Amedeo Feniello invita a rileggere le reciproche violenze operate in Sicilia da arabi e da normanni, riconsiderando eventi come i drammatici assedi seguiti da eccidi, i pogrom, la deportazione di schiavi, così come il fenomeno dei criptocristiani e dei criptomusulmani, fino alla definitiva distruzione del mondo musulmano in Sicilia, operata dall’imperatore Federico II. Un’antologia di brani

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /01 /2021 - 12:05 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo alcuni brani dal volume A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Roma-Bari, Laterza, 2011. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Alto Medioevo, Basso medioevo e Storia dell’Islam e, in particolare, Breve cronologia degli attacchi saraceni, di Andrea Lonardo, Andalusia, dal mito alla storia. Appunti per un accostamento realistico a al-Andalus, di Andrea Lonardo, I cripto-cristiani sotto dominazione turca (da Lucetta Scaraffia) e Federico II: una reconquista "sterminatrice", di Ferdinando Maurici.

Il Centro culturale Gli scritti (26/1/2021)

N.B. de Gli scritti. Queste pagine che riproponiamo dal volume A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Roma-Bari, Laterza, 2011, debbono essere lette in chiave storiografica e non attualizzante. Se dovessero essere usate nel dibattito presente esse lo potrebbero al fine di una purificazione della memoria, non solo da parte occidentale e cristiana, ma anche da parte orientale e islamica. Riproporle in chiave storica è importante per colmare lacune di memoria per le quali si è solite attribuire ogni ingiustizia ad una sola delle parti in campo e a nascondere il reciproco. Grande merito al volume di Feniello che, se da un lato mostra la ricchezza della civiltà araba che si sviluppò in Sicilia, d’altro canto non esita a mostrare anche come essa si conquistò quelle terre in maniera violenta, come vi perseguì modalità ingiuste come lo schiavismo dei cristiani e, infine, come essa ebbe termine proprio a motivo di colui che è visto a torto solo come il grande illuminato che seppe valorizzare la civiltà araba: fu infatti, Federico II a porre fine alla presenza musulmana in Sicilia, una volta divenuto consapevole che, all’epoca, non era possibile una reale integrazione del mondo islamico al suo disegno. Consigliamo l’intero libro di Feniello per questa grande capacità che l’autore ha di mostrare i due lati della medaglia.
Qui il video con Amedeo Feniello e Andrea Lonardo per il Corso sul Basso medioevo che riprende, fra l'altro, alcuni dei temi del volume: 

[L’assedio musulmano di Siracusa, la caduta della città e la razzia] (da A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 6-18)

[In questa Italia del IX secolo] energia e sviluppo, intraprendenza e spirito di progresso arrivano dal mare, dalle coste contrapposte alla Penisola e non da nord, dall'interno di un'Europa che, almeno per la parte iniziale di questa storia, resta sostanzialmente assente.

PARLA UN MONACO

Questo ribaltamento, questo sovvertimento nasce limpido e scorre evidente se si dà semplicemente vita al racconto. Di conseguenza, esso non può che cominciare dalle parole di chi ha visto, di chi ha vissuto. Dalle parole di un uomo. Si chiama Teodosio. Non sappiamo molto di lui. Niente del suo viso, dei suoi atteggiamenti o della sua persona. Sappiamo che è un monaco e un grammatico. Uno che sa tenere bene in mano la penna, per mestiere. Un poeta. Che è un salvato, non un sommerso: per una fatalità. Un uomo che scrive da una prigione, dalla prigione di Palermo, da dove racconta, a chi può ascoltarlo, a chi può trarlo fuori da questa orribile condizione, una storia. La sua storia dell'assedio e della caduta della capitale bizantina di Sicilia, Siracusa, in mano musulmana.

Teodosio è un narratore eccezionale, direi unico nel suo genere. E da quello che descrive, da ciò che gli rimane impresso sulla retina, capiamo anche che uomo era: per quello che sceglie di raccontare, per quello che gli interessa, per ciò che trascura, per quello che riporta, per le parole che usa, di disperazione, di ammirazione, di stupore. Per i suoi sussurri. Per il continuo trasferire l'attenzione di chi legge dalla condizione della città assediata alla sua condizione di prigioniero. Perché Teodosio non è solo uno che scrive, ma una persona che subisce l'assedio: insieme scrittore, testimone, protagonista e vittima della più drammatica esperienza che si possa provare in una vita. Quella di vedere crollare una per una tutte le cose per cui si è vissuto. La propria casa, I propri libri. I propri oggetti. Le proprie speranze. I propri impulsi. Il proprio quotidiano. Le proprie certezze. E vederle cadere nelle mani del peggiore nemico che un cristiano del IX secolo possa immaginare. Nelle mani dei musulmani.

La lettera è indirizzata a Leone, arcidiacono. Un suo amico, da cui cerca aiuto. Una lettera personale, che vuol far toccare con mano ad una persona vicina, di fiducia, tutto l'orrore vissuto, che sta vivendo. Con un racconto che comincia nell'estate 877, con la descrizione dell'assedio, che a Siracusa arriva da mare e da terra. I musulmani si danno da fare: macchine da assedio, catapulte, arieti. Cunicoli per trovare, sotto terra, una strada per sfondare le mura ed entrare in città. Gli assalti si susseguono, improvvisi, da ogni lato, specialmente di notte, ma non si riesce a far breccia. Gli assalitori riescono però a rompere le catene che proteggono il porto. È il blocco navale. Dal mare non possono più entrare in città uomini, soccorsi e viveri. L'angolatura ora si sposta e dalle mura assediate l'occhio di chi racconta penetra in città: che si presenta spettrale, governata dalla fame. Lasciamo la parola a Teodosio.

Mentre fuori impazzava la spada, dentro la città il terrore spargeva largamente la morte, e sembrava quasi che quell'antico vaticinio di Mosè dovesse applicarsi. Finite le erbe selvatiche e le più sordide cose, che per la fame pure dovemmo ingoiare, fummo spinti sino a divorare la carne dei bambini, nefanda cosa e da tacersi. Mentre prima non si era trascurato di mangiare la carne dei morti e degli uccisi.

La fame non dà tregua. I sopravvissuti mangiano carne umana. Quella di chi è rimasto morto in battaglia, dei malati, dei bambini. Esiste una zona d'ombra nella vita di ogni uomo, cui adattarsi, anche nelle peggiori circostanze: Teodosio lo sa. Non cerca di accampare scuse, di trovare assoluzioni. Ci deplorate per quello che abbiamo fatto? Non avevamo, per sopravvivere, altra scelta.

Ma chi sarà mai che potrà deplorare adeguatamente le nostre sventure? Fummo prima costretti a cibarci di cuoia, di pelli, di qualunque altra cosa che ad affamati si credeva potesse essere di giovamento. Fino le aride ossa non furono risparmiate. Molti dei cittadini ridotti in questo stato prendevano le ossa, le macinavano, ci aggiungevano un po' d'acqua, che ne forniva in abbondanza l'Aretusa, e con questo nuovo cibo, con questa poltiglia, cercavano di sedare la fame.

I più ricchi cercano di comprare del cibo, ma i prezzi sono alle stelle. Siracusa è in una di quelle condizioni in cui il denaro non conta ormai più niente.

Già un moggio di frumento si vendeva a centocinquanta solidi d'oro; e dai fornai arrivava fino a duecento: perciò un pane del peso di sole due once, oh meraviglia, costava un solido d'oro; più di trecento solidi una giumenta, anche la più vile; quindici, venti solidi la testa di un cavallo. Rinomati come delizie la carne degli asini perché non c'era più altro tipo di carne, l'olio, ogni genere di condimento, il companatico, addirittura tutto ciò che a dire del teologo Gregorio forma il cibo del povero. Tutto era stato consumato, non si trovavano resti di formaggio, di legumi né di pesce.

La causa della carestia è il lungo assedio. Il blocco navale che impedisce alla città qualunque forma di contatto con l'esterno «perché sia l'uno sia l'altro porto tra cui giace Siracusa erano stati già occupati dal nemico, essendo già state prima rovinate e adeguate al suolo le fortificazioni che ne difendevano l'ingresso».

Alla carestia non possono che seguire le epidemie, con malattie diverse, ma tutte micidiali.

Alla fame, tenne dietro la pestilenza; il tetano, così detto dalle convulsioni uccideva molta gente; molti altri venivano colpiti dalla paralisi, che gli inaridiva metà del corpo; altri repentinamente morivano; ed altri, col corpo miseramente gonfio, offrivano uno spettacolo terribile, finché la morte liberava quegli infelicissimi da un così grave penare, anche se per molti la morte tardava miseramente a venire.

Il monaco, a questo punto, si interrompe. Fa fatica ad andare avanti. Glielo impedisce il ricordo di cose grandi, che è difficile riassumere in qualche riga. Come anche la sua stessa dimensione di carcerato, il cui flusso di pensieri è ostacolato dalla confusione che regna intorno a lui, fino a istupidirlo.

A tutte queste miserie altre ed assai e lunghe potrei aggiungere, se fosse lecito ad un prigioniero. Che altro posso fare io se non restringere cose grandi in poche parole, io che chiuso nel carcere nemmeno un istante ho di quiete, e il fitto buio mi ottenebra gli occhi e l'animo istupidisce, e lo strepito degli altri che sono con me in questo stesso carcere mi agita e stordisce la mente.

C'è tanta retorica in queste parole. Però permettono di toccare con mano la cella, il buio fitto, i corpi che si stringono l'uno all'altro, i suoni che si accavallano, il respiro che manca. Impongono a chi legge di spostare lo sguardo dalla città, che è una prigione che germina morte e malattie per tutti, al ristretto dolore personale del monaco. Alla sua cella di Palermo.

La pausa dura poco. E l'assedio riprende. Siamo sulle mura. Su una delle torri d'angolo, presso il porto grande, che diventa l'epicentro dei combattimenti. A difendere la città non ci sono solo siracusani. Vi sono mardaiti, greci del Peloponneso, uomini di Tarso. Anche le donne non mancano. I preti confortano e pregano. E Teodosio racconta del coraggio di chi resiste e combatte.

La torre che era all'angolo destro della città presso il porto grande, per la gran forza delle baliste che la percuotevano con dei sassi sconquassandola, in parte rovinava; cinque giorni dopo, a causa delle stesse macchine d'assedio, cadde anche il muro di difesa che alla detta torre era congiunto, sicché grande spavento agli assediati ne venne; ma quegli uomini valorosi e invitti, sotto la condotta del beatissimo Patrizio e capitano, controbattevano con impeto ai nemici si sforzavano di resistere sino allo stremo.

La resistenza si fa accanita. È il corpo a corpo.

Per venti notti e venti giorni, senza posa, strenuamente combattevano contro i nemici che da quella breccia tentavano di penetrare; e i difensori mostravano la loro grande nobiltà d'animo, reputando essere gloria insigne esporre il proprio corpo a tante ferite per la difesa della città.

Il monaco non partecipa ai combattimenti. È solo uno spettatore. Arriva, lui dice, solo in prossimità della breccia e, da lì, assiste alla zuffa. Ad uno scontro impari, cento contro uno.

I nemici erano tanti da sembrare una cosa incredibile, così che uno dei nostri doveva combattere con cento dei loro: una lotta che io chiamavo lotta di giganti ogni qualvolta andavo in quel luogo di battaglia, perché i nostri li spronava la gloria.

Dietro queste frasi di rito, c'è però tutto il terrore della battaglia, che Teodosio mostra con macabro dettaglio. Una scena grandguignolesca, un groviglio d'uomini, di armi, di arti spezzati, di sangue, di moribondi. Una breccia che non poteva avere altro nome che «del malaugurio».

Se qualcuno si fosse avvicinato a quella breccia fatale che volgarmente veniva chiamata del malaugurio, poteva vedere degli uomini mutilati in diversa e orribile maniera, altri con gli occhi cavati, altri col naso mozzato, chi senza le orecchie, chi senza palpebre, chi con le guance trafitte dai dardi e le frecce erano macchiate di sangue. Altri erano stati colpiti alla testa, altri ancora al cuore. A molti, infine, scoppiava il ventre e il petto per le ferite ricevute.

Ma Siracusa non cade a causa dello scarso coraggio dei difensori. Il motivo è che la giustizia divina ha voluto finalmente abbandonare questa città di peccatori: «finché tanto crebbe il numero dei nostri peccati, da provocare infine la spada già sguainata della divina giustizia. Era il mercoledì 21 maggio 878, quando la città cadde in potere del nemico».

