Le due “spade” nel medioevo e il conflitto fra papato e impero alle origini della moderna divisione del potere, di Carlo Cardia (con una nota introduttiva di Andrea Lonardo)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /01 /2021 - 12:25 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo alcuni brani da C. Cardia, Principi di diritto ecclesiastico. Tradizione europea legislazione italiana, Torino, Giappichelli, 2015, pp. 32-40. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Basso medioevo.

Il Centro culturale Gli scritti (26/1/2021)

N.B. di Andrea Lonardo Merito grandissimo di Carlo Cardia è di invitare a rifiutare - come egli spesso afferma - ogni lettura manichea della storia, quella lettura cioè moralistica che spesso appare nei conflitti di interpretazione sui diversi gruppi in azione nella storia visti come buoni o cattivi, luminosi o tenebrosi, lettura che è facile incontrare sul medioevo visto o come il periodo della perfezione cristiana o delle tenebre più assolute. Rare sono le voci che ne mostrano i pregi e di difetti, così come i torti e le ragioni.
Cardia aiuta, invece, innanzitutto a riflettere su come nel medioevo siano compresenti mondi diversi, come quello cristiano e quello islamico, attraversati entrambi da genialità e da violenze e da violazioni della libertà, seppure con modalità diverse derivanti dalla prospettiva propria di ognuno.
Ma, soprattutto, la sua analisi aiuta a divenire consapevoli di come ciascuna delle parti religiose e politiche dell’epoca intendesse giungere ad una supremazia.
È il potere imperiale che combatte contro il potere papale e lo vuole sottomettere a sé, ma è anche il potere papale che lotta contro quello imperiale per affrancarsi dalla soggezione ad esso e per avere a sua volta autorità su di esso.
Se la Chiesa agisce scomunicando, l’imperatore agisce nominando antipapi. Per questo l’“invenzione” del conclave, cioè la libera elezione del pontefice, sottratta ai poteri “laici”, è un evento decisivo nella storia del medioevo e della Chiesa. Così come lo è la Lotta per le investiture, tappa miliare nell’autonomia dell’elezione dei vescovi.
Inizialmente è la Chiesa che si affranca dall’impero, per evitare ogni forma di cesaropapismo, cioè di dominio dei “cesari” sui papi e sui vescovi. Ma poi, raggiunta tale autonomia, tende a sua volta ad allargare le sue pretese fino a pretendere la soggezione dell’impero.
Cardia mostra come le opposte esigenze di libertà e gli opposti rischi di dominio si confrontino nel medioevo, di modo che quei secoli debbono essere visti come quel periodo fecondo che crea, in questa tensione a volte feroce, i presupposti per una limitazione di entrambi i poteri, di modo che ognuno possa agire liberamente nella propria prospettiva.
Solo tale travagliato periodo preparò quelle visioni che evolveranno fino a raggiungere l’equilibrio che l’Europa ha trovato fra Stato e Chiesa, equilibrio che manca tuttora al mondo islamico e che è ancora in fieri in diverse nazioni cristiane d’oriente.
Nell’occidente cristiano fu “necessario” che si oscillasse dal cesaropapismo alla teocrazia, cioè dalla supremazia assoluta del potere imperiale o regale alla supremazia assoluta del potere pontificio, perché divenissero chiari i rischi di tali posizioni estreme e fossero entrambe superate, anche se mai definitivamente.
Esemplari sono, ad esempio, le tensioni che si ebbero dinanzi a Federico Barbarossa e a Federico II: oggi è a tutti evidente che le richieste di una supremazia assoluta del papato sono giustamente da rigettare, e da rigettare con forza, ma ci si accorge come tale esagerata richiesta emergeva dinanzi alla logica dell’opposto desiderio degli imperatori di essere padroni assoluti del mondo. Federico Barbarossa pretendeva di nominare papi a lui favorevoli e Federico II di dettare legge sul mondo intero: il suo tentativo di proporre una legislazione universale non aveva assolutamente il senso moderno di offrire garanzie per tutti, come solo studi ingenui lasciano credere, bensì quello opposto di garantirsi una signoria su tutto e su tutti. Con la fine di Federico II termina per sempre - solo Carlo V coltiverà sogni similari - l’idea di un potere assoluto imperiale e nascono gli stati nazionali, che sono la vera novità che si affermerà pienamente a partire dal trecento. Insomma hanno torto gli imperatori quando chiedono di dominare i papi ed hanno torto i papi quando pretendono di controllare gli imperi. Ed hanno ragione gli imperatori quando reclamano autonomia ed hanno ragione i papi quando fanno altrettanto. Ecco una visione adeguata e non manichea del medioevo.
Ciò è tanto vero che anche quando terminerà la lotta fra papato e impero e si aprirà quella fra papato e regni il discorso non cambierà. Filippo il Bello darà ad intendere apparentemente di voler essere libero dalla Chiesa, ma, in realtà, si riproporrà di assoggettarla e di esserne lui il signore, in modo da dirigerla a suo piacimento. Lo dimostra lo scioglimento dei Templari a cui obbligherà la Chiesa e ancor più la “cattività” avignonese, quando, in maniera così evidente, si assisterà all’assoggettamento della Chiesa ad un regno, quello di Francia.
