Lou Reed, il rocker «maledetto» che sognava una vita normale, di Gigio Rancilio
Riprendiamo da Avvenire del 28/10/20213 un articolo di Gigio Rancilio. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Musica.
Il Centro culturale Gli scritti (3/1/2021)
Adesso che Lou Reed è morto a 71 anni, tutti lo ricordano come il «poeta del rock maledetto». Poeta lo era davvero. Così com'è vero che la sua vita è stata segnata da eccessi.
Per molti era una sorta di araba fenice, capace di rinascere dalle proprie ceneri, di rimettersi in piedi, artisticamente ma soprattutto umanamente da cadute che sembravano mortali.
Il rock, poi, gli deve molto. Per essere stato il pioniere dell'ostrich guitar, per aver dato vita ai Velvet Underground, con John Cale e Nico, e grazie all'appoggio di Andy Warhol.
Senza Lou Reed il punk newyorkese non sarebbe mai nato. E noi non avremmo mai avuto canzoni crude come Walk on The Wild Side, Heroin e Satellite of love. La più poetica resta Perfect Day. Ed è proprio citandone alcuni versi nel proprio profilo twitter che il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio per la Cultura, ha ricordato il coetaneo scomparso.
Un gesto inconsueto. Ma che è anzitutto un omaggio a un artista che, pur tra mille errori e tormenti, ha rappresentato qualcosa di importante per più di una generazione. «Ho sempre saputo che avevo delle cose importanti da dire e le ho dette» è una delle sue frasi manifesto. Probabilmente una delle sue più lunghe, visto che coi giornalisti (e non solo con loro) parlava a monosillabi.
Lewis Allan Reed detto Lou era nato a Brooklyn nel 1942 da una ricca famiglia ebraica. Amava il blues, il rock e - come molti ragazzi di allora - voleva usare la musica per ribellarsi al mondo degli adulti. Allora i ragazzi ribelli e “strani” rischiavano persino - come accadde a lui - di venire sottoposti a elettroshock per curarne «i disturbi».
Un'esperienza traumatica che lo segnò e sulla quale, moltissimi anni dopo, nel 1974, scrisse la canzone Kill Your Sons, uccidi tuo figlio. Buona parte della sua carriera fu una lunga unica ribellione a quell'elettroshock da ragazzino.
Divenne il cantore «della zona selvaggia» dell'America, dei perdenti e dei diversi, dei drogati e delle prostitute. Eroinomane lui stesso, insieme al successo conobbe le peggiori miserie della vita. Ma sapeva cantare, scrivere e suonare come pochi e col suo stile ha segnato una larga parte della musica degli ultimi 50anni.
Tutti ripetono «era un maledetto» come se questo fosse una sorta di medaglia da portare sul petto. Ma la storia umana (e artistica) di Lou Reed si è svolta in più tempi, molto diversi tra loro. I suoi fan più incalliti hanno postato in queste ore su internet le sue immagini più rock: lui coi Velvet, con Andy Warhol e con David Bowie; ai tempi di Trasformer o, quella recentissima, coi Metallica.
Sbaglierò di grosso, ma quella che secondo me lo descrive meglio gliel'ha scattata Guido Harari, il più grande fotografo italiano di musica. Ritrae Lou Reed con gli occhi chiusi e l'aria di un uomo che, pur pieno di righe, ha conservato un'espressione da ragazzino. Tra il suo viso e il suo petto c'è la sua compagna di una vita, Laurie Anderson, anch'essa con gli occhi chiusi e l'aria felice. Lei sembra una bambina che ha immerso il naso nel suo nuovo peluche. Lui sembra un (ex) bambino finalmente a casa. Finalmente sereno.
Con una vera famiglia. Si erano sposati nel 2008, dopo tantissimi anni insieme. E la loro unione "ufficiale" stavolta aveva scandalizzato i "benpensanti del rock" che mai si sarebbero aspettati che il loro «poeta maledetto», alla fin fine, cercasse una vita «normale» come tutti gli altri.