MORTE DI UNA CAPITALE

L'atto finale per Siracusa si racchiude in una sola parola: la spossatezza. Gli ultimi rimasti a difendere quel tratto di mura, fondamentale per la difesa ma già compromesso, sono stremati e costretti a lasciarlo per poter tornare nelle loro case per riposarsi.

La severa giustizia di Dio avendo permesso che i più valorosi fra i combattenti fossero caduti o dispersi, e l'inclito Patrizio coi suoi commilitoni avendo lasciato le mura e andati nelle loro case per prendere ristoro, fece sì che i barbari avvicinassero a quella torre fatale i mangani e con facile battaglia entrarono in città, perché i difensori erano rimasti in pochi in quanto i cittadini in quell'ora non si aspettavano alcun attacco e sicuri pensavano a tutt'altro che alla difesa.

Non credo che qui Teodosio voglia riferirsi alla negligenza dei difensori, che lasciano le mura per tornare alle loro case. Egli non è mai critico nei loro confronti, anzi ne esalta sempre il coraggio, fino alla fine. Ciò che vuole mettere in luce è la sorpresa. Segue infatti un gran rumore di pietre che rotolano giù dalla torre, che cade in frantumi, trascinando con sé anche una scala di legno che congiungeva la torre alla murazione. Questa situazione avviene mentre il Patrizio, che comanda la difesa della città - un eroe per come la dirige e per come si comporterà nel momento finale dell'assedio e di cui nessuno ne ha ricordato il nome -, sta per cominciare a mangiare. Lo vediamo: tra le sue poche cose, davanti ad un pasto men che frugale, distrutto dalla fatica. D'un tratto un frastuono: «al grande fracasso il Patrizio si alzò dalla mensa, senza aver ancora preso cibo, pieno d'angoscia per quella scala».

La situazione si fa concitata. Il Patrizio ordina, comanda. Si muovono quelli attorno a lui. Si corre verso la breccia. Ma ormai i musulmani sono in città. È il panico. Tutta la gente che può si accalca nella chiesa del Salvatore: vecchi, donne, bambini. Sembra di poter sentire le loro urla, il loro sgomento. I pochi armati sopravvissuti si attestano fuori della chiesa, E sono spazzati via con una sola ondata. Gli assalitori entrano nella chiesa: è il massacro. Comincia un giorno «di tenebre e di caligine».

Spalancate con grande impeto le porte i nemici vi entrarono con le spade sguainate spirando fuoco dalle narici e dagli occhi: in un solo istante ogni età fu passata a fil di spada, e, per usare le parole del salmo, i principi e tutti i giudici della terra, i vecchi e i giovani, i monaci e gli sposati, i sacerdoti ed il popolo, il libero e il servo, anche gli infermi nessuno, oh buon Dio, risparmiarono quei carnefici. Sembrava venuto quel giorno di cui parla Sofonia, giorno di calamità e di miserie, giorno di pianto e di rovine, di tenebre e di caligine.

È il destino di ogni assedio. La strage conclusiva. In questo libro ne scorreremo parecchie, tuttavia nessuna è raccontata in modo così vivido. Ma Teodosio non è lì. Egli è altrove. Ma prima di raccontare la sua di vicenda, crea una suspence, e descrive innanzitutto cosa accadde ai protagonisti della difesa, a cominciare dal Patrizio, di cui tesse le lodi e sottolinea la coerenza rispetto a tanti altri ufficiali bizantini che avevano preferito accordarsi coi musulmani piuttosto che perdere la vita. Il Patrizio invece, da vero miles Christi, preferisce la morte.

Il magnifico Patrizio che si era rifugiato in una torre, l'indomani fu catturato vivo con altri settanta, e otto giorni dopo la presa della città fu messo a morte; il quale supplizio con tal forte e dignitoso animo sostenne, che nulla di vile né il più lieve segno di timore dimostrò; e non fa meraviglia, quando si considera che non scese a patti con nessuno per consegnare la città provvedendo così alla propria salvezza e col tradimento della città, egli che dove l'avesse voluto, avrebbe trovato molti, che non solo l'avrebbero lodato, ma anche aiutato nell'intercedere presso i musulmani. Ma egli preferì affrontare la morte, offrire il suo capo alla morte ad imitazione di Cristo.

Morte cristianissima, cui il Patrizio si era preparato in questo modo; «egli si era già preparato ad una pia e beata fine, poiché tutto il tempo della guerra lo passava a meditare sulla morte, e a esortare con i suoi ammonimenti sull'immortalità tutti quelli che, insieme, a lui, erano coinvolti nella difesa». Un esempio di santità, contrapposta all'efferatezza musulmana, che si accanisce crudelmente contro i compagni del Patrizio, il fior fiore della nobiltà greca di Siracusa.

I barbari poi presi tutti quelli che erano col Patrizio, ed erano tutti delle nobili famiglie di Siracusa, furono condotti con altri prigionieri fuori città. Raggruppati in un mucchio, come mastini rabbiosi, si avventarono contro di loro con pietre, bastoni, aste o altro che gli capitava loro nelle mani. Li ammazzarono crudelissimamente; e dopo morti, non sazi ancora, ne bruciarono i cadaveri.

Le atrocità non si interrompono. Proseguono. La più terribile punizione viene inferta a Niceta di Tarso. Questi, per tutto il tempo dell'assedio, negli attimi di tregua della battaglia, dall'alto delle mura aveva passato il tempo a maledire, in tutti i modi possibili, tutte le parole possibili, l'empio Maometto. La pena, una volta catturato, fu di essere scorticato vivo.

Teodosio questa carneficina non la vede di persona. Non ne è testimone diretto. I particolari li apprende forse dai suoi stessi compagni di prigionia o dai suoi carcerieri. Perché è fra i primi ad essere catturato, non appena i musulmani sono entrati in città, con un esito diverso da quello di tutti gli altri suoi concittadini e che lui stesso non si sarebbe mai aspettato. E la cronaca, ancora una volta, si inverte. Il monaco, da osservatore e narratore, diventa interprete di un racconto che si dipana con la descrizione dello sbigottimento, della sorpresa, della ricerca di un nascondiglio sicuro. Di mimetizzarsi, gettando via le vesti talari che lo avrebbero reso facilmente riconoscibile. Rimanendo seminudo.

Io, mentre ero nella cattedrale col vescovo e recitavamo le preghiere consuete, giunti alla fine del cantico, udii il crollo della torre. Grande fu lo sbigottimento. Ma fattici un po’ d'animo, mentre i nemici erano ancora intenti al saccheggio, deposto ogni altro vestimento, tranne quelli che portavamo di cuoio, ci riparammo nudi e atterriti con due chierichetti sotto l'altare maggiore, laddove il beatissimo Padre era solito placare l'ira di Dio, implorarne la misericordia per i suoi figli, ed essere esaudito, come spesso si vide nei fatti. Ma allora, per arcani giudizi di Dio, le sue preghiere non furono ascoltate. In quel luogo, pensando alla morte, scambievolmente io e il vescovo chiedevamo e ci davamo perdono.

La morte si avvicina. I musulmani irrompono nella chiesa. Trovano il monaco, il vescovo e i due chierichetti. Ma non li uccidono. Estremo atto di pietà? Possibilità di vendere i quattro come schiavi? Speranza di un buon riscatto, considerata l'importanza dei catturati? Per Teodosio, si tratta solo di un atto di pietà. Un miracolo,

Mentre il vescovo raccomandava la Chiesa al suo Angelo tutelare, ecco i nemici sparsi di sangue con le spade sguainate scorrere di qua e di là dentro la chiesa. Uno di questi, scostatosi dagli altri, si avvicinò all'altare, e come ci vide così rannicchiati sotto l'altare, Dio gli rammollì il cuore e, benché armato di una spada che grondava sangue, guardando il vescovo, gli si rivolse non con aspre parole o minacce ma chiedendo in greco chi fossimo e dove fossero i calici sacri.

L'uomo che salva Teodosio non doveva essere un personaggio di secondo piano. È un berbero di Sicilia, di nobile famiglia, forse di una di quelle immigrate nella prima ora dell'inizio del jihad. Si chiama Semnoen (forse Semmumem, che è nome berbero). Da buon siciliano di un certo livello, conosce e pratica anche la lingua greca. Ed è servendosi di essa che si avvicina al monaco. Fatto non inusuale a quel tempo, tra l'Isola e il Continente, dove per vivere (e, talvolta, per sopravvivere) bisognava conoscere le due grandi lingue franche del Mediterraneo, l'arabo e il greco. Semnoen non si mostra spietato. Lascia sopravvivere i quattro, anche perché il suo principale interesse è certamente rivolto altrove, alla possibilità di bottino, ai calici della chiesa, che rappresentano uno dei bocconi principali della razzia che si sta compiendo. E il vescovo e il monaco possono fornire le necessarie informazioni per scoprire dove si trovino: informazioni che rilasciano apparentemente senza alcuna esitazione.

Pervenuti con la nostra guida al sacrario dove erano i sacri calici, egli ci chiuse dentro e chiamativi gli anziani della sua nazione egli narrò loro cosa aveva fatto di noi, i quali mossi dalle sue parole, o meglio Dio disponendo tutto a buon fine, cominciarono ad essere meglio disposti verso di noi e dopo aver depredato i sacri vasi - erano tutti di squisita fattura e del peso di cinquemila libbre - ci fecero come prigionieri uscire fuori della città.

PRIGIONIERI

Immaginiamo ora, per un attimo, questi uomini: storditi, incatenati, seminudi, che camminano in una città, nella loro città, in mezzo al fumo, al massacro, al saccheggio, alle violenze. Accanto a loro, visi sconosciuti tra quelli conosciuti, di gente che è appartenuta al proprio mondo, un mondo che ora non esiste più. Tutto questo, Teodosio lo tralascia. Tutto lo spazio che c'è tra la chiesa dove è stato catturato e il luogo della sua detenzione, è come se scomparisse. Deve scomparire, per lui e per il lettore, perché credo che sia quello impregnato del maggiore dolore. Ma torniamo al racconto. La prima prigione dove viene rinchiuso viene descritta da Teodosio con dolore, irritazione, disgusto. È passato dalla sera alla mattina da una condizione umana e accettabile, benché piena di privazioni, ad una disumana, ripugnante.

Qui ci richiusero in una di quelle camere dove i nostri corpi furono da ogni genere di molestie tormentati; poiché il luogo si riempì del fetore degli escrementi e dei vermi che da essi scaturivano che sogliono riprodursi e pullulare, e dei topi che vi dimorano, e di sciami di pidocchi e d'altri insetti che come un esercito facevano di noi orribile strazio. Come scese la notte, fummo immersi in tenebre quasi palpabili, e la prigione si riempì di un fumo che veniva da fuori che ci toglieva il respiro.

Il soggiorno di Teodosio in questa prigione dura trenta giorni. Il tempo, spiega, che ci volle ai musulmani per radere al suolo le principali fortificazioni cittadine. Tutto ciò che c'era in città fu bruciato. Il bottino, insuperabile, ammontò, dicono le fonti ma non c'è certezza su questo dato, a circa un milione di solidi d'oro, equivalenti a qualcosa come quattromila chilogrammi d'oro. Il bilancio in perdite umane fu gravissimo. Diciamo che furono parecchie migliaia, se vogliamo dar conto a Ibn al-Atir.

L'odissea di Teodosio prosegue. Intraprende una lunga marcia verso la capitale musulmana, Palermo.

Non molto tempo dopo partimmo per Palermo, cammino che durò sei giorni e nel settimo, dopo che avevamo camminato notte e giorno senza posa, bruciati dal sole di giorno, gelati la notte, arrivammo alla celebratissima e popolatissima città.

È passato poco più di un mese da quando Siracusa è caduta e Teodosio è stato catturato. Egli è fra i prigionieri, parte di un enorme corteo trionfale, che entra e scorre per le vie di Palermo. Il suo odio per i musulmani e la loro capitale, che sarà il luogo della sua detenzione, dovrebbe essere forte: il disprezzo e l'avversione che deve provare un uomo ridotto in bestia, costretto, privato di tutto, che cammina verso un destino di sofferenze. Invece le sue parole sono di stupore. Nonostante tutto, Palermo è il centro del mondo. Una delle più straordinarie città dell'ecumene musulmano.

Si facevano incontro tutti i popolani che per grande allegrezza intonavano canti e con acclamazioni ricevevano i vincitori carichi di preda. Però entrando in città e vedendo la grandissima moltitudine dei cittadini e dei forestieri, ci rendemmo conto che non era dissimile all'opinione che c'eravamo fatta di essa: poiché sembrava che tutta la razza dei saraceni dall'Oriente all'Occidente, da est ad ovest, fosse lì convenuta.

