo un duplice movimento.
Non ci sono maestri senza allievi, sarebbe una contraddizione in termini, né ci sono allievi senza maestri. Al primo incontro, messo in pericolo dalle tre fiere che gli sbarrano la strada, Dante si accorge della presenza del poeta latino e lo implora di aiutarlo. Virgilio, allora, si presenta menzionando il tempo e i luoghi della sua biografia – nacqui sub Iulio (If I 70); vissi a Roma sotto il buon Augusto (If I 71). Qui scatta il primo riconoscimento di Dante: «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume? […] O de li altri poeti onore e lume, vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore» (If I 79-80, 82-83) In Virgilio, Dante, riconoscendo il poeta, riconosce certamente la fonte dell’eloquenza ornata, il «parlare onesto» (If II 113), l’arte bene dicendi che erano tenuti in altissima considerazione dalla cultura del suo tempo.
Ma Virgilio è molto più di questo: è maestro di ogni conoscenza e di saggezza – mar di tutto il senno (If VIII 7). All’epoca la poesia non era solo una delle arti liberali, fine a se stessa e al mero diletto: era considerata il principio di tutta la conoscenza. Per questo Dante si rivolge a Virgilio con epiteti ricorrenti come maestro, e “famoso saggio”, e “persona accorta” e “savio duca”, perché nella concezione medievale il poeta è fonte di sapienza, e Virgilio, in particolare era ritenuto esperto in tutte le scienze. Nel maestro l’allievo riconosce qualcosa di ben più significativo di un esperto del proprio settore del sapere.
6 Il legame tra conoscenza e affezione: L’alto disio che mo t’infiamma e urge, / d’aver notizia di ciò che tu vei (Pd XXX 70-71)
C’è un momento nella vita di uno studente o di uno studioso, e forse più d’uno, in cui il primo impeto di apertura allo studio si affievolisce, talora fino a estinguersi. L’entusiasmo delle scoperte iniziali cede il passo alla noia o al disinteresse; in altri casi, l’enormità del compito e il senso di sproporzione paralizzano l’azione. Sono frangenti che appartengono all’esperienza di tutti; e tutti sanno che a nulla vale appellarsi alla naturale curiosità di sapere innata in ogni essere umano o alla forza di volontà per rimettere in moto una dinamica che si è inceppata.
Non conosco molti studenti che per raggiungere l’obiettivo si fanno legare alla sedia, al grido di «volli, e volli sempre, fortissimamente volli», come Vittorio Alfieri. Nel nostro tempo, l’ostacolo al compimento degli studi fino ai più alti gradi, come dice l’art. 34 della Costituzione, non è solo di ordine economico.
Sempre più spesso è una mancanza di interesse e di desiderio, una inspiegabile noia, a interrompere un percorso di studi. La presenza del maestro ha la capacità di riaccendere il desiderio perché è una presenza che coinvolge insieme la dimensione intellettuale e quella affettiva. Nel prologo del terzo libro del De rerum natura, anche Lucrezio, rivolgendosi al suo maestro Epicuro dichiara di voler porre i suoi i piedi nei segni da lui lasciati «perché desidero imitarti per amore»[4]. Imitarti per amore: parole forti, scandalose ai nostri orecchi, imbarazzanti, quasi impronunciabili oggi pubblicamente.
C’è un coinvolgimento emotivo e affettivo nel rapporto con il maestro che è il vero segreto della sua capacità di muovere tutta la personalità dell’allievo e aprire la sua ragione in tutte le sue potenzialità. Dopo la prima esitazione, la prima falsa partenza Dante, avendo saputo che Virgilio è stato mandato a lui da Beatrice rompe gli indugi:
«Tu m’hai con disiderio il cor disposto sì al venir con le parole tue, […] tu duca, tu segnore, tu maestro» (If II 136-137, 140). La saggezza antica ci tramanda la celebre immagine dell’educazione come fuoco da accendere piuttosto che vaso da riempire (o peggio da intasare).