Ciò implica che Bonifacio VIII non sia solo un pontefice dalle mire esagerate, ma anche che abbia percepito chiaramente tale pericolo mortale per la Chiesa a cui egli non poteva che opporsi. Insomma anche qui ragioni e torti da una parte e dall’altra.
Eppure Cardia non cessa di mostrare come in tali lotte e attraverso tali lotte - tale è lo sviluppo storico - sia cresciuta pian piano la consapevolezza che siano da rigettare sia le esigenze di predominio “laiche” che quelle ecclesiali, per giungere a forme nuove.
Non si deve dimenticare, poi, che quelli che, con occhi troppo moderni e poco scientifici, vengono oggi definiti poteri “laici” - l’imperatore, i re, gli stati, i comuni - appartengono tutti alla medesima storia cristiana e tali intendevano essere allora. Sia l’imperatore che il papa, sia i re che i liberi comuni, erano parte dello stesso mondo cristiano e, pur essendo in lotta, non erano in antitesi e sapevano di non potere né volere mai annullare l’altra parte. Estremamente significativo è che i comuni appartenessero pienamente al cristianesimo medioevale, con le loro libere elezioni, e non avessero remora alcuna a considerare buona la presenza autorevole dei vescovi in essi a rappresentare il papa, così come l’autorità dell’imperatore che essi parimenti accettavano. Dove c’era il libero comune valeva parimenti l’autorità del vescovo e del papa come quella dell’imperatore e solo uno sguardo anti-storico vede tout court in opposizione tali autorità.
Nel medioevo, insomma, si ebbe una compresenza della legittimità di tutti questo soggetti ed essa fece maturare l’Europa proprio a motivo della tensione che essi ebbero gli uni verso gli altri.
Nei comuni vigevano libere elezioni che venivano riconosciute sia dal papato che dall’imperatore ed esisteva, quindi, al contempo sia un potere democratico che uno assoluto. Allo stesso modo la fondazione delle Università - ad esempio di quella di Bologna - era frutto della Chiesa e del papato, delle libertà comunali e del riconoscimento imperiale: non vi è opposizione fra tali diverse prospettive e chi oggi pretende di opporle è perché non valuta scientificamente il passato, ma lo legge con gli occhi del laicismo moderno.
Riprova di tale evidenza è l’esistenza di momenti nella storia medioevale in cui l’imperatore volle limitare le libertà comunali e i Comuni si appoggiarono al papato, come viceversa. Le libertà comunali, insomma, appartengono al medioevo cristiano quanto il papato e l’impero.
Merita, infine, sottolineare come i secoli successivi non saranno meno problematici del medioevo nella difficoltà a delimitare i poteri dei diversi soggetti – solo tale limitazione è apportatrice di libertà. Mentre la duplicità delle “spade” - il potere imperiale e quello papale - permetteva di concepire un mondo in cui mai si poteva immaginare un potere assoluto e, pur nel conflitto, era a tutti evidente che dovevano esistere legittime autonomie, questa divisione feconda del potere ebbe termine a partire dalle monarchie assolute, la prima delle quali sarà quella di Enrico VIII che, assoggettando a sé la Chiesa, pretenderà di porsi come autorità civile e insieme religiosa, in quanto supremo arbitro della fede e capo della Chiesa, e  farà precipitare il mondo moderno nelle terribili repressioni che l’Inghilterra e poi tante altre monarchie assolutiste conosceranno.
Fino ad allora la consacrazione che solo i papi o i vescovi potevano conferire agli imperatori e ai re non significava che essi  fossero pedine della Chiesa, bensì intendeva ricordare a loro e al popolo che la loro missione di governanti non poteva portarli a sovvertire la giustizia del Vangelo, alla quale essi per primi dovevano impegnarsi: tale consacrazione, insomma, non significava la supremazia della Chiesa sui laici, bensì la necessità che tutti si rifacessero alla giustizia e alla carità del Vangelo. Consacrare un’autorità voleva dire che essa per prima non avrebbe dovuto spadroneggiare sul popolo, perché sottoposta al giudizio di Dio. È per questo, solo per fare un esempio, che lo ius primae noctis è un’invenzione moderna e mai sarebbe stata nemmeno pensabile nella politica medioevale: l’imperatore e il re erano loro per primi chiamati, a motivo della consacrazione, a far sì che nessun potesse distruggere arbitrariamente il matrimonio e gli amori altrui.
Se, talvolta, i papi medioevali hanno esagerato nelle loro pretese sui poteri civili, pretendendo di determinare singole scelte politiche, non si deve mai dimenticare che questa non era né la prassi, né soprattutto, la visione teologica medioevale, perché i governanti ricevevano legittimità proprio in quanto garanti di una giustizia più grande delle loro persone e proprio per questo venivano unti con il crisma che era segno della loro missione ricevuta da più in alto.
Cfr. su questo anche I gioielli della Corona e il rituale di incoronazione dei monarchi inglesi, di Andrea Lonardo e  Radici cristiane dell’Europa? Anche l’inno della Champions League è un plagio da un inno sacro di G. F. Haendel. Cfr. anche Lo Ius primae noctis non è mai esistito. Breve nota.