Descrizione che continua con una preziosa digressione sulla fisionomia stessa della città, che al monaco appare come composta da una serie di aggregati suburbani, tante città insieme, accalcate l'una accanto all'altra.

A causa di un così gran numero di abitanti, i cittadini, costretti, hanno cominciato a costruire nuove case e ad abitare fuori le mura, in modo da sembrare Palermo non una ma tante città insieme, contigue alla prima, ma non inferiori a nessuna per tenuta militare.

L'avventura di Teodosio non termina ancora. C'è ancora tempo per un incontro eccezionale, direttamente col conquistatore di Siracusa: l'emiro Jafar ibn Muhammad. Un incontro decisivo, non tanto per gli esiti personali - non c'è alcuna soluzione, per ora, alla prigionia - ma perché, in esso, si iscrive tutta la distanza che c'è fra le due civiltà, le due religioni cristiana e musulmana. Teodosio, in questo caso, è solo un semplice testimone. L'emiro desidera parlare col vescovo. Con lui, viene condotto davanti a Jafar anche Teodosio. Si trovano di fronte il passato e il presente: l'ultimo rappresentante della chiesa cristiana in Sicilia, l'arcivescovo di Siracusa, in catene, e l'emiro, la spada di Allah, colui che incarna l'islamismo in quest'ultimo angolo del mondo musulmano. Questi sopravanza i due prigionieri. Seduto su un seggio elevato. Separato da tutti gli altri da un velo «steso fra noi ed i suoi sguardi». L'emiro ha delle curiosità. Non conosce il greco, ma vuole parlare col vescovo. Ha desiderio di porgli delle domande. Vuole capire come e quali differenze ci siano tra la sua religione e quella del cristiano. La disputa religiosa che segue tra i due racchiude tutta la storia di una incomprensione millenaria. Che durerà nel Sud Italia quasi cinquecento anni. Un breve botta e risposta, di grande intensità. Di cui Teodosio riporta, chiaramente, solo dei passi.

Passati cinque giorni, fummo introdotti davanti all'emiro, che sedendo sopra un soglio elevato, si gloriava superbamente del suo potere. Ci separava un velo steso tra noi ed i suoi sguardi. I ministri presentarono il vescovo. Attraverso un interprete, l'emiro chiese "osservi tu il nostro modo di pregare?", "no" - rispose il vescovo -, "e perché", "perché io sono il sommo sacerdote di Cristo e maestro dei servi di quel Gesù che i Giusti e i Profeti hanno vaticinato"; "presso di voi - ripigliò l'emiro - non esistono veri profeti, ma tali sono di nome, da cui non ti sei mai scostato con le tue dottrine, perché in giro camminano sempre gli empi". Ma il vescovo: "noi non bestemmiamo i profeti, che anzi abbiamo appreso a non ingiuriarli ma piuttosto onorarli e con grande riverenza ascoltarli. Il profeta che poi voi adorate noi non lo conosciamo".

La disputa finisce qui. I punti toccati sono centrali: voi non riconoscete Gesù, noi non riconosciamo il vostro falso profeta. L'inconciliabilità è totale. L'ultima parola è naturale che Teodosio la attribuisca al vescovo, che per il monaco è il trionfatore in questo scambio tra opposte visioni religiose. Sarebbe stato inconcepibile il contrario.

Terminata la controversia, riprende il calvario. I due uomini vengono ricondotti per strada e trascinati fino alla prigione. Lungo il percorso sono attorniati da una folla di curiosi, che vogliono sapere chi sia il celebre vescovo di Sicilia. Vederlo. Toccarlo. Tra essi dei cristiani, che compiangono la sorte dei loro correligionari.

Dopo queste risposte, l'emiro ordinò che subito fossimo restituiti al carcere. Avanzavamo fra le strade della città davanti a tutto il popolo. Molti cristiani ci seguivano compiangendo palesemente la nostra miseria, mentre molti altri della setta contraria, per curiosità, si affollavano intorno a noi, e ci chiedevano chi fosse il celeberrimo arcivescovo della Sicilia: in questo modo passavamo in mezzo alla folla.

L'ultima parte della lettera è dedicata alla prigionia. La cella di Teodosio è un mondo di dimenticati. Si è pensato che, per la stessa possibilità che egli avesse di scrivere, di esporre liberamente le proprie sciagure, egli si trovasse in una condizione di semilibertà, con un minimo di possibilità di movimento in più rispetto ad altri. Non lo credo. Non sarebbe il primo caso, di gente che in condizione drammatica, riesce a conservare lucidità e possesso delle proprie facoltà mentali. Teodosio è uno di quelli che ci riesce e che, attraverso la lettera, cerca una salvezza, un appiglio: verso l'esterno e per se stesso. Il suo carcere è un carcere duro, fumoso, scuro. Denso di caligine. Una fossa. Affollato di gente di ogni risma, di ogni provenienza, alcuni dei quali incatenati al muro con ceppi.

Finalmente fummo gettati in questo carcere, che è una fossa, in cui si scende per quattordici scalini, sola finestra è la porta. Per questo motivo, è un luogo di tenebra fitta e continua. Di giorno, l'unica luce viene da una lucerna, e questa assai fioca. Mai un raggio di sole né di luna ci colpisce, siamo sempre tormentati dai calori estivi, accresciuti dal fiato dei nostri compagni, ed inoltre ogni sorta dei più schifosi insetti, di cui il suolo è pieno, rendono ognuno di noi una misera piaga. Sono nel medesimo carcere chiusi con noi, e partecipi della stessa miseria, etiopi, tarsensi, arabi, ebrei, longobardi ed altri cristiani, da varie parti qui capitati, fra i quali il santissimo vescovo di Malta, che ha i piedi stretti con due ceppi.

Una prigionia che trascorre tra mille sciagure. «Sempre desiderando quella morte che noi infelici prigionieri ad ogni ora sovrasta.»

Teodosio trascorrerà otto anni nelle prigioni palermitane. Nell'886, in uno dei consueti scambi di prigionieri, nel corso di una delle tante tregue del jihad, pare che egli fosse rilasciato. Da allora, se ne perdono le tracce. Ma nella storia di costui c'è la chiave per comprendere tutti i secoli della presenza musulmana in Italia. Gli orrori, le violenze. Le ambiguità, i fanatismi. La pietà, la rabbia. Il senso del sacro, la sete di guadagno. Gli splendori, la tolleranza. Dall'una e dall'altra parte. Di uno scontro epocale, che comincia cinquant'anni prima di Siracusa a Mazara del Vallo, il 15 giugno dell'827, data di inizio della presenza musulmana in Italia. Presenza che si spegnerà, con altrettanta inaudita violenza, agli inizi del Trecento. In un'altra epoca. In un altro contesto.

[La tratta degli schiavi operata dai musulmani e dai bizantini] (da A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 154-161)

MERCANTI D'UOMINI

La fortuna iniziale delle città tirreniche, la sua fonte di accumulazione primaria, si basa sulla carne umana. Sul commercio d'uomini. La notizia non deve suscitare scandalo: non è la prima volta nella storia. E non sarà neanche l'ultima. La necessità di forza motrice e di manodopera a costo zero è essenziale per le società preindustriali quasi assolutamente prive di forme di energia alternative. Tutto il grande progresso di civilizzazione urbana islamica; tutto lo sforzo per costruire moschee, palazzi, edifici, porti, arsenali; tutta la capacità di sfruttamento dell'oro che giunge dal centro dell'Africa; tutto il lavoro di produzione rurale ed artigianale che è alla base delle fortune dell'economia della Geniza e della crescita e dello sviluppo di vaste zone; tutta l'energia per muovere barche e galee sono in gran parte frutto del lavoro servile. E non accade diversamente a Bisanzio, L'economia mediterranea, dal Cairo a Cordova, da Qayrawan a Costantinopoli, per muoversi, per marciare e produrre ha una costante fame d'uomini e di braccia.

Non è questa però l'unica funzione di uno schiavo. Essi servono anche per arricchire la vita sociale. Sono spesso oggetti di lusso. Pensiamo solo alle forme di schiavitù domestiche, nelle grandi corti di Cordova, del Cairo, di al-Mahdia, di Bagdad, di Palermo (usanza poi ripresa dai sovrani normanni). C'è bisogno di donne di servitori, di cantori, di musici di palazzo. A Cordova, l’harem di Abd al-Rahman, vissuto nella prima metà dell'XI secolo, contava, dicono le cronache, seimilatrecento donne. Il palazzo fatimide del Cairo, dodicimila. La sitara, specie di orchestra da camera, è un altro elemento del lusso. Esistevano delle scuole speciali, a Bagdad, a Medina, a Cordova: vi si istruivano gli schiavi alla musica, alla danza, alla letteratura, alla poesia, alla grammatica. Gli schiavi così educati raggiungevano prezzi astronomici e alcuni di essi diventavano famosi. Lombard racconta il caso di Israq as-Suwaida, schiava di colore che divenne celebre nel X secolo per le sue conoscenze di grammatica e prosodia. Non vanno poi dimenticati gli eserciti di schiavi utilizzati come guardia scelta dai signori musulmani. Come gli Omayyadi di Spagna che possedevano a corte una schiera di diecimila schiavi slavi.

Gli eunuchi meritano un discorso a parte. Ce n'erano tanti, sparsi in tutte le corti del Mediterraneo. A Bisanzio, lo stesso imperatore Costantino VII Porfirogenito, che governò tra il 913 e il 959, sosteneva, con un'espressione efficace, che nei palazzi imperiali ve ne fossero così tanti «quante d'estate le mosche in un ovile». Erano perfetti, per l'educazione che gli veniva impartita, in qualità di consiglieri, maggiordomi, valletti, paggi, segretari ecc. A corte viene creato uno specifico ordine degli eunuchi, numeroso e gerarchicamente organizzato, il quale aveva un ruolo importante nel cerimoniale di corte. Ma il loro uso era esteso al di fuori della corte. Ogni famiglia di rango cercava di averne qualcuno al proprio servizio, per le esigenze del gineceo e per una buona conduzione della vita familiare. Nel mondo musulmano la presenza di eunuchi era altrettanto assidua. Specialmente per la custodia degli harem. Ci si richiamava a tal proposito al versetto 31 della sura XXIV del Corano, che imponeva alle donne di «custodire le proprie vergogne e di non mostrare troppo le parti belle, eccetto quel che di fuori appare, altro che ai propri mariti, ai propri padri, ai propri suoceri o ai propri figli [...] o ai loro servi maschi privi di genitali».

Quello degli eunuchi era un mondo di disperazione. Meglio: di bambini disperati. Ridotti a schiavi, venivano sottoposti all'operazione in tenera età. Il rischio di mortalità era molto elevato. Su uno stock di una novantina di bambini, ne sopravvivevano meno di cinque. Gli adulti non venivano sottoposti all'evirazione: la morte avrebbe significato perdere un pezzo pregiato da piazzare sul mercato. Scrive Pasquale Corsi: «l’abbondanza di bambini e, quindi, il loro minor valore di mercato, senza l’aggravio delle spese di allevamento e di addestramento, erano tutti elementi che incoraggiavano ad affrontare i rischi dell’operazione. A ciò si aggiunga che un’operazione precoce eliminava o riduceva notevolmente le conseguenze negative dei contraccolpi psicologici, inevitabili in un soggetto adulto». Non credo tuttavia che uomini che si accingessero ad evirare uno schiavo, bambino o uomo che fosse, avessero remore circa la sua tenuta psicologica. Una merce è una merce. Ed il prezzo di un bambino era minimo; mentre un adulto valeva e, se moriva, la perdita era elevata: sta tutta qui l’esigenza di scegliere un bambino piuttosto che è un uomo fatto. Ciò che è peggio è che sottoporsi a questa orribile mutilazione in molti casi rappresentava l’unica possibilità di vita, di poter sopravvivere in una condizione di continue razzie, orrori, fame e brutalità. Per sfuggire ad un mondo dove spesso non vi era nullam spem vivendi, nessuna speranza di vita.

