Se Petrarca scrisse per l'élite, Dante fu per il popolo, di Giovanni Fighera
Riprendiamo da La Nuova Bussola Quotidiana del 17/1/2021 un articolo di Giovanni Fighera. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura e la sotto-sezione Dante e Petrarca.
Il Centro culturale Gli scritti (26/1/2021)
Sia Dante sia Petrarca desideravano ottenere la fama dei contemporanei e dei posteri. Ma in modo differente. Petrarca non volle scrivere per tutti, ma per un pubblico colto. Al contrario Dante volle giovare al maggior numero di persone possibile. La missione culturale non nasceva, quindi, dalla presunzione di essere meglio degli altri, ma dal desiderio di beneficiare l’intera cristianità.
L’espressione popolare ha diverse accezioni. Tra queste senz’altro una riguarda la fama che una persona consegue in un certo frangente storico per le gesta compiute o per le opere artistiche lasciate. Un’altra accezione concerne la diffusione che le opere hanno presso la gente comune e, ad un tempo, il destinatario ideale dell’opera stessa: un testo poetico può essere definito popolare quando è concepito per tutti, ha un destinatario ideale che non è una cerchia ristretta di lettori, ma un pubblico ampio. Popolarità di un’opera non è, quindi, solo la fama che essa consegue, ma anche il suo carattere di apertura ad un pubblico variegato, per così dire universale, senza preclusioni di lettori.
Petrarca ottenne un’incoronazione poetica che generò non solo grande fama, ma anche accesa invidia nei suoi confronti, come il poeta ebbe modo di annotare nelle lettere. Sia Dante sia Petrarca desideravano ottenere la fama dei contemporanei e dei posteri. Ma in modo differente. Petrarca scrisse, infatti, in latino quasi tutte le sue opere (Secretum, Epistole, Africa, Bucolicum carmen, De viribus illustribus, Rerum memorandarum libri, De vita solitaria, …). Solo due furono consegnate ai lettori in volgare: il Rerum vulgarium fragmenta (conosciuto anche come Canzoniere) e I trionfi. Se da un lato il Canzoniere in volgare sarebbe stato imitato per secoli e avrebbe dato addirittura avvio al fenomeno del petrarchismo nel Cinquecento con uno stuolo di suoi imitatori, dall’altra parte l’ampio risalto che Petrarca concesse al latino sarebbe stato la base dell’inizio di una nuova fase storica: l’umanesimo.
Naturalmente, erano i versi scritti in volgare da Petrarca ad essere canticchiati dal popolo, destando un profondo fastidio del poeta stesso come lui ricordava nella lettera indirizzata a Giovanni Boccaccio (Familiares, XXI, 15). Petrarca riconosceva di essere terrorizzato dall’idea che i suoi versi potessero essere fatti a pezzi dal volgo che li canticchiava e li alterava, riconosceva che ciò accadeva per le sue opere scritte in gioventù in volgare e questa era una ragione in più per scrivere in latino:
le lingue degli incolti fanno costantemente a pezzi quei pochi scritti che mi erano venuti fuori in gioventù a quell’epoca, provocandomi indignazione e odio per ciò che un tempo avevo amato.
Petrarca non volle scrivere per tutti, ma per un pubblico elitario, colto. Non volle essere popolare nel senso di avere un pubblico universale, volle, invece, conseguire una fama in tutto il mondo occidentale.
Al contrario Dante volle ampliare il pubblico dei lettori e giovare al maggior numero di persone possibile. Negli anni in cui scriveva il Sommo poeta già diffusa era la tradizione della lirica composta in volgare, ma del tutto insolito era comporre un’opera culturale a carattere enciclopedico in volgare. L’unica lingua concessa era il latino. Dante può essere considerato un pioniere che si avventurò in territori fino ad allora inaccessibili e non perlustrati da alcuno. Con il Convivio (1304-1307) aprì, infatti, la strada alla stesura dei trattati culturali in volgare, così come due secoli più tardi, nel 1513, con Il principe Machiavelli avrebbe inaugurato il primo trattato politico in italiano e nel Seicento Galileo Galilei avrebbe aperto la strada alla diffusione dei testi scientifici nella lingua nazionale con Il saggiatore (1623) e con Il dialogo sopra i due massimi sistemi (1632).