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Le due “spade” nel medioevo e il conflitto fra papato e impero alle origini della moderna divisione del potere, di Carlo Cardia

L'espansione militare musulmana e la riduzione del cristianesimo a fenomeno occidentale.

Alla separazione del 1054 si giunge quando già da tempo si è consumato il dramma del cristianesimo di fronte all'Islam, e si è realizzata quella divisione del mediterraneo che non era riuscita neanche alle invasioni barbariche. Religione dominante su tutto il bacino mediterraneo, ed in espansione in Asia e verso l'Europa settentrionale, il cristianesimo subisce dal VII secolo in poi una disfatta di carattere generale ad opera della nuova religione del Libro fondata da Muhammad (570-632), rigidamente monoteista e germogliata all'interno della cultura araba tra le popolazioni nomadi del deserto. La conquista musulmana dell'Asia minore, dell'Africa e di parte della penisola iberica, avviene in un lasso di tempo assai breve (650- 750), e si realizza secondo moduli differenziati che prevedono (quasi sempre) la conquista militare, un regime di parziale tolleranza e di sottomissione fiscale delle popolazioni, infine un lento ma inarrestabile processo di islamizzazione delle popolazioni locali. Altre volte, soprattutto nelle terre asiatiche, prossime all'India, e nell'Africa occidentale e subsahariana, la penetrazione islamica è avviata da mercanti che innestano comunità musulmane destinate ad esercitare una egemonia stabile nelle rispettive aree di influenza.