Il destino drammatico degli eunuchi non si arresta in questa prima fase. Sia nel mondo greco sia in quello musulmano, tra la gente prevaleva un senso di autentico disprezzo verso la diversità che essi rappresentavano. Rapporto che si intorbidiva ancor di più quando un eunuco, e succedeva, ascendeva al potere. A quel punto gli equilibri psicologici potevano saltare «per le connessioni con l’esercizio di un potere, a volte assoluto, e con l’esperienza quotidiana di una marginalità tanto più umiliante quanto più insanabile». Solo pochi arrivano in alto; ad esempio quelli che attornieranno i re normanni: tra gli altri, Filippo di al-Mahdia; il gaito Pietro, comandante della flotta; l’eunuco Andrea, paggio di corte; il crudele ma anche fedelissimo eunuco Martino, ricordato da Ugo Falcando. Ma essi rappresentano solo una punta di un iceberg. E tutti gli altri? Cosa ne è della loro vita e della loro condizione, di questa massa di diversi, che resta senza storia e senza memoria?

Gli eunuchi potevano arrivare nelle città musulmane o bizantine solo per importazione, perché le rispettive leggi proibivano l’evirazione. Tra le regioni che rifornivano Bisanzio c’erano la Persia, l’Armenia, il Caucaso. Nel regno abbaside, invece, molti eunuchi arrivavano dalla Nubia e dall’Europa occidentale: certamente da Verdun, dove era una delle principali zone di fabbricazione di eunuchi, che riforniva «con immenso lucro» la corte omayyade di Cordova. In Sicilia invece l’area di provenienza degli eunuchi corrispondeva all’ampiezza del jihad, con una corrente di giovanissimi prigionieri, razziati lungo le coste meridionali come nelle fasce interne longobarde. E ad alimentare la richiesta pensavano spesso i veneziani, che acquistavano schiavi nei paesi slavi.

Visti gli ingenti guadagni che si potevano ricavare dalla loro vendita, in molti casi sia a Costantinopoli sia nel mondo musulmano le leggi locali venivano aggirate e si provvedeva a creare eunuchi in casa propria. Scappatoie spesso permesse dall’intrico e dalla ambiguità di alcune norme, come le novelle promulgate dall’imperatore Leone VI (886-912) con le quali si consentiva l’amputazione dei genitali, quando ciò servisse non tanto a mutilare la natura ma «a venire in suo soccorso». Terribile pasticcio, quasi come se si volesse creare una razza di creature nuove, che spianava la strada a situazioni indiscriminate e incontrollabili.

Quanto poteva costare uno schiavo è difficile dirlo. Il prezzo medio si aggirava tra i trenta e i sessanta dinari. Ma con prezzi che potevano essere molto più ridotti, anche sui dieci-venti, per la manovalanza. Per gli schiavi specializzati e per gli eunuchi si raggiungevano prezzi più alti. A Bisanzio si sa che venivano venduti anche a sessanta-settanta solidi, tradotto sarebbero circa settanta-ottanta dinari. Claude Cahen riferisce pure di situazioni estreme, di schiavi venduti nei paesi musulmani per cifre esorbitanti, fino a mille o addirittura duemila dinari. Prezzi che si riferiscono verosimilmente a personale altamente specializzato, di pregio assoluto.

Questo commercio, dunque, ha un posto di primaria importanza nell’economia mediterranea; schiavi di cui bisogna approvvigionarsi al di fuori del dar al-Islam o oltre i confini dell’impero bizantino, approfittando delle flessibilità della frontiera, del no man’s land, delle zone di guerra, dove far preda risultava più facile. Il Sud Italia al tempo del jihad diventa uno dei terreni ideali. I saraceni lo sfruttano a dovere in una fase calda del mercato, quando la crisi demografica dell’VIII secolo ha ridotto di molto la manodopera e nel mondo musulmano cresce la domanda. Non sappiamo che volume abbia avuto questo commercio. In alcuni periodi credo abbastanza nutrito, soprattutto negli anni di vita dell’emirato di Bari, quando testimoni oculari raccontano di navi in partenza dal porto di Taranto per l'Egitto, cariche di centinaia e centinaia di schiavi.

È proprio la guerra santa a spingere Amalfi, Napoli e Gaeta verso questo proficuo settore economico. I saraceni trovano subito redditizia l'alleanza: i loro abitanti conoscono meglio il territorio e sono interessati a guadagnare presto e molto. Le cittadine sono dotate di approdi sicuri, con buone infrastrutture per l'imbarco, il trasporto e la vendita. Gli esordi li conosciamo. Ne parla la celebre lettera scritta da papa Adriano I nel 776 a Carlo Magno, dove i protagonisti in negativo sono i «maledetti greci», nei quali è possibile riconoscere i razziatori delle città tirreniche: «abbiamo trovato nelle vostre cortesi disposizioni a proposito del commercio degli schiavi come se fossero stati i nostri romani a venderli ai nefandi saraceni. Mai e poi mai abbiamo commesso un simile crimine né abbiamo consentito che fosse commesso; piuttosto i maledetti greci da sempre andavano navigando lungo le coste longobarde, compravano famiglie, stringevano amicizie con gli stessi longobardi e proprio da costoro ricevevano degli schiavi». Già da queste parole si capisce come in questo commercio siano coinvolti tutti insieme: saraceni, greci e la stessa gente longobarda, irretita dal guadagno. Ma c'è un particolare che rende la lettera, se è possibile, ancor più agghiacciante: che molti longobardi chiedono di essere imbarcati come schiavi, privandosi, a loro stesso arbitrio, della libertà: «i longobardi hanno venduto parecchie loro famiglie, costrette dalla fame. Altre persone, tra gli stessi longobardi, si imbarcavano spontaneamente sulle navi greche, in quanto prive di ogni mezzo di sostentamento». Per tanti uomini del tempo, dunque, meglio la schiavitù di una morte certa.

Il cronista Erchemperto, tempo dopo, descrive lo stesso clima di razzia di uomini, che non sembra assolutamente mutato dall'epoca di papa Adriano. Il ritmo è sempre scandito dai «maledetti greci», che controllano insieme ai saraceni questo mercato. Dando prova di singolare bestialità: «dirò brevemente come mai la divina bontà abbia permesso tanto a quella gente nefanda. I greci per loro abitudine e per la loro indole sono uguali alle bestie: di nome sono cristiani ma per il loro comportamento sono peggiori degli agareni. Rapiscono infatti moltissimi fedeli e ne vendono parte ai saraceni; con altri riempiono, come mercanzia, le spiagge del mare e altri ancora li riservano per sé, come schiavi e schiave». Cristiani che vendono a cristiani. Saraceni che ne approfittano. Spiagge fitte di donne, uomini e bambini costretti e pronti all'imbarco. Sfruttamento diretto di tanti altri che non vengono destinati alla partenza, ma restano nelle stesse case dei mercanti di uomini, che preferiscono tenere per sé famuli e famule, che ingrossano l'esercito dei propri servitori.

Su questi mercanti cristiani non esiste quasi alcuna notizia. Qualcosa traspare dalle fonti agiografiche. Ad esempio, la vita di sant'Elia il Giovane (ricordiamo, del IX secolo) racconta non solo come il santo, in gioventù, venga rapito più volte nel corso della sua esistenza e ridotto in schiavitù; ma che abbia fatto parte addirittura, una volta, di un nutrito carico, composto da duecento persone. Venduto da un gruppo di corsari saraceni ad un cristiano non specificato, Elia viene trasportato in Africa dove viene ceduto ad un altro cristiano: un mercante, che affida al futuro santo tutti i suoi affari. La vita di san Leone racconta invece un episodio che stigmatizza la condotta morale di uno di questi trafficanti e fornisce un'importante indicazione sull'atteggiamento religioso nei confronti dei commercianti di uomini. Il racconto si svolge così: il mercante viveva vicino Reggio, nello stesso luogo dove risiedeva un santo monaco chiamato Arsenio. Più volte questi l'aveva rimproverato per l'infamità della sua professione e per la sua indescrivibile avidità d'oro. L'uomo però, come c'era da aspettarsi, non aveva provato alcun rimorso. Per questo motivo, cade su di lui la maledizione divina e muore. La moglie del mercante, allora, cerca di salvare l'anima del marito e dona ad Arsenio un solido d'oro, perché celebri una messa in suo ricordo. Il monaco tentenna. Gli scrupoli sono parecchi. Prima rifiuta, poi accetta. Comincia la messa. Sicché, nel momento in cui il monaco sta per pronunciare il nome del mercante defunto, un angelo arriva dal Cielo, e, con una mano, gli tira la veste sacerdotale, mentre, con l'altra, gli tappa la bocca impedendo al monaco di pronunciare quel nome empio e immorale. Interrotta la messa, al monaco non rimane altro che prendere il denaro e riconsegnarlo alla donna.

Per capire bene come funzionassero le dinamiche delle razzie di schiavi compiute dai mercanti tirrenici, val la pena di osservare la situazione napoletana. I razziatori di questa città procedevano in diversi modi, avendo come obiettivo la popolazione longobarda, particolarmente indifesa: attraverso rapidi attacchi, incursioni, singoli rapimenti di donne e bambini, specialmente nel ventre molle del territorio, la Liburia, a nord della città, zona di confine sempre in bilico tra i due contendenti napoletani e longobardi. I principi longobardi cercano di tamponare il flusso. Lo fa Sicardo, nell'836, col patto di tregua stabilito coi napoletani, rappresentati dal duca Andrea II. I commi quattro e cinque sono assai precisi. Il primo intima «di non comprare longobardi né di venderli super mare», e in caso di trasgressione commina pene pecuniarie che vanno dai cento ai duecento solidi. Il secondo invece chiarisce sulle forme dello scambio di contadini della Liburia, i cosiddetti tertiatores, uomini senza una precisa identità giuridica, né napoletani né longobardi, i quali seguono una ben triste sorte: razziati dai longobardi, venduti ai napoletani, portati da questi al porto cittadino, caricati su navi di intermediari (musulmani di Sicilia o d'Egitto, ebrei, amalfitani), rivenduti ancora una volta nei porti africani e spagnoli. In ognuno di questi passaggi c'è qualcuno che si arricchisce. Al flusso di contadini della Liburia va posto un freno, stabilendo che questo tipo di tratta possa essere effettuata soltanto nel caso che uno dei tertiatores sia accusato di omicidio. Ma è evidente che si tratta di una misura sintomatica di una situazione di emergenza, con una corrente che tende ad accrescersi via via, per naturale sollecitazione della continua domanda e per le altissime probabilità di profitto. Se infatti facciamo due calcoli, se anche si doveva pagare una multa di cento o duecento solidi ai signori longobardi, un buon carico, mettiamo di cento schiavi, comportava un guadagno netto di dieci, venti volte tanto.

Questa storia di schiavismo termina quasi del tutto dopo la distruzione dell’énclave musulmana del Garigliano, quando il commercio di uomini da parte di operatori meridionali rallenta. Ripeto: rallenta, ma non scompare. Gli schiavi restano parte integrante del paesaggio umano delle città tirreniche, dove abbondano le notizie su servi, su famuli, su gente che viene venduta e riscattata, e su pietose richieste di aiuto per poter rivedere il proprio figlio o la propria moglie venduti sulle coste africane.

Alla fine di questo paragrafo, spero che appaia come la tratta degli schiavi, una delle principali voci nel commercio mediterraneo, rappresenti per le città tirreniche un volano di sviluppo. Esse seppero generare un efficace sistema di importazione/esportazione, che funzionò così: con la razzia; la vendita presso i porti cittadini o negli scali di arrivo, in Sicilia o in Africa, della merce; e la realizzazione di altissimi ricavi, in moneta pregiata. Cosa si faceva del denaro guadagnato? Immagino che molto fluisse nelle forme del prestigio e del lusso. Altro veniva forse convogliato, paradossalmente, in donazioni e in legati pii: lo lascia intendere bene l'episodio del mercante di schiavi reggino. Ma il surplus veniva reinvestito in altre fonti di sviluppo: traffici, compravendita di terre, investimenti per la bonifica di nuovi spazi coltivabili. I mercanti di schiavi, col loro terribile lavoro, riprovevole, disapprovato e bollato dalla morale corrente, innescarono un circuito crudele ma, da un punto di vista economico, efficace: uno dei trampolini di lancio delle fortune economiche delle città tirreniche, tra cui Amalfi.