Dante fu perfettamente cosciente della rivoluzionaria novità della sua scelta, per questo la giustificò in una sorta di apologia (De vulgari eloquentia) riconoscendo l’importanza dell’adozione della nuova lingua per la diffusione della cultura e per l’allargamento della cerchia dei lettori.
Prima che l’Inferno occupasse ogni pensiero del poeta fiorentino, il Convivio rappresentò per lui l’occasione di riscatto, l’opportunità di conquistare quella fama che gli potrebbe consentire di ritornare in patria. Il trattato fu anche un modo per attestare l’importanza della missione culturale: la conoscenza della verità è, infatti, connaturata all’uomo tanto che è la perfezione (ovvero il compimento) della natura umana. Dante, che voleva scrivere per tutti, selezionò, però, in parte il suo pubblico e invitò al suo banchetto solo quanti si erano tenuti lontano dalla sapienza per le cause esterne (preoccupazioni familiari e civili o la lontananza dai luoghi di cultura), mentre escludeva quanti fossero colpiti da «malizia», ovvero non desideravano il bene per sé, e coloro che avevano deficit fisici (che non avrebbero permesso loro di apprendere).
Nel proemio del Convivio Dante spiegò di essere stato mosso alla missione culturale dalla naturale amicizia che lega l’uomo al proprio simile e, nel contempo, dal sentimento di gratitudine per aver avuto l’occasione di nutrirsi alla mensa della cultura e della verità. La missione culturale non nasceva, quindi, dalla presunzione di essere meglio degli altri, ma dal desiderio di beneficiare l’intera cristianità. Quando la Commedia iniziò a circolare per l’Italia, diventò subito popolare, nel senso che anche la gente del popolo iniziò ad impararne a memoria i versi e a raccontarla. La Commedia venne conosciuta da tutti, interessava tutti.
Per testimoniare questa popolarità del poema possiamo leggere un racconto tratto dal Trecentonovelle di Franco Sacchetti. Dante un giorno si arrabbia con un fabbro e gli storpia gli arnesi del mestiere. Quando il fabbro gli chiede ragione di ciò, Dante risponde che anche il fabbro ha storpiato la sua opera declamandola non alla lettera e, quindi, modificandone le parole. Lo stesso Petrarca attestò questa diffusione popolare dell’opera dantesca, mostrando disprezzo per la contaminazione che i versi danteschi subivano nella loquela del popolo e garantendo che lo stesso Dante sarebbe stato infastidito nel sentire la storpiatura dei suoi versi:
così al contrario a nessuno sarebbe stato più avverso di lui a questi incompetentissimi cultori, che ignorano tanto quel che lodano quanto quel che condannano, e leggendo ad alta voce i suoi scritti li fanno a pezzi e li alterano; e non c’è maggior offesa per un poeta. E se non fossi impegnato a tutelare i miei scritti, forse cercherei da parte mia di sottrarlo a questo scempio. Infine deploro e mi dà la nausea che l’eccelsa superficie del suo stile sia coperta dagli sputi delle loro lingue incapaci (Familiares, XXI, 15).
La Commedia divenne fin da subito un’opera popolare (nel senso di diffusa in tutto il popolo). Non è certo popolare per registro linguistico (non è composta da versi dialettali o gergali) o per la classe sociale da cui proviene la poesia o a cui è destinata (cioè una poesia scritta dal popolo o per il popolo), ma perché non segregata in un ambito specialistico e per addetti ai lavori, come se fosse una turris eburnea, ma fruibile da tutti, concepita come opera che deve giovare a tutti, non solo i contemporanei, ma anche i posteri.