Tra le ragioni che in qualche modo spiegano l'inarrestabile espansione araba stanno il profetismo maomettano che sin dall'inizio prospetta e promette conquiste religiose e militari insieme, nonché il sentimento di rivolta che serpeggia un po’ dovunque contro la politica religiosa e culturale di tipo coloniale di Bisanzio. Le Chiese cristiane "eretiche" che in Egitto, in Siria e in Armenia, sono particolarmente radicate, specialmente attorno alle impostazioni monofisite e nestoriane, corrono continuamente il rischio di repressioni perché l'eresia nell'impero non è ammessa. Gli ebrei conoscono da tempo l'emarginazione e le persecuzioni, e proprio nel 634 Eraclio emana un editto con il quale ordina a tutti i giudei dell'impero di farsi battezzare. [N.B. de Gli scritti. La notizia è riportata solo da uno storico armeno di nome Sebeo che probabilmente amplificò la notizia di un evento più circoscritto] L’editto provoca il cedimento di molti ebrei, ma altri emigrano verso terre non bizantine, e anzitutto in Persia, con la conseguenza che le comunità ebraiche mediorientali divengono quasi alleate dei conquistatori arabi che non impongono conversioni forzose. Agli ebrei sono uniti, nel sentimento antibizantino, i cristiani che non accettano l'egemonia di Costantinopoli e che si sono strutturati in Chiese locali con solide radici nazionali. A fronte di questa realtà sta l'atteggiamento arabo che inizialmente è l'atteggiamento dei conquistatori militari e politici, senza immediati programmi di annientamento delle religioni preesistenti.

L'Islam distingue nettamente il comportamento da tenere verso gli idolatri (i pagani), e verso i credenti nelle altre due religioni monoteiste, ebrei e cristiani. Ai primi non è lasciato spazio perché devono sottomettersi, e aderire all'Islam, o perire. Ai secondi non si può far violenza per costringerli alla nuova fede, perché sono seguaci delle religioni del Libro, e sono protetti (dhimmi) alla luce di quanto afferma il Corano: «e per certo nel dì della Resurrezione Iddio distinguerà fra i pagani e coloro che hanno creduto, e i giudei, e i sabei, e i cristiani, e i magi: Dio è di ogni cosa testimone» (XXII, 17). Ad essi si offre un trattamento rispettoso delle loro credenze e dei loro costumi, sottomettendoli al tempo stesso ad un regime di imposizione fiscale che li differenzia rispetto ai veri credenti. In pratica devono pagare un tributo ai conquistatori, il c.d. testatico (ǵizya), mentre restano sottoposti al regime dei millet, mutuato dall'esperienza persiana, che con il tempo diverrà il regime degli Statuti personali.

In base ad esso, le comunità ebree e cristiane sono esentate dall'assoggettamento alla legge coranica (shari'a), e restano sottoposte al proprio capo religioso, che in questo modo acquisisce anche un'autorità civilmente rilevante, almeno per materie come quelle del culto, del matrimonio e della famiglia, dei rapporti interpersonali. Il sistema di protezione, che nei fatti viene esteso a molti altri gruppi che si trovano a vivere sotto la dominazione musulmana, è originato spesso da un patto, tra conquistatori e conquistati, e prevede delle clausole che dovranno essere rispettate dalle parti.

Nasce di qui la tesi, tramandata a volte acriticamente, che vuole l'Islam più tollerante del cristianesimo. Tesi che ha un suo fondamento di verità nel fatto che nella prima fase di ciascuna conquista militare non si dà luogo a conversioni forzose, e nel fatto che gli ebrei trovano sotto l'Islam una condizione giuridica di legittimazione e di libertà che non ha eguali in ambiente cristiano. Ma la tesi perde consistenza se la si proietta nel tempo, se si considera cioè che il regime instaurato dai conquistatori prevede l'imposizione fiscale per quanti non sono musulmani, e finisce col diventare un regime di pressione sociale e psicologica che non lascia spazio all’esistenza di popolazioni di diversa appartenenza religiosa. L'adesione di intere popolazioni all'Islam, che in genere si realizza nello spazio di pochi decenni, ha dunque delle ragioni sociali e politiche. In poco tempo la società si struttura secondo l'impostazione islamica, e chi non è musulmano appartiene al popolo dei dhimmi: di coloro che non hanno eguali diritti, che devono vivere la propria religione in condizioni di disagio crescente, con una gerarchia che si assottiglia e diviene succube dei conquistatori. In alcuni momenti, tanto forte è la spinta all'adesione all'Islam che i dominatori quasi scoraggiano le conversioni per non perdere il tributo dei sottomessi.