La conquista normanna della Sicilia e le violenze conseguenti (da A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 196-207)

L'ULTIMO «MUJAHIDIN»

23 febbraio 1091. Scrive, in questa data, ibn al-Atir: «quest'anno i franchi, che Dio li maledica, occuparono completamente l'isola di Sicilia. Che il Sommo Iddio la renda all'Islam e ai musulmani». I tratti della conquista normanna della Sicilia sono ben conosciuti. La causa principale dell'arrivo degli Altavilla è racchiusa nella fitna, il periodo di anarchia siciliana, di guerra intestina che crea le condizioni adatte alla riconquista cristiana. È un principotto locale, il caid Ibn ath-Thumma, che per vendicarsi di un suo rivale, Ibn al-Hawwas, chiede aiuto ai normanni, in una condizione non dissimile a quella che aveva consentito la creazione dei primi insediamenti normanni nella parte continentale del Meridione. I reparti normanni sbarcano nel 1061 a Calcara, a sud di Messina. Senza combattere, prendono la città. Investono Castrogiovanni. Occupano vari piccoli centri ancora cristiani: Rametta, Troina, Paternò. Il comando è per ora nella mani di Roberto il Guiscardo. Suo fratello, Ruggero, è il suo secondo. Il caid musulmano agevola la penetrazione normanna, attraverso aiuti militari ed alleanze con altri capi locali. Ma la campagna si ferma. Gli Altavilla ritornano al di là del faro, conservando il possesso della base messinese. L'anno dopo, si riparte. Petralia e Troina si arrendono. Ibn ath-Thumma intanto muore, ucciso a tradimento. Una volta scomparso l'alleato musulmano, i due Altavilla continuano da soli nell'impresa di Sicilia. Con un capovolgimento nei ruoli: il subordinato Ruggero, infatti scavalca il fratello nella conduzione delle operazioni. Diventa la figura eminente. Il reale stratega della conquista.

La reazione musulmana non si fa attendere. Nonostante i dissidi e le discordie interne, si cerca di opporre una resistenza agli aggressori. L'aiuto lo si cerca soprattutto sulla sponda opposta. Tra i paesi gemellati per razza, identità e religione. Si guarda all'Ifriqiya, dove ai Fatimidi erano subentrati i loro luogotenenti, gli Ziriti. Scrive Ibn al-Atir: «i siciliani narravano le condizioni in cui vivevano i musulmani dell'isola; la discordia tra loro; l'irruzione dei franchi». Gli Ziriti non negano l'appoggio. Si fanno al contrario promotori di un'azione di forza. Inviano aiuti navali e terrestri. Le sorti della guerra sembrano raddrizzarsi in favore musulmano. Tuttavia i dissidi interni fra capi locali e alleati ziriti determinano un rallentamento. Il sostegno venuto dall'Africa tende a dissolversi. Ibn al-Hawwas muore in combattimento nel 1064. Nel 1068, la sconfitta di Misilmeri spinge gli Ziriti a reimbarcarsi e far ritorno a casa. Non c'erano più la forza né la voglia, da parte loro, di impegnarsi a fondo nella difesa di quell’ultimo baluardo dell'Islam. Nel 1072 i normanni prendono Palermo, dopo un lungo assedio. Dopo duecentoquaranta anni cessa di essere una città musulmana. A questo punto, l'estensione territoriale normanna nell'Isola si bilancia con quella musulmana: il Val di Mazara, salvo Trapani, e buona parte del Val Demone sono nelle mani degli invasori. Mentre  il Val di Noto, con l'inespugnata Castrogiovanni e Girgenti, è ancora Islam. Ruggero è ora il Gran conte di Sicilia.

La resistenza dei musulmani di Sicilia ai normanni sembra incolore. Relegata ad episodi locali. Senza una meta precisa. Priva di direzione. L'unico collegamento è col Nord Africa, coi Ziriti, anello di una catena di relazioni che resta ancora fondamentale per la comunità isolana. E appare lucidamente che, quando il loro appoggio manca, tutto attorno crolla. Eppure, anche in questo caso, la resistenza si dipana su un tempo lungo - un trentennio -, con sacche di resistenza che proseguono la guerra in maniera acuta e costante. Di essa conosciamo ben poco. Per le fonti arabe non esiste. Il perché è nei fatti. Agli occhi di chi scrive dal Cairo o da Qayrawan, i signorotti locali siciliani non erano gente che lotta per resistere all'invasore, ma invischiata in un combattimento minimalista e suicida il cui unico effetto è la consegna dell'Isola nelle mani dei miscredenti. D'altra parte, perché occuparsi di una storia lontana, di vinti, che segna il decadere e lo scomparire dell'Islam dalla Sicilia? Che interesse poteva destare in chi considerava ormai l'Isola solo un vecchio retaggio musulmano, tornata ora ad essere terra cristiana? La Sicilia è out. Non appartiene più al loro universo. Di conseguenza, può essere consegnata all'oblio.

Dunque, per scoprire la storia di questa resistenza ci si deve muovere a fatica, tra le pieghe dei racconti, specialmente di parte cristiana. Storie di coraggio o di disperazione, di un'opposizione accanita, che ci riconducono ad una condizione umana dove la violenza normanna era all'ordine del giorno. Ne sappiamo qualcosa dalle lettere di due ebrei della Geniza, che testimoniano su quanto di terribile stia accadendo. La prima - scritta verso il 1061-1062 da un ebreo siciliano che ha dovuto lasciare l'Isola ed è ancora sotto shock per quello che ha visto - riporta: «niente di buono resta in Sicilia. Lasciami descrivere in quale situazione ho lasciato le mie cose. Sono stato testimone di eventi che non avrei mai immaginato di dover vedere in tutta la mia vita a causa dell'eccessivo spargimento di sangue. Ho camminato su corpi così compatti l'un l’altro che sembrava un unico selciato». La seconda, del 1065, parla della progressione normanna e del conseguente esodo di popolazione. Lettera nella quale il normanno è il nemico comune, tanto Per i musulmani quanto per gli ebrei: «le notizie della Sicilia sono molto brutte. Il nemico se ne sta impossessando ed ai musulmani rimangono soltanto Palermo, Mazara e Qasrini. La gente sta fuggendo verso il continente». Continente che per loro, si badi bene, è la comune patria d'elezione, il Nord Africa, e non la Penisola italiana.

Una violenza terrorizzante, adoperata con metodo, per fiaccare qualsiasi reazione. Attestata da Malaterra, che racconta come dopo la vittoria di Misilmeri Ruggero abbia trovato tra le spoglie dell'accampamento avversario dei piccioni viaggiatori, che il conte fa inviare a Palermo con messaggi scritti col sangue dei propri nemici. I nuovi arrivati seminano la paura, che dilaga e spinge la gente a scappare. O a sopprimere i loro congiunti più deboli, nel timore che i normanni da un momento all'altro piombino loro addosso, come avviene in questa storia raccapricciante e, al tempo stesso, struggente, riportata dal solito Malaterra. Questi narra che quando Ruggero si impadronì di Messina, un giovane nobile musulmano pensò bene di fuggire con la sorella, per impedire che entrambi cadessero nelle mani dei cavalieri normanni. Seppur il ragazzo la incoraggiasse «con parole dolcissime», la ragazza, poco abituata allo sforzo di una fuga precipitosa, non riusciva ad affrettarsi. Non sapendo più come fare, con i normanni ormai alle costole, il ragazzo preso dalla disperazione, tra i singhiozzi, la uccide: «egli, pur versando amare lacrime per l'affetto per la sua unica sorella aveva preferito ucciderla e piangerla morta, piuttosto che saperla costretta a infrangere la sua legge e a subire violenza ad opera di qualcuno che non avrebbe accettato di rispettare la sua legge».

Tra i pochissimi episodi della resistenza musulmana che conosciamo a livelli che vanno oltre l'approssimazione c'è quella di un personaggio da leggenda, che appartiene all'ultima fase della conquista normanna. L'ultimo mujahidin. Mohammad Ibn Abbad, conosciuto nelle fonti cristiane come Benavert. Il cui ricordo è stato conservato ancora un volta grazie a Goffredo Malaterra, che ci ha lasciato di lui un breve ma intenso ritratto. La sua stella brilla per un decennio, dal 1075 al 1086. Nel 1075 si impadronisce di Siracusa. Nel 1081, per tradimento, della città di Catania, che però riperde poco dopo. Nel 1084 fa qualcosa che ormai veniva considerato totalmente impensabile, in questa epoca di turbamenti e di rapidi mutamenti, dove l'onda è completamente cambiata in favore dei cristiani. Dà fiato, per l'ultima volta, a jihad musulmano e sbarca a Reggio. Le lancette dell'orologio paiono essere improvvisamente tornate indietro a più di un secolo prima. Assalta i monasteri, si abbandona a terribili violenze. Come i suoi predecessori, torna a Siracusa con un buon bottino. Intanto Ruggero continua a completare la sua opera di conquista, domando le superstiti sacche di resistenza nella Sicilia orientale. Resta Siracusa, e incappa nel peggior avversario: in Ibn Abbad. Nel maggio del 1086 le truppe normanne circondano la città per terra e per mare. Il Gran conte è a capo della flotta. Suo figlio Giordano guida le truppe da terra. Sembra di essere tornati alla situazione della primavera 878. L'assedio comincia. Gli ultimi giorni di Ibn Abbad trascorrono in difesa della sua città e della sua fede. Nel momento peggiore prova una sortita via mare. La sua flotta si scontra con quella di Ruggero. Tenta l'arrembaggio della nave del conte. Incalzato e ferito da Ruggero stesso o da un suo compagno, il capo musulmano cerca di lasciare la nave normanna e di saltare sulla sua. Salta: ma il passo è troppo corto. Cade in mare, e annega trascinato a fondo dall'armatura (pondere ferri submergitur). Le difese di Siracusa reggono ancora qualche mese. Per poi soccombere definitivamente. Ai musulmani si lascia la possibilità di scegliere. Restare o andar via. Tanti sono i musulmani che lasciano la città ormai in mani cristiane, preferendo trovare asilo altrove, in terra musulmana, in Africa, fra questi anche la moglie di Ibn Abbas, che scappa coi suoi figli.

Se l’eco della resistenza di Ibn Abbad non arrivò sino alle coste dell'Africa e se i cristiani lo maledissero per la sua crudeltà, la memoria del suo ultimo orgoglioso scatto di resistenza contro i normanni si sedimenta profonda nel ricordo dei musulmani siciliani alla ricerca di riscatto: non a caso, è probabilmente un suo stesso discendente, un altro Ibn Abbas che un secolo e mezzo dopo guiderà la comunità islamica nell’ultimo scontro contro Federico II.

QUANDO «I DEMONI SPAZIANO NELLE COSTELLAZIONI DELLE ASTEROIDI»

Secondo Idrisi, l'atteggiamento dei sovrani normanni e, con loro, latino-cristiano, fu improntato ad una certa tolleranza. Lo afferma a chiare lettere, col suo forte accento panegirista: «quando Raggero I divenne il padrone assoluto e vi consolidò il trono della sua regia potestà, egli si fece apostolo di giustizia fra le genti della Sicilia, le quali furono mantenute nelle rispettive confessioni e leggi ed ebbero garantite la vita e le sostanze per sé e per i suoi congiunti». Degli aspetti confermerebbero questo giudizio. Per esempio, la preservazione della fede musulmana, col pagamento del tributo. E l'inserimento di musulmani nei ranghi dell’esercito. Lo ricorda il biografo di Anselmo di Canterbury che sottolinea il suo stupore nei confronti dei tanti cavalieri di fede islamica presenti all'assedio di Capua nel 1098: musulmani che lo stesso Anselmo avrebbe voluto convertire. Proposta che trova l'assoluto diniego da parte del conte. Sembra dunque che ci si avvii, se non su una linea di tolleranza, almeno di convivenza.