John Henry Newman scrive che: «Un sistema accademico senza l’influenza personale dei maestri sui discepoli è un inverno artico»[5] e Piero Calamandrei in un saggio del 1921 dedicato agli studi giuridici sottolinea impietosamente che occorre «una tempra eccezionale di maestro» che «riscaldi col suo fuoco la materia sorda, nelle grigie aule dove insegnano i professori»[6]. La formazione avviene nel coinvolgimento personale con maestri la cui parola è avvalorata dalla vita che conducono.
Ciò che il maestro comunica non è solo il suo sapere, ma la sua personalità. Per questo è così essenziale che siano date le condizioni che consentano una familiarità che può scaturire soltanto dalla convivenza. Senza questo consorzio, questo convivio (per usare ancora una parola di Dante, una parola che Dante lega proprio alla trasmissione della conoscenza) rimarrebbe inaccessibile la dimensione esistenziale e relazionale della comunicazione.
Nella cultura medievale, intelletto e affetto sono due facoltà inseparabili e Dante esprime mirabilmente questa tradizione: è il disio– parola ricorrente nel poema – che conduce la Commedia al suo termine, come osserva Anna Maria Chiavacci[7] e nel Convivio scrive che lo «studio… è applicazione dell’animo innamorato de la cosa a la cosa»[8].
7 La conoscenza come paziente ascesa: sì che possa salir chi va sanz’ala (Pg III 54)
Di qui inizia il cammino. La dimensione affettiva è ciò che muove la ragione e la persona intera.
È interessante osservare che i maestri di retorica, a partire da Cicerone, ripreso da Agostino e da tutta la trattatistica medievale, attribuivano al discorso ornato, fosse quello destinato alla trattazione delle cause pubbliche e civili o quello della poesia tre officia: docére, delectare, movére.
Movere. Tutta la Commedia è attraversata da questa capacità di movere: dal primo canto dell’Inferno – quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle (If I 40) – fino al verso finale del Paradiso e del poema - l’Amor che move il sole e l’altre stelle (Pd XXXIII 145), come a disegnare un grande cerchio in cui si racchiude e si compie il desiderio di conoscenza che spinge Dante a scrivere il suo capolavoro, invitando il lettore ad intraprendere lo stesso percorso.
L’avventura della conoscenza è spesso associata all’immagine del viaggio, della traversata, del cammino o dell’ascesa. Giustamente. L’intero poema della Commedia è un cammino di conoscenza attraverso i tre regni, dal più profondo degli inferi, fino al vertice del paradiso. Virgilio invita Dante a tenere altro vïaggio (If I 91) e gli propone un aspro percorso attraverso le disperate grida degli antichi spiriti dolenti (If I 115, 116). Del viaggio o, meglio, del cammino e dell’ascesa paziente il percorso della conoscenza condivide almeno tre caratteristiche.
Anzitutto ha bisogno della compagnia di una guida, delle sue tracce, delle sue orme da seguire. Qui il maestro, da magister – che reca in sé la radice di magis, più grande, ma è pur sempre un concetto relativo – è essenzialmente colui che è un po’ più avanti, un po’ più in alto nella salita, percorre la via un passo avanti per far strada a chi segue. Lungo il cammino Virgilio usa diversi registri con Dante: lo rimprovera, lo esorta, lo valorizza, lo ammonisce aspramente, lo sostiene, a tratti lo porta persino in braccio, lo richiama all’essenziale… Quale che sia la tonalità necessaria, la presenza di Virgilio consente a chi lo segue di proseguire in un cammino lungo e impervio sì che possa salir chi va sanz’ala (Pg III 54).
In secondo luogo, come ogni cammino, il percorso della conoscenza si sviluppa nel tempo. È fatto di movimento e soste; di parole e di silenzi, di lavoro e di riflessione, di conquiste e di pause. Persino di errori. L’azione del conoscere non è istantanea, richiede pazienza, resistenza e tenuta di durata. È questo un elemento particolarmente faticoso in un’epoca, come la nostra, in cui la rivoluzione tecnologica, che rende tutto istantaneo e planetario, ha la caratteristica di dilatare la dimensione dello spazio e di mortificare quella del tempo[9].