L'islamizzazione dell'oriente e dell'Africa mediterranea ha anche altre ragioni. L'innesto del cristianesimo è stato spesso superficiale. Laddove ha dato luogo a comunità storiche di grande tradizione culturale (come quelle di Tertulliano e di Agostino), queste sono più l'opera di una classe dirigente che ha accettato una cultura (e una lingua) aliena, come quella latina, che non di una penetrazione e civilizzazione cristiana alla quale occorrono secoli di insediamento e di radicamento per essere durature. In alcuni casi, come in Egitto e in Siria, il cristianesimo ha messo radici più solide, ma il contrasto tra le Chiese locali e l'impero di Bisanzio, e il patriarcato di Costantinopoli che ne è il braccio religioso, favorisce la conquista islamica: anche perché alcuni patriarcati quasi preferiscono i nuovi dominatori agli odiati bizantini, confidando nelle promesse di rispetto della libertà religiosa dei capi militari musulmani. Addirittura in Egitto i generali arabi concludono degli accordi con il clero locale, consentendo ai cristiani che lo desiderino di emigrare in terre bizantine, e non interferiscono nelle diatribe teologiche che li dividono.

Ciò consente a non poche comunità cristiane, che agli occhi di Roma e di Costantinopoli sono da considerarsi "eretiche", di sopravvivere meglio di quanto potrebbero fare in terra cristiana, ove sarebbero sottoposte alla legislazione repressiva. Non sono rari i casi in cui i cristiani di Siria e d'Armenia, e d'Egitto, ancora abbastanza ignari della natura e del contenuto della nuova religione, leggono le conquiste arabe in chiave apocalittica, ora denunciando le atrocità commesse in alcuni episodi militari e interpretandole come il castigo divino per le colpe cristiane, ora invece come evento provvidenziale perché giova a salvare i veri cristiani dalle angherie e dalle persecuzioni dei romani-bizantini. Il vescovo copto d'Egitto Giovanni di Nikiu afferma senza mezzi termini che «l'espulsione dei Romani e la vittoria dei Musulmani sono state la conseguenza della tirannia dell'imperatore Eraclio e delle vessazioni che costui aveva inflitto agli ortodossi». D'altra parte non si contano gli episodi di tirannia dei bizantini verso i cristiani che tendono all'eresia, come quello della rivolta dei monofisiti in Egitto, contro il governatore inviato da Bisanzio nel 631. La repressione del prefetto è tra le più violente, provoca il massacro di un grande numero di monofisiti, e la carcerazione dei rimanenti. Spetta agli arabi conquistare l'Egitto, espugnare la cittadella di Babilonia e liberare i prigionieri incarcerati, seppur dopo averli flagellati e seviziati. I ruoli di persecutori, vittime, vendicatori e carnefici, si intrecciano e si confondono in modo assai più complicato di quanto possa apparire a chi guarda all'espansione musulmana in chiave di semplice conquista e imposizione.

Le promesse dei conquistatori sono inizialmente mantenute, e il maggior radicamento cristiano consente alle Chiese mediorientali di sopravvivere. Ma, appunto, si tratta di sopravvivenza perché con il tempo la più gran parte delle popolazioni aderisce alla nuova religione lasciando le istituzioni cristiane come cattedrali nel deserto, accerchiate prima e sommerse poi dall'islamizzazione definitiva. In un succedersi impetuoso cadono sotto il dominio islamico, a parte la penisola arabica sede della predicazione di Muhammad, la Siria e la Palestina con il Califfo ’Umar nel 636, Antiochia e Gerusalemme nel 638, Cesarea nel 639, e subito appresso l'Egitto e la Tripolitania nel 643. L'impero degli Omayyadi completa la conquista dell'Africa con la caduta di Cartagine nel 696, e avvia la penetrazione nella penisola iberica nell'VIII secolo.