Si tratta, a mio modo di vedere, di apparenze. L'ottima impressione registrata da Idrisi viene smentita dai fatti. Le conversioni forzate cominciano subito, già nelle ultime fasi della conquista e coinvolgono tutti: grandi, come il cadì di Castrogiovanni, al-Qasim ibn Hammud; e piccoli. Si può dedurre, come rileva Hubert Houben, «che la libertà di religione veniva concessa soltanto nei casi in cui si trattò di città abitate in maggioranza da musulmani, come per esempio Palermo», ossia dove c’era assoluto bisogno di collaborazione. La convivenza intesa insomma come frutto di calcolo tattico e non di generale strategia politica. Il divieto della conversione al cristianesimo probabilmente si limitò ai soldati musulmani, e si intuisce anche il perché: necessari allo svolgimento delle campagne militari, il loro potenziale, qualora non fosse stato ben controllato, poteva ritorcersi contro gli stessi sovrani. In altri settori, come l'apparato amministrativo e statale, è stato assodato che, sia al centro che alla periferia, a poco a poco la conversione divenne un presupposto necessario per la carriera. Che spinge tanti al voltafaccia e, soprattutto, alla dissimulazione. Su questo mimetismo è necessario soffermarsi per un attimo. Diventa un fenomeno diffuso. Quelli che entrano nell'amministrazione si convertono ma nella pratica più intima restano dei musulmani. Sono dei criptomusulmani. Perché questa scelta? Si tratta di un campo difficile da comprendere, dove si mescolano una miriade variegata di nuances. Che si fondano sul terrore e sull'ossequio. Sul desiderio di una identificazione e di un'assimilazione coi nuovi padroni, col cercare però di conservare un radicamento nelle proprie tradizioni, per non sentirsi del tutto sbandati all'interno della propria comunità. Si diventa criptomusulmani per collaborazionismo, per trarne quanti più vantaggi possibile, in un gioco cinico di equilibri. Per adescamento ideologico. Ma c'è chi accetta questa doppia faccia perché è costretto a cedere al governo, che spesso spera che la conversione di un singolo potente possa contagiare la massa. C'è chi lo fa per precisa linea politica, che gli consente di gestire un potere che può tornare comodo a sé e ai suoi stessi correligionari, cui può garantire sostegno dall'interno dell'apparato statale, con raccomandazioni, interventi, aiuti. Tanti casi di un gioco pericoloso, perché il continuare a preservare nascostamente la propria religione è considerato un reato gravissimo. Se scoperti c’è per tutti, indiscriminatamente e senza sconti, la pena capitale. Sulle scelte che mossero questi musulmani a camuffarsi da buoni cristiani è imprudente esprimere un giudizio. Stiamo parlando della vita di persone di cui è pressoché impossibile conoscere le più profonde motivazioni. Tuttavia, segnalano l'ampiezza e la complessità di un fenomeno che creò delle violente lacerazioni nella società musulmana.

Il tessuto musulmano viene sconvolto, specialmente nelle campagne, dalla colonizzazione: la grande chiave di trasformazione del paesaggio umano siciliano da islamico a cristiano. Ora la corrente di uomini e donne non arriva più dall'Africa o dall'Andalusia, Ruggero I si impegna ad aumentare la popolazione cristiana dell'Isola. Dopo la conquista di Malta e di Gozo, avvenuta nel 1090, fa insediare in Sicilia una parte dei prigionieri cristiani sottratti ai musulmani. È l'inizio di un forte movimento di popolazioni, che si accresce giorno per giorno. Al seguito della terza moglie di Ruggero, Adelaide della stirpe piemontese degli Aleramici, cominciano ad insediarsi in massa numerosi italiani provenienti dalle regioni dell'Italia settentrionale. Sono i lombardi, così definiti nelle carte contemporanee, cui si offre un futuro, un posto al sole. L'afflusso di lombardi diventa decisivo per scardinare il sistema musulmano. Una catena di loro cittadine - Butera, Randazzo, Nicosia, Piazza Armerina ecc. - isola i principali centri di persistenza islamica, il Val di Mazara e il Val di Noto, Girgenti e Castrogiovanni. Il loro atteggiamento è militante. Rozzo. Brutale. Intollerante. Vivono attivamente uno spirito di Crociata, che individua nel musulmano il peggior nemico. E di lì al pogrom basta poco.

Vi sono altre forze che contribuiscono alla cristianizzazione e a sottrarre terra agli indigeni siciliani. In primo luogo, abbazie e conventi. Veri e propri cunei che si immettono nel tessuto musulmano, come S. Agata di Catania (1091), S. Salvatore di Patti (1094) e S. Maria di Messina (1100-1101). Dietro di sé, trascinano altre torme di coloni, attratti dalle possibilità di sfruttamento di nuove terre: longobardi, calabresi, pugliesi. Basti pensare alle parole che usa l'abate di S. Salvatore di Patti, che richiama qualunque tipo di cristiano - latino, si badi bene, e non greco -, di ogni provenienza e ceto (homines, quicumque sint, latine lingue) a colonizzare questo eldorado in rinascenza. Non manca l'apporto delle colonie mercantili forestiere, con genti delle proprie comunità che erodono ulteriori spazi. Tutto a scapito degli antichi residenti musulmani, cui vengono sottratti, giorno dopo giorno, spazi di libertà, terre, prospettive di lavoro e di vita, ambizioni e poteri.

La vera componente che scompagina fortemente gli equilibri è la feudalità coloniale. Un nugolo di cavalieri, fideles, clientes normanni, francesi o provenienti dall'Italia settentrionale che affiancano il Gran conte e poi il futuro re Ruggero II nella loro opera di conquista e di formazione  statale e che, secondo la tradizione occidentale del tutto estranea al mondo siciliano, ricevono feudi e benefìci composti di terre e uomini, in cambio di un legame vassallatico: rapporto che si configura nell'obbligo di servizio e nell'inclusione del titolare della concessione fra i fideles del Gran conte e, poi, del sovrano. Una condizione pericolosa, dove, come rileva Piero Corrao, dal punto di vista del dominio sulla terra e sugli uomini, la particolare condizione di vassalli del conte e poi del re attribuisce ai possessori una quota aggiuntiva di poteri. Coinvolti, in quanto vassalli, nell'amministrazione e nel governo del territorio a fianco degli ufficiali comitali e regi - a seconda del grado di estensione dell'immunità loro concessa -, i signori latini, anche se non dotati di poteri pubblici all'atto delle concessioni di feudi, esercitano tali poteri nelle terre di pertinenza secondo un quadro normativo che appare sempre fluido e variabile.

La riconoscibilità antropologica di questo nuovo ceto è evidente. Un’élite di importazione che si insinua su un territorio musulmano, cui impone regole, costumi, diritto ed economie fino ad allora inconcepibili. Con una demarcazione netta, dove la diseguaglianza sociale ed economica tra dominanti e dominati diventa contrapposizione etnica e religiosa tra cristiani e musulmani: non a caso, il termine generalmente utilizzato per indicare la popolazione dei coltivatori rurali, villano, è nella prassi un sinonimo di musulmano o di greco. Ciò non significa che non ci siano villani cristiani o latini, e che musulmani o greci non siano ancora presenti tra chi di fatto possiede la terra. Ma «l'asse delle divisioni sociali più nette è indubbiamente sovrapposto a quello delle distinzioni di fede e di etnia». Ciò comporta da un lato una più accentuata polarizzazione della società rurale, dall'altro una «progressiva emarginazione e distruzione della popolazione musulmana delle campagne, come un rapido cambiamento della configurazione del possesso della terra, dell'organizzazione del territorio, delle relazioni di potere, delle condizioni sociali». Si tratta, a ben vedere, di una formazione socio-economica originale che si insedia sulle strutture di una società a dominante urbana e fortemente monetarizzata, che integra al suo interno le sacche ancora musulmane controllate dai residuali cadì musulmani. Evoluzione che trasforma anche il paesaggio agrario, sempre meno costellato da piccole cellule rurali e sempre più subordinato all'economia del latifondo, con una distanza tra chi è proprietario del suolo, un nobile cristiano che risiede in città; e i suoi contadini musulmani, sottomessi ad un salario in danaro e un compenso in natura.

In sostanza, si assiste ad un fenomeno di oppressione culturale e di acculturazione forzata. Di cristianizzazione e latinizzazione delle popolazioni musulmane. Di immigrazione di massa, dall'Italia padana, dall'Europa occidentale, dalle aree peninsulari meridionali, come la Campania e la Calabria. La maggioranza musulmana resta isolata ad ovest e a sud-est dell'Isola: emarginata, sottomessa all'opera di deculturalizzazione, amministrata e protetta dai propri capi locali, via via indeboliti dalla presenza minacciosa dello Stato e dei signori normanni. Capi musulmani che rappresentano una nobiltà residuale, fatta di piccoli amministratori che affiancano i poteri crescenti, scribi, tecnici dell'amministrazione, anche funzionari di grado maggiore, che, nel bene e nel male, aiutano nella sua crescita la monarchia normanna e proteggono la comunità dei vinti. Si cerca di sopravvivere. Non è che tutto precipita da un momento all'altro. L'impatto della conquista, una volta superata la fase più drammatica e intrapreso il processo di stabilizzazione, non sembra avere effetti immediati nella vita quotidiana. Il termometro della Geniza, a questo proposito, non registra grandi sussulti. C'è una riduzione nelle attività commerciali che però non è congiunturale ma strutturale, dovuta alla mutazione della geografia commerciale e non avviene un cambiamento drastico e sostanziale nella natura dei rapporti tra mercanti siciliani e quelli nordafricani ed egiziani.

Al di là delle convivenze e delle reciproche convenienze, degli adattamenti e degli scrupoli, credo che ormai appaia chiaro quale sia il problema di fondo: che è stato imboccato un tunnel. Una strada di non-ritorno. Le contrapposizioni sono troppo stridenti. La forza del processo di acculturazione invadente. Gli scarti e le risoluzioni del potere monarchico imprevedibili. In questa condizione instabile, i margini di flessibilità e di adeguamento si chiudevano e si schiudevano. Si cucivano e si scucivano. Offrendo ampie boccate d'aria cui seguivano pause dolorose e tormentate. Come se la Sicilia si fosse trasformata in un enorme, impalpabile ghetto. Nel quale la maggior parte dei musulmani preferì stringere i denti per cercare di sopravvivere. Con preoccupazione ma anche con tante aspettative. Non tutti però furono capaci. Non tutti furono in grado di adattarsi e preferire la ghettizzazione. Molti scelsero la fuga. Emigrarono. Scapparono sulla costa opposta, in Egitto, in Nord Africa, dove potevano contare sulla fiducia di parenti, amici, reti di relazione. Dove sapevano che viveva, seppur anche lì spesso senza grande serenità, la propria comunità di origine, di lingua e di religione. Non si trattò di un'emigrazione brutale, una catastrofe umanitaria, con un esodo di boat people. Fu piuttosto scaglionata, visto anche il breve braccio di mare che separava la Sicilia dalle coste opposte. Si dice che già nella prima fase della conquista normanna siano scappate circa cinquantamila persone. Un ottavo della presunta popolazione musulmana siciliana. Gente di tutti i tipi, che si installa ad al-Mahdia, a Monastir, a Susa, in Andalusia. Agricoltori. Commercianti scafati. Uomini di scienza. Artigiani. Uomini di legge e di fede. Poeti. Uno dei quali si chiama Ibn Hamdis.

Nasce a Siracusa intorno al 1055. A poco più di vent'anni lascia l'Isola, quando la conquista normanna non è ancora giunta a termine. Passa la sua vita, che è lunga e finisce all'età di ottantotto anni, in giro per le corti degli emiri musulmani dell'Africa settentrionale. Quando muore, nel 1133, non sappiamo se a Bigiaya in Algeria o a Maiorca, nelle Baleari, la Sicilia era ormai tutta caduta nelle mani degli infedeli. Le sue poesie, raccolte nel suo Diwan, sono tipiche della tradizione araba. Poesie d'encomio. Poesie di descrizione. E del ricordo. Della memoria di una casa perduta. Non sta a me celebrare con un discorso critico-interpretativo la capacità letteraria di Ibn Hamdis. Quello che mi importa è far conoscere a chi legge i suoi versi: e, attraverso essi, il senso di distacco di un esule. Dalla patria perduta, dalla Sicilia: il «paese cui la colomba prestò il suo collare, e il pavone rivestì del manto screziato delle sue penne».

Amico, congiunto a me di strettissimo affetto,
come la seconda pioggia primaverile è legata alla prima,
tienti stretto alla tua patria, tuo dolce paese,
e muori in casa tua, o sulla sua superstite traccia,
e guardati dal provare mai il sapore dell'esilio
.
Il senno non sceglierà mai di sperimentare il veleno

Sensazioni legate ai rimpianti di un vecchio, che siede sulla riva del mare e guarda la costa opposta, con un nodo allacciato alla gola, e il futuro attaccato ai pensieri:

Custodisca Iddio una casa in Noto,
e fluiscano su di lei le rigonfie nuvole.
Ogni ora io me la raffiguro nei pensieri
,
e verso per lei gocce di fluenti lacrime.

Con filiale nostalgia anelo alla patria,
verso cui mi attirano le dimore delle sue belle donne

e chi ha lasciato il cuore a vestigio di una dimora
a quella brama con tutto il corpo di far ritorno

Esistono poi dei versi, alcuni dei quali già citati, che richiamano la condizione attuale dei siciliani, rispetto alle grandezze passate:

Ho tranquillizzato il mio animo, quando ho visto la mia patria
assuefarsi nella sua malattia mortale, fastidiosa,
Che, non l'hanno macchiata d'ignominia?
Non hanno mani cristiane mutate le sue moschee in chiese

Dove i frati picchiano a lor voglia e fan chiacchierare le campane
Da mattina a sera?