C’è un momento nell’incontro di Dante con il suo maestro Brunetto Latini, dove questo aspetto della conoscenza è espresso con note delicatissime. Del maestro Dante evoca la cara e buona immagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / mi insegnavate come l’uom s’etterna (If XV 83-85). «Ad ora ad ora mi insegnavate come l’uom s’etterna»: il maestro porta a scoprire ciò che è destinato a rimanere, ciò che ha valore nel tempo, ciò che dura e questa conquista richiede un paziente lavoro disteso, passo dopo passo, ad ora ad ora.
Infine, la peculiarità del cammino della conoscenza è di volgersi a una meta mobile, sempre posta un po’ più in là. Gustavo Zagrebelsky, usa l’immagine dell’anticima: «la vetta non si raggiunge mai, perché non c’è; c’è sempre un’anticima»[10]. C’è sempre un inesplorato, un inattingibile che è il motore stesso della continua ricerca. L’avventura del conoscere è una grande traversata in cui l’approdo c’è, ma non è mai definitivo.
8 Lo scopo, il maestro si ritrae: io te sovra te corono e mitrio (Pg XXVII 142)
La più grande soddisfazione del maestro è nel veder l’allievo raggiungere mete per lui stesso non raggiunte o addirittura irraggiungibili. Più che legare a sé, o assimilare a sé, il maestro ha la capacità e la responsabilità di far fiorire la personalità dell’allievo. Ha la capacità di coglierne le potenzialità, di cui spesso l’allievo stesso è inconsapevole.
Della fioritura o della mancata fioritura della persona il maestro porta in gran parte la responsabilità. Il rapporto autentico tra maestro e allievo non si esaurisce mai in un reciproco appagamento, pena l’autodistruzione. Non è mai una relazione orizzontale o bilaterale, ma implica sempre un orizzonte più grande verso il quale l’allievo è continuamente sospinto.
Il vero maestro non opprime e soprattutto non deprime. Piuttosto è colui che sostiene e accompagna il cammino, sollecitando continuamente l’allievo a seguire la sua strada. Egli realizza il proprio compito quando spende tutto di sé per consentire al discepolo di seguire la propria stella – se tu segui tua stella, / non puoi fallire a glorïoso porto (If XV 55-56) – dice Brunetto Latini a Dante.
Lo scopo è che l’allievo realizzi la propria libertà, il proprio percorso, si lanci diretto verso la propria meta. E poi, ad un certo punto, dopo aver ridestato il maestro interiore che nell’allievo dormiva, il maestro si ritira come scrive Agostino nel suo famoso dialogo De Magistro.
Virgilio stesso, alla fine del Purgatorio, esaurito il suo compito, si congeda da Dante, prima di affidarlo alla guida della più alta sapienza di Beatrice, e lo proclama addirittura imperatore e papa di se stesso: Non aspettar mio dir più né mio cenno; libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno: perch’io te sovra te corono e mitrio (Pg XXVII, 139-142)
9 Considerazioni conclusive
In un clima sociale come quello che stiamo attraversando, incline alla demoralizzazione, l’incontro con un vero maestro è essenziale quanto l’aria per respirare. C’è un’emergenza sanitaria che sta portando con sé, oltre che una crisi economica, un’emergenza esistenziale che non deve essere sottovalutata e alla quale sono esposte soprattutto le giovani generazioni.
Il virus che si propaga in questa pandemia lascia a lungo nel fisico una stanchezza anomala: occorre vigilare prontamente affinché questa stanchezza non prosciughi anche le energie morali. Occorre prevenire un secondo spillover della malattia, che dopo aver colpito l’umanità nel fisico non ne intacchi l’animo.