L'invasione islamica si rivela presto come fenomeno irreversibile, tale da ridurre il cristianesimo a fenomeno europeo e occidentale, anche perché dimidiato di alcune delle sue sedi patriarcali storiche. Queste manterranno una presenza e una esperienza cristiana in terra islamica, ma saranno tagliate fuori dall'evoluzione che il cristianesimo vivrà in Europa. Finisce l'equiparazione tra impero bizantino e mondo cristiano, e si esaurisce nei fatti l'idea stessa dell'impero come realtà (sia pure virtualmente) universale. L'Islam si struttura politicamente prima con il califfato, poi con gli imperi Omayyadi (661-750), Abbàsidi (750-1258), poi ancora con l'impero ottomano, che protrarrà la propria esistenza fino al XX secolo. La qualifica di califfo viene assunta dai capi delle diverse dinastie, per passare più tardi ai sultani ottomani. Sin dalle prime vittorie militari, l'obiettivo dei conquistatori diviene il cuore stesso dell'impero d'oriente, e Costantinopoli viene stretta d'assedio nel 673. L'assedio fallisce nel 677 e un'ambasceria bizantina viene ricevuta a Damasco dal Califfo per concludere un trattato che viene redatto nella forma tradizionale dei patti tra gli imperatori e i sovrani di Persia, segno di un riconoscimento fino a poco prima impensabile. Il trattato ha valenza trentennale e prevede il pagamento di un tributo da parte araba ma la spartizione del mediterraneo è ormai un fatto compiuto e irreversibile. Il rapporto tra Islam e cristianesimo prosegue da quel momento all'interno di due sogni che ciascuna parte coltiva e cerca di realizzare. Il sogno arabo di proseguire nelle conquiste anche in Europa, riuscendovi sia ad est che ad ovest, e il sogno cristiano di riconquista delle terre perse, anzitutto dei luoghi santi, che si materializzerà nelle Crociate dei secoli XII-XIV.

Dentro questi sogni, e dentro i rispettivi confini, gli imperi cristiani e gli imperi arabi edificano due civiltà diverse, entrambe con l'intento di unificare il mondo, ed entrambe con grandi successi nell'accumulazione di cultura, di esperienza e di raffinatezza politica. Ma tutte e due sono fondate sulla convinzione della propria superiorità e sull'attesa di superarsi e sconfiggersi l'un l'altra.

La riforma gregoriana dell'XI secolo e la nuova strutturazione della Chiesa di Roma.

Il grande movimento di denuncia e di riforma, che prende l'avvio nella Chiesa d'occidente sul finire del primo millennio, trova concretezza nei pontificati di Niccolò II, e soprattutto di Gregorio VII, ed è alla base di quella rinascenza ecclesiastica che darà al cattolicesimo il volto e le struttura che non abbandonerà mai sino ai giorni nostri. La riforma gregoriana dell'XI secolo è fondata sull'orgoglio di Roma come guida spirituale della Chiesa e dell'umanità intera, determina la fine della prigionia della Chiesa nelle maglie della società feudale, e mira a realizzare tre obiettivi storico giuridici: l’emancipazione del papato dalla soggezione all'impero, la definitiva affermazione del celibato ecclesiastico come norma canonica universale, la rivendicazione dell'autonomia del corpo clericale attraverso la lotta delle investiture. Insieme a questi grandi obiettivi riformatori, e quasi a loro sostegno, si dispiega il disegno egemonico del papato che in pochi anni passa dalla subalternità all'impero alla teorizzazione (e alla pratica) della propria supremazia, anche in campo temporale, su cui si fonda il sistema teocratico medievale.

La rinascenza cristiana è conosciuta col termine di riforma gregoriana, perché è essenzialmente opera di Ildebrando di Soana che governa la Chiesa col nome di Gregorio VII dal 1073 al 1085. Ma il suo vero inizio è merito di papa Niccolò II che cancella ogni residua forma di cesaropapismo e getta le basi della moderna elezione del papa affidandola alla libera scelta dei cardinali e sottraendola all'influenza della casa imperiale e dei gruppi politici romani. Con due decreti del 1057 e del 1059 Niccolò II disciplina la cattedra romana come istituzione autocefala, eliminando ogni influenza aliena su di essa. Spetta ai cardinali-vescovi eleggere il papa in piena autonomia, senza dover rendere conto a nessuno del proprio operato. All'imperatore si deve dare soltanto notizia dell'avvenuta elezione senza attendere alcun placet, e senza subire veti. Nasce così l'istituto del conclave, come riunione degli elettori del papa, che deve provvedere, in Roma o in altro luogo da essi scelto, alla nomina del capo supremo della Chiesa universale.