[…]

O Sicilia, o nobili città, vi ha tradito il destino;
voi, che foste il popolo del secolo contro altri possenti
,
quanti occhi, tra i vostri, vegliano spaventati,
occhi che, una volta, sicuri dai cristiani, trascorrevano sonni tranquilli?
Vedo la mia patria vilipesa dai Rum, essa che in mano dei miei
fu così orgogliosa e fiera.

Parole nelle quali ritorna il grande mito dei musulmani di Sicilia, il tempo del jihad, periodo di gloria, di epopea: per Ibn Hamdis il più sfolgorante che abbia vissuto l'Isola. Che, paragonato all'attuale, di miserie, di distruzione, solo una stirpe rediviva, uscita dalla tombe, può riportare in vita:

Il terrore delle armi nostre ingombrava
la terra degli infedeli; ahi, ora che il terrore loro
tutta invece la ingombra
.
Oh, perché non ha più quei suoi leoni arabi,
vedresti tra i loro artigli i barbari dilaniati

[…]

E non fu piena di scorrerie la Calabria per le mani nostre?
E non vi fecero strage di patrizi e di coraggiosi?
Aprirono con le spade le porte di quel paese:
splendeva esso di luce, e vi lasciarono le tenebre.
Menarono con sé schiave le bianche,
scoperte il capo, ma con chiome tanto lunghe
da sembrare mantelli.
Per assalire quei paesi, i nostri ad ogni istante
attraversavano il mare
, con un fiume
le cui onde erano dei cavalieri

[…]

Ed ora v'ha forse in Castrogiovanni
una rocca con un presidio di quei valorosi?
Vi rimane qualche vestigia dell'Islam?
O meraviglia: ora i demoni spaziano nelle costellazioni delle asteroidi

E si rafforzano i nemici in Siracusa, diventata landa sterile,
dove non puoi visitare altro che tombe.

[...]

Ma se mai si aprissero gli avelli,
Oh ruggenti belve salterebbero fuori dalle fosse sopra costoro
.

Il tempo di Ibn Hamdis è solo un tempo di rimpianti. Di una Sicilia passata, bellissima, esaltata dal ricordo. Stellare nel suo splendore. Ora brutalizzata. Una fantastica costellazione di asteroidi ormai trascorsa e distratta, dove adesso spaziano solo i demoni.

Federico II pone fine alla presenza islamica in Sicilia, deportando a Lucera gli ultimi musulmani rimasti nell’isola (da A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 232-241)

RESISTENZA

Nel leggere le parole di Ferdinando Maurici, il migliore interprete della vicenda finale dei musulmani di Sicilia, quello che si avverte di più è lo sconcerto. Sconcerto nei confronti di una storia che ci fu, ma nei fatti non esiste. Quella della resistenza siciliana. La sua meraviglia la esprime chiaramente quando sostiene, a ragione, che dopo Amari sia avvenuta una vera e propria congiura del silenzio verso questa vicenda. Il suo rincrescimento è rivolto a quei tanti storici i quali hanno preferito spesso che l'attenzione cadesse, mi piace questo paragone, «più sul trattato di falconeria di Federico II che sulle sue guerre sterminatrici». Questa mancanza di simmetria ha, come ho già espresso più volte, un suo evidente connotato ideologico. Che sottende l'orizzonte di senso che è stato ed è - spero ancora non per molto - un archetipo del nostro modo di considerare il mondo che ci circonda. Mi spiego con un esempio, a partire da uno dei grandi classici della storiografia medievale, la fondamentale biografia di Ernst Kantorowicz su Federico II di Svevia. Alla guerra condotta dall'imperatore contro i musulmani l'autore dedica, su complessive seicentottantasei pagine, appena cinquantadue righe. Un po' più di una pagina. Capisco che l'imponente azione politica del grande imperatore non si riduca soltanto alla repressione dei moti siciliani, ma questa limitatezza è sintomo di una presa di distanza culturale. Dello scarso valore che si attribuisce a chi questa storia l'ha vissuta, l'ha subita sulla propria pelle e c'è morto, nei confronti invece dell'esaltazione di un grande progetto politico che travalica qualunque iniziativa individuale. Che esprime l'idea di uno Stato eterno, onnipresente, invasivo. Centralizzatore, il quale predomina, con la dissuasione o con la forza, su chi gli si contrappone; gruppi, popoli, autonomie, comunità, ceti ed individui. Cosa significano qualche centinaio di migliaia di siciliani, perlopiù neanche cristiani, morti o deportati, rispetto al grande sogno unificatore, centralistico ed imperiale di Federico? Niente. Meno di zero. Carne da macello. Kantorowicz, in quelle poche righe, esprime continuamente la sua intima convinzione statalista, come una sorta di mantra: la guerra viene svolta dalla Svevo per «liberare le energie latenti a favore dello Stato»; episodio che «aveva fatto della Sicilia uno Stato». Giudizi che si collegano all'altro, superoministico, sulle virtù carismatiche ed eccezionali di Federico, capace di soggiogare col suo fascino dei semiuomini barbari, gente ridotta al rango di bestie come Kantorowicz rappresenta i musulmani. Riassunto in questa frase terribile per il significato che l'autore le attribuisce, relativa alla fase finale di sottomissione dell'Islam siciliano: «Federico riuscì a mutare in breve il selvaggio odio dei vinti nella fanatica fedeltà verso il vincitore». I vinti, in questa chiave, non hanno altra possibilità di rappresentazione: o sono i "selvaggi animati dall'odio", oppure persone prive di raziocinio, capaci solo di manifestare "fanatica fedeltà".

Esistono molti fili conduttori da cui muovere per un'analisi dei fatti avvenuti negli ottantatré anni trascorsi tra il 1161, anno dei pogrom, e il 1246, in cui il conflitto svevo-musulmano termina. Episodi che in nessuna occasione definirò, come qualcuno ha fatto, col nome di «operazioni di polizia». Non si trattò infatti di una retata, svolta in un piccolo distretto, ma di una guerra selvaggia, condotta coi metodi della guerriglia in territori aspri, vasti, tra rocche e montagne, la quale giunse sino alle porte di alcune città. E riguardò un popolo intero.

Il primo filo da tessere di questa vicenda è che non esistono rotture. Bensì una linea di condotta uniforme che dagli Altavilla passa a Federico II, nella quale da una fase di acculturazione, più o meno forzata, si transita ad una successiva di conflitto, soppressione, deportazione e pulizia etnica. Non esiste cioè una frammentarietà legata agli avvenimenti. Ma una progressione, per molti versi pianificata, con una politica di annientamento, che trova il suo primo eloquente esempio nella fondazione dell'arcidiocesi di Monreale da parte di Guglielmo II: iniziativa che, fra 1174 e 1186 comporta l'accorpamento di vasti territori, prevalentemente demaniali, in precedenza compresi tra i vescovadi di Palermo, Mazara e Girgenti. Che significato ebbe questa decisione? Creare, in una vasta area di circa milleduecento chilometri quadrati, che comprendeva più di cento casali e diversi centri di una certa consistenza, tra cui Iato, Calatrasi e Corleone, una vasta signoria cristiana su un tessuto totalmente musulmano. Una riserva indiana, per usare un linguaggio che rende bene l'idea, controllata da una potente istituzione religiosa cristiana. Controllo potenziato dalla catena di piazzaforti cristiane poste tutt'intorno all’enclave, tra cui Vicari, Prizzi, Castronovo, Cammarata, Carini e Partinico, la terra di Erice (dove era interdetto l'ingresso ai musulmani): e sulla costa, da Mazara e Sciacca. Il tentativo di Guglielmo è evidente: sottoporre la residua zona musulmana al controllo economico e religioso dei monaci di Monreale, con una massiccia politica di assorbimento e di acculturazione. La popolazione, formata in maggior parte da villani, censiti nelle jaraid alrijal, i polittici degli uomini, fu costretta all'obbligo di residenza. Dunque niente più movimenti. D'altra parte, era chiamata a versare, come avveniva già con la corte regia, canoni in danaro e natura. Che però si aggravano e tendono ad aumentare, dice Amari a causa dell'esosità dei monaci. I quali potevano ricavare in moneta da un solo casale, come ad esempio quello di Curbici, oltre a rendite in derrate alimentari e vino, cifre in danaro superiori ai duemila tarì annui. L'obiettivo però fallisce. Invece di creare una situazione di maggiore sottomissione della componente musulmana, il nuovo regime demaniale inasprisce la situazione. Esaspera gli animi. Vuoi a causa dell'ingordigia dei monaci, che sottopongono la popolazione contadina ad angherie sempre meno accettabili. Vuoi perché il tentativo riduce ancor più la già limitata libertà dei coloni, sospinti verso condizioni dove la differenza tra fittavoli liberi e servi della gleba diventava impercettibile.

Il peggioramento della situazione nelle campagne corre parallelo con il riacutizzarsi delle tensioni cittadine. Alla morte di Guglielmo II, il 18 novembre 1189, si scatena a Palermo un nuovo pogrom. Si ripete la strage, come nel 1161. Tuttavia ora i musulmani palermitani fuggono in massa e lasciano la città. Si rifugiano in montagna. Il tempo della collaborazione e della convivenza finisce per sempre qui, adesso. Comincia la fase della resistenza. I vecchi notabili, le élites, i gaiti, i quadri burocratici che sopravvivono alla strage non intendono ragioni. Le parole pragmatiche di adattamento auspicate vanno in fumo, in frantumi. Gli atteggiamenti mimetici criptomusulmani di chi voleva difendere la comunità attraverso il servizio nell'amministrazione del regno non funzionano più. Non ci sono più sfumature: o si scappa o si combatte. Anche perché l'elezione di Tancredi a nuovo re non preannunzia niente di buono. Il suo nome evoca troppo i lombardi e il pogrom rurale del 1161. Anzi, molti fuggono proprio per questo motivo, per non dover servire sotto questo re. Questa volta però non a caso. Maurici lo dice bene: «non si trattò della fuga disorganizzata di masse di disperati, quanto piuttosto della secessione di un intero popolo e di un'intera società». Comincia un'epoca nuova, di turbationes.

È negli anni della minorità di Federico II che la rivolta assume contorni chiari, direttive, capi, motivazioni. Isolati in un regno tutto cristiano, i musulmani cominciano una lotta disperata a tutto campo. Li guidano quelli che Bresc chiama i «grandi signori patriottici», gente di antica stirpe araba o berbera. Tra loro ci sono anche forze fresche, immigrati da poco giunti dal Nord Africa, come il grande eroe della resistenza, che prende il nome dall'ultimo grande oppositore di Ruggero il Gran conte, l'ultimo mujahidin, Mohammad ibn Abbad. Un esercito che si organizza intorno a capi tradizionali, guidati da cadì e qaid, la cui forza militare si regge e si concentra su un ampio numero di rocche fortificate ed imprendibili. Una catena continua che consente l'organizzazione di una solida e capillare rete difensiva del territorio musulmano, circoscrivendone l'ambito: Entella, Platano, Iato, Celso, Calatrasi, Calathamet, Cinisi, il castellum di Corleone (occupato dai saraceni nel 1208) e quello di Guastanella. In pratica, i musulmani occupano una terra collinare e montuosa tra le attuali province di Palermo, Trapani e Agrigento, piena di anfratti, rifugio di pastori e di briganti, ancora oggi nota per le scorrerie di Salvatore Giuliano e per i fatti di mafia. La stessa area investita dalla prima invasione musulmana del IX secolo, e per questo fortemente islamizzata, che aveva resistito strenuamente a Ruggero I. E che ora si oppone al papa Innocenza III e al piccolo Federico.