Per questo urge che tutti ci mettiamo alla ricerca di punti di riferimento che abilitino specie le nuove generazioni a uscire dalla palude della paura e della insicurezza, perché a loro, più che ad ogni altro, toccherà il compito della grande ricostruzione che ci attende. Tra le tante missioni che le sono attribuite, l’università oggi, più di sempre, è chiamata a svolgere un compito essenziale, a mobilitare tutte le sue energie, per svolgere quella che Giuseppe Capograssi nel 1947 indicava come la «vera funzione» dell’università: «insegnare alle generazioni che salgono a essere libere, di quella libertà che consiste nella consapevolezza […] che con la propria azione ognuno, volere o no, modifica la vita del mondo e della storia e […] ne porta tutta la responsabilità»[11].
Per questo l’università, deve tornare ad essere la priorità tra tutte le priorità, deve essere preservata come bene essenziale, per il formidabile compito che le è affidato di offrire alle nuove generazioni, la possibilità di mobilitare le proprie forze vitali, le proprie energie costruttive a beneficio di se stessi e della società di oggi e di domani, seguendo un percorso paragonabile a quello che Dante compie con i suoi maestri poiché, per usare le parole di un suo grande studioso, Charles Singleton «dallo schema di questo viaggio scaturisce una ricchezza di significato, una dimensione di significato che, come si è visto, riguarda e coinvolge anche noi. Dante è il viator e il suo viaggio è narrato in prima persona. Quell’“io” è rappresentato come una possibilità offerta a te, a me, al nostro viaggio in terra»[12].
Note al testo
[1] Questo testo riproduce la lezione pronunciata in occasione del conferimento del PhD in Law honoris causa della Scuola Sant’Anna di Pisa il 9 dicembre 2020. Desidero esprimere un vivissimo ringraziamento al dottor Alessandro Baro per l’assistenza prestatami nella redazione di questo testo, in particolare per le fonti relative alla Commedia.
[2] C. GIACCARDI, M. MAGATTI, Nella fine è l’inizio, Il Mulino, Bologna 2020, 42-43.
[3] M. FERRERA, La società del quinto stato, Laterza, Roma-Bari 2019, specialmente 100, 109 ss.
[4] Citazione da G. ZAGREBELSKY, Mai più senza maestri, Il Mulino, Bologna 2019, 22.
[5] «An academical system without the personal influence of teachers upon pupils, is an arctic winter», J. H. NEWMAN, Rise and Progress of Universities, in ID., Historical Sketches, v. III, Pickering, London 1872, 74 (trad. it in ID., Scritti sull’università, Bompiani, Milano 2008, 1109).
[6] P. CALAMANDREI, L’Università di domani, (1923) ripubblicato in ID., Opere giuridiche. II. Magistratura, avvocatura e insegnamento del diritto, Morano, Napoli 1965, 224.
[7] Cfr. D. ALIGHIERI, La Divina Commedia. Paradiso, commento a cura di A. M. CHIAVACCI, Mondadori, Milano 1997, 835: «[E]ntra nel verso una parola dominante della poesia e della vita di Dante: il disio. È il desiderio che trascina la Commedia al suo termine, e che ritroveremo finalmente placato nell’ultima terzina del poema. […] d’aver notizia…: di avere conoscenza piena, cioè di sapere che cosa ciò che appare ai tuoi sensi veramente significhi».
[8] D. ALIGHIERI, Convivio, III, XII, 2-4. Si veda il commento che A. M. Chiavacci, citando questo passa del Convivio, dà del verso «vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore», (If I, 83) in D. ALIGHIERI, La Divina Commedia. Inferno, Mondadori, Milano 19972, 26: «Le due parole [studio e amore] sono in Dante profondamente legate».
[9] I. DIONIGI, Osa sapere, Solferino, Milano 2019, 9-10.
[10] G. ZAGREBELSKY, Mai più senza maestri, cit., 21.
[11] G. CAPOGRASSI, A proposito del metodo dei corsi universitari, in Rivista di diritto processuale, 1947, 295.
[12] C. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, il Mulino, Bologna 1978, 37-38.