Con altro decreto del 1059 Niccolò II detta norme sul celibato ecclesiastico, che impediscono a qualunque ordinato in sacris di celebrare nozze valide, e che fanno del clero un corpo sociale interamente dedito al servizio ecclesiastico, quindi dipendente sotto ogni punto di vista (anche materiale) dalla gerarchia e da Roma. L'obbligo del celibato ecclesiastico non ha fondamento divino, ma è stato costantemente "preferito" dalla Chiesa romana. I sostenitori del matrimonio dei sacerdoti si richiamano ad alcuni testi apostolici favorevoli alla propria tesi, e segnalano l'inesistenza di canoni conciliari definitivi e generali in materia. D'altra parte, nelle Chiese orientali i preti si sposano [N.B. de Gli scritti Nemmeno in oriente i preti si sposano, bensì vengono ordinati preti gli sposati. La scelta del matrimonio deve avvenire prima dell’ordinazione sacerdotale e non è possibile una volta che si è stati ordinati preti], e soltanto per l'ascesa all'episcopato si scelgono preti celibi o monaci. Nell'XI secolo la svolta è drastica e si fonda su diverse motivazioni. Molto forte è la motivazione ascetico-morale che vede nella continenza e nella castità gli strumenti privilegiati per il perfezionamento spirituale dell'individuo. Ma è decisiva la motivazione pastorale-istituzionale, per la quale il matrimonio impedirebbe al clero di costituirsi in personale ecclesiastico stabile e autonomo rispetto agli impegni mondani. Non manca, infine, una motivazione economico-proprietaria della regola celibataria. Un prete sposato inevitabilmente deve far fronte alle esigenze economiche della famiglia, la quale altrettanto inevitabilmente porrebbe dei problemi ereditari anche nei confronti della proprietà ecclesiastica affidata al singolo sacerdote. L'inesistenza della famiglia permette che le diverse proprietà ecclesiastiche restino esenti da possibili rivendicazioni o aspettative successorie. Nasce così la figura del sacerdote cattolico conosciuta in tutto il mondo ancora oggi. Privo di famiglia, è sovente il confidente e il consigliere dei fedeli in tanti momenti difficili, morali e spirituali, non di rado esprime una capacità di rinuncia e di solidarietà eccezionale. Altre volte è una persona instabile, incapace di sopportare il peso della solitudine, che agisce con un piglio autoritario inaccettabile da parte dei laici.

Altro fondamento della riforma gregoriana è costituito dalla rivendicazione del diritto esclusivo della Chiesa di procedere alle nomine (investiture) dei titolari degli uffici e delle dignità ecclesiastiche, senza interferenze, o sostituzioni, da parte civile. Si tratta di una rivendicazione antica sancita spesso dai canoni disciplinari dei concili. Ma la compromissione, e quasi l'immedesimazione, della Chiesa nelle strutture feudali medievali ha sostanzialmente assoggettato l'episcopato, e i principali uffici ecclesiastici, al potere di nomina, revoca e deposizione, dell'imperatore o dei sovrani locali. La questione delle investiture per una Chiesa che voglia essere libera e indipendente dal potere politico è questione di vita o di morte. Il papa rischia di restare a capo di un corpo sociale (vescovi, clero, religiosi) guidato e comandato da altri, ispirato a valori essenzialmente mondani che poi sono quelli del possesso, della ricchezza, del potere. Un primo decreto di Niccolò II del 1059 sancisce che «nessun ecclesiastico o prete può ricevere gratis o pagando, in nessun modo, una chiesa dalle mani di un laico». Ma è Gregorio VII che, confermando queste disposizioni nel 1075, dà inizio a quella lotta delle investiture che si protrae per anni senza esclusione di colpi e tra papato e impero, e che si conclude soltanto con il Concordato di Worms del 1122 tra Enrico V e Callisto II. L'accordo non segna una vittoria completa del papato, si limita a distinguere tra l'investitura canonica e i regalia appartenenti alla Chiesa romana, e l'investitura temporale che spetta all'imperatore. Roma continuerà a lottare nei secoli perché le nomine ecclesiastiche siano libere da interferenze temporali. Ma il compromesso raggiunto a Worms chiude l'epoca della subalternità del ceto ecclesiastico al potere politico.