I musulmani sono disposti a qualunque sacrificio, a qualsiasi compromesso. Cercano alleanze ovunque. Ed entrano in un gioco molto più grande di loro, che guarda lontano, ai signori tedeschi invischiati nella lotta di successione al trono imperiale, al papa. Avvicinano Markwald von Anweiler, che si contrappone al papato e ai prelati di Palermo. La reazione è immediata: Innocenzo III fa inviare il 20 novembre 1199 ai baroni siciliani una lettera. Il tono è quello tipico, da Crociata. Ritorna il tema dell’impium foedus stipulato dal signore tedesco con i saraceni; si rinnova l'invito alla guerra santa; si promette indulgenza per quei cavalieri che vorranno opporsi ai musulmani. Occorre bloccare in tutti i modi l'operato di Markwald, «quel ribaldo che adesca i saraceni, dando loro a bere sangue cristiano, abbandonando alle loro voglie le donne cristiane rapite; per cui il sommo pastore concede indulgenze di crociata a chiunque prenda le armi contro di lui». La inedita coalizione tra Markwald e i musulmani combatte all'inizio estate 1200 sotto le mura di Palermo. Federico, bambino, viene fatto fuggire, per precauzione. Per venti giorni prosegue l'assedio. La battaglia si sposta nei campi intorno alla città, e da qui a Monreale. Ma i cristiani vincono. È la rotta per i musulmani. Molti sono i caduti, tra cui qualche capitano musulmano, come il qaid Magded.

Si passa ad una fase di tregua. La diplomazia papale cerca di ricucire le fila. Con una delicatissima operazione diplomatica il papa in persona indirizza ai capi-rivolta musulmani una nuova lettera. L’incipit è curiosissimo, destinato a non turbare i loro animi. Perciò, nell'impostazione, generico e filosofico. Il pontefice si rivolge «al cadi e a tutti i qaid di Entella, Platano, Iato e Celso e agli altri qaid e saraceni tutti della Sicilia, con augurio di comprendere e amare la verità, che è Dio stesso». Bellissima circonlocuzione, quasi più musulmana che cristiana, da cui traspare l'attitudine del papa a non voler riacutizzare le tensioni. Dove l'impressione, se si guarda il contenuto, è che egli si muova per vie politiche, riconoscendo, nei musulmani e nei loro capi, un soggetto politico organizzato ed identificabile. Col quale trattare, trovare un'intesa.

Nonostante ciò, l'azione musulmana non si arresta. Aumenta il suo impulso. L'assenza di Federico II, dal 1212 impegnato nelle faccende tedesche, fa assumere ai cadì, maggiore capacità d’azione e senso dell'iniziativa. Dilagano in tutta la Sicilia. Viene attaccata Palermo nel 1216. Più volte Monreale, fino «ad intaccare le mura della chiesa». A Girgenti entrano in città: catturano il vescovo - e lo rilasciano solo dopo il pagamento di un riscatto -, saccheggiano e profanano la chiesa, occupano la cattedrale impedendo ogni tipo di celebrazione, impediscono ai lavoratori dei campi intorno alla città di recarsi al lavoro. Si rioccupano terre, casali, villaggi. Sembra tornata l'epoca della riscossa.

Le forme organizzative musulmane si spingono oltre. Si riesuma l'idea di creare un emirato, in aperta contrapposizione col regno normanno. Si sogna di nuovo una Sicilia indipendente. Una Siqilliya reinserita nella koiné islamica. Capo indiscusso diventa Mohammad ibn Abbad: è lui che guarda più lontano degli altri, che concepisce un futuro diverso. Non è per niente un avventuriero. È infervorato dalla fede e dal senso della sua missione. Il suo potere è legittimato dalle sue origini e dall'avere sposato la figlia del grande caid Ibn Fakhir, uno dei capi delle comunità in età normanna. Mohammad assume un titolo che non ha bisogno di spiegazione, di amir al muslimin (principe dei credenti).

Da sovrano prende delle decisioni di rilievo. Vuole creare una piccola ma solida compagine statale. Stringere un nuovo cordone ombelicale col Nord Africa, da cui proviene e dove ha contatti. Intesse relazioni con mercanti forestieri, per rifornirsi di contrabbando di armi e di vettovagliamenti. Decide che il suo emirato conii monete sue proprie, come facevano i Kalbiti. Ne fa battere una d'argento. Quelle di Enrico VI e di Federico II le fa sequestrare e sfregiare con un punzone. La portata politica di queste decisioni è evidente: racchiudono il senso di un'appartenenza e di un'identità, descrivono chiaramente il senso della ricerca di una legittimazione e di un'affermazione, agli occhi dei suoi e dei propri avversari. Sono anni convulsi. Circa una decina, una quindicina d'anni. Di scontri, di popolarità, di assunzione di forza e di consenso. Che non possono durare a lungo. Le condizioni non lo permettono. Il nuovo emiro è solo. Ha scarse risorse. Pochissimi sbocchi a mare. Con scarne possibilità che da qualche parte del mondo musulmano possa giungere qualche aiuto di peso. Dispone di un bacino di uomini coraggiosi. Di fortezze. Ma cosa può, quando intorno a sé si scatena la forza di un imperatore?

PULIZIA ETNICA

Siamo all'epilogo di questa storia siciliana. Adesso, al comando, c’è un nuovo sovrano. Di una nuova casata. Non è solo il re di Sicilia. È l'imperatore. Nel luglio 1220 ordina che le città e le terre occupate vengano ricondotte ai legittimi proprietari cristiani. Le abbazie cominciano a reintegrare le loro proprietà. Federico reintroduce lo status quo ante: il villanaggio e la servitù forzata dei musulmani. Riconferma chi è che comanda. È forzato a prendere queste decisioni anche dallo stato della situazione politica siciliana, nella quale godere dell'aiuto delle potenti entità religiose significa garantirsi un potente alleato contro le tendenze centrifughe della nobiltà feudale.

Alle mosse politiche seguono quelle militari. I musulmani si preparano alla resistenza ad oltranza. Si capisce che altri sbocchi non esistono. Si rafforzano le fortezze e i castelli scavati nella roccia. I punti di vedetta sulle strade interne e per il mare. Si preparano gli uomini. Si cerca di comprare armi. Nell'estate del 1221 Federico dà inizio alle operazioni. Esamina lo scacchiere, valuta le difficoltà, saggia le forze dell'avversario. Poi nell'estate 1222 parte con l'attacco decisivo. E lui, in prima persona, a condurre l'esercito. Secondo una fonte araba, sono con lui duemila cavalieri e sessantamila fanti. Le testimonianze raccontano poco di quello che accade. Ma non è difficile da immaginare. Tutta la Sicilia musulmana viene messa a ferro e fuoco. Le fortezze si difendono. Si trasformano in ridotte, che accolgono, in grande confusione, profughi e soldati. Qualcuna cade, qualche altra no, Federico fa dare l'assalto a Iato. È lì il cuore della resistenza. È lì che è asserragliato Mohammad. L'assedio dura otto settimane. Alla fine Mohammad si arrende. Lo portano in ceppi davanti all'imperatore. Chiede clemenza. Federico non sente ragioni. È furibondo. Accecato dall'odio. Tortura lui stesso Mohammad: prende il suo sperone e lo immerge nelle carni dell'emiro. Dopo qualche giorno, a Palermo, davanti alla folla, il capo della resistenza viene impiccato. Con lui due mercanti di Marsiglia, che lo avevano aiutato nel trasporto di armi e di aiuti.

L'irredentismo musulmano ha subito il colpo più duro. Ora si ritrova senza un leader. La resistenza però continua. Le armi non vengono deposte. Gli altri, scrive Riccardo da Sangermano, continuano ad opporsi ad oltranza. Nel 1223 Federico ha bisogno di nuove risorse per portare avanti la repressione. Preleva denaro dagli introiti fiscali. Convoca conti e baroni. Tuttavia, la guerra non porta buoni risultati. È un problema militare, di tattica da adoperare sul terreno. Come potevano dei cavalieri pesantemente armati reagire a raids rapidissimi, lungo stradine di montagna, in località impervie? Sicché la lotta diventa snervante, endemica. Guerriglia fatta di colpo su colpo. Portata anfratto per anfratto. Nel 1225 i musulmani sono ancora là, asserragliati sulle loro montagne, Federico convoca di nuovo i baroni, per avere ancora aiuti per costringere i ribelli a descendere de montaneis. L'imperatore cerca di chiudere quei pochi canali che ancora alimentano dall'esterno la rivolta. Fa bloccare l'isola di Gerba, da cui i pirati potevano rifornire i rivoltosi. La truppa imperiale la prende. In Sicilia la situazione si fa drammatica. La guerra comunque non si arresta. Federico capisce che la strategia della terra bruciata è utile, ma fino a un certo punto. Non si può debellare, ad uno ad uno, ogni focolaio di resistenza. Nasce allora il colpo di genio. Exterminare de insula. Prelevare tutti i musulmani e deportarli, in un luogo lontano. Quanto più possibile: da casa loro, dalla loro vita. Prende vita l'idea di Lucera, in Puglia. Lontana dal mare, nell'interno della Penisola. Da dove non si può tornare. Dove non esiste nessuna certezza di poter rivedere la Sicilia.

La mattanza riprende. E uno stillicidio che si ripete anno dopo anno. Per gli irredentisti la scelta è ora tra la morte o la vita nell'esilio di Lucera. Si combatte ancora a lungo. Tra il '29 e il '30 gli scontri riguardano una decina di fortezze. Ancora una volta il teatro degli scontri sono le rocche di Iato, Cinisi, Entella. I musulmani mandano una disperata richiesta di soccorso in Nord Africa. L'ambasceria però non porta frutti. Intanto, la deportazione prosegue. Tanta gente viene imbarcata a Palermo e a Girgenti. Ai porti ci sono tumulti. I musulmani si rifiutano. Non vogliono partire. Non vogliono lasciare la loro casa. Li imbarcano di forza. Una volta giunti in Puglia, i più irriducibili scappano. Rientrano in Sicilia. Vengono ricatturati e di nuovo deportati. Fino al 1243. Quando avviene l'ultima fiammata. L'imperatore invia al comando della repressione il conte di Caserta. Questi impiega quattro anni per debellare le ultime sacche di resistenza. Gli ultimi ribelli depongono le armi. Scendono dalla montagna. La questione musulmana in Sicilia, come scrive l'imperatore ad Ezzelino da Romano, è definitivamente risolta.

Esiste un ultimo racconto, che chiude questa storia. Un racconto non sappiamo se vero o falso, ma drammatico e bellissimo. Un esile filo d'oro in un universo di desolazione. Narrato, nel Trecento, da al-Hymari. Che ci riporta all'ultima ridotta di Entella, la Masada siciliana. Dentro, con un gruppo di uomini, è asserragliata la figlia di Mohammad, che, nonostante la morte del padre, continua la rivolta. L'imperatore in persona si interessa a lei. Le scrive. La principessa sembra che voglia trattare la resa, chiedendo l'invio di un buon numero di cavalieri cristiani. Questi partono. Ma appena arrivati in prossimità del castello, vengono assaliti di sorpresa e sterminati. Federico le riscrive, per cercare di determinare le condizioni di una nuova tregua. E cambia tattica: la chiede in sposa. La donna gli risponde con queste parole; «una mia spia mi ha fatto sapere che tu hai detto: "è sbalorditivo che una donna abbia potuto far cadere nel suo tranello trecento uomini". Il vero oggetto di sbalordimento siamo noi stessi, io e te. Io sono una donna senza figli, in un angolo dimenticato di mondo, senza alcuno che mi venga in aiuto. E tu che, benché padrone di un regno immenso, di tesori e di consiglieri, sei costretto ad assediarmi e a distrarti dagli affari importanti». Scritta la lettera, non aspetta altro. Non si arrende. Si suicida. La sua: unica voce di donna, oggetto di sbalordimento, sopravvissuta nella memoria della lunga storia dei musulmani in Italia.

La repressione della rivolta siciliana si chiude nel peggiore dei modi. Un bilancio in perdite umane è impossibile da stilare. Ma tra uccisioni, rifugiati e deportati il panorama siciliano resta devastato. Scrive Bresc: «la violenza estrema di questa guerra civile che culmina con le operazioni sterminatrici - secondo l'espressione di un notaio palermitano contemporaneo - lascia immense rovine. Le roccaforti, Iato, Entella, Calathamet, Partinico, Calatrasi, scompaiono per sempre dalle liste di terre e di capoluoghi di distretto e sono, nel migliore dei casi, ridotte ai loro soli castelli. Un elevato numero di casali e di possedimenti rurali appaiono abbandonati. La stessa agricoltura della Sicilia si modifica radicalmente. Per mancanza di braccia, si abbandonano le colture intensive destinate ai mercati urbani e alle industrie artigianali presenti nei casali musulmani». Il vuoto economico, sociale, demografico creato è irrimediabile. Nel 1280 la Sicilia raggiunge appena quattrocentomila abitanti. Si volta pagina. Si inaugura una nuova epoca per l'Isola. Non più spazio di frontiera, crocevia di civiltà. Ma una Sicilia europea, chiusa in sé stessa, protagonista di tutta un’altra storia.