Infine, l'intero movimento di riforma della Chiesa può realizzarsi soltanto con la rinnovata e piena valorizzazione del primato pontificio che nei secoli precedenti era stato teorizzato ed elaborato. Il papato si emancipa da ogni confine patriarcale, si propone come potere unico, universale, che non ha eguali nella Chiesa e nel mondo, e può assoggettare a sé ogni altra istituzione ecclesiastica o politica. Si deve a Gregorio VII un documento - i dictatus papae - che, pur privo di ufficialità, meglio di qualunque solenne proclamazione, delinea i contenuti del primato pontificio che è per sua natura rivolto in primo luogo all’interno della Chiesa, e indica la posizione e il ruolo del papa nell'ambito della struttura ecclesiastica. Si ritrovano nel documento gregoriano alcune delle più celebri affermazioni primaziali: «1. La Chiesa romana è stata fondata soltanto dal Signore. 2. Soltanto il pontefice romano ha diritto di essere chiamato universale. 3. Egli soltanto può deporre o assolvere i vescovi. 7. Solo il papa può stabilire, secondo le circostanze, nuove leggi, fondare nuove diocesi (...). 16. Nessun sinodo può essere chiamato generale senza un suo ordine. 17. Nessuna scrittura, nessun testo possono essere ritenuti canonici, senza la sua autorità. 18. La sua sentenza non può essere riformata da nessuno ed egli solo può riformare quelle di tutti. 19. Egli non può essere giudicato da nessuno. 20. Nessuno può condannare una decisione della Sede apostolica. 22. La Chiesa romana non ha mai errato e, come attesta la Scrittura, non potrà mai errare. 25. Egli può deporre ed assolvere i vescovi anche senza concilio. 26.Chi non concorda con la Chiesa romana non è considerato cattolico».

L'accumulazione delle prerogative pontificie continuerà senza soste anche nei secoli successivi. Ad esempio con l'avocazione a Roma, da parte di Alessandro III, del potere di riconoscere, e proclamare, la santità di una persona. Si tratta di uno strappo nei confronti della tradizione, che riservava il culto ai martiri, o a chi aveva reso maggiore testimonianza alla propria fede, e che riconosceva il potere di canonizzazione ai Vescovi e ai Sinodi locali. Nel 1170 Alessandro III scrive a Canuto I, re di Svezia, di aver saputo (audivimus) di una persona dai costumi non irreprensibili che, ucciso in stato di ubriachezza, era venerato come martire, e avverte che, per quanti miracoli possano verificarsi, «non era consentito venerare pubblicamente come santo (un soggetto) senza la conferma della Chiesa romana (absque auctoritate Romanae Ecclesiae)». Nei fatti, ormai il papa è l'unico soggetto al mondo che può fare tutto, e ogni potere che si autoattribuisce scava un solco sempre più profondo nei confronti delle Chiese d'oriente. Roma vive una vita propria, si celebra i suoi concili ecumenici, e coltiva una volontà egemonica che costituirà nei secoli una muraglia insormontabile per l'unità dei cristiani.

I dictatus papae di Gregario VII si caratterizzano per un altro elemento gravido di conseguenze sul piano storico-politico, perché vi viene affermato, per la prima volta in modo netto e inequivoco, il potere del pontefice anche al di là della struttura ecclesiastica, sull'impero e sugli imperatori. Vi si afferma, infatti, che «solo il papa può usare le insegne imperiali» (n. 8), che «gli è consentito di deporre gli imperatori» (n. 12), «che il papa può sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà fatto agli indegni». Si spezza, in questo modo, l'equilibrio dualista che, nonostante tutto, si manteneva nell'impostazione gelasiana del V secolo, e si dà l'avvio a quelle ambizioni teocratiche che per secoli alimenteranno la conflittualità tra papato, tra Stato e Chiesa.

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