La Lettera a Leone X di Raffaello e Baldassarre Castiglione nell’analisi di Salvatore Settis. “Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana”. Una presentazione di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Raffaello e, più in generale, Roma e le sue basiliche. L'articolo espone le tesi di Settis, ma con nostre integrazioni, evidententemente dove le considerazioni non sono fondate sul suo scritto. Sul tema, cfr. anche Per Forcellino Raffaello è l’artista “più inutilizzabile dalla modernità”, ma un’interpretazione che ne esalti la sensualità lo rende invece “l’espressione più forte e trasgressiva della modernità”. Dell’uso ideologico della storia e dell’arte, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (29/11/2020)
Su quanto segue, cfr. anche il video con l’intervista Settis: La lungimiranza degli intellettuali Settis
1/ Raffaello non è mai stato il primo soprintendente alle antichità di Roma, nonostante si continui a ripetere acriticamente tale affermazione. Lo studio di Settis sulla questione
Raffaello non è mai stato il primo soprintendente alle antichità di Roma, nonostante si continui a ripetere acriticamente tale affermazione, anzi l’incarico venne creato per la prima volta dopo la sua morte, nel 1534. La Lettera a Leone X non è così espressione di tale presunto incarico, come si vedrà fra breve.
Ma qual è, allora, l’importanza storica di tale documento e il suo preciso significato?
Uno status quaestionis è stato curato, in maniera egregia, da Salvatore Settis in occasione della mostra su Raffaello alle Scuderie del Quirinale, Raffaello 1520-1483, dove tale piccolo studio era offerto a chiunque visitasse l’esposizione.
Settis ricorda come non vi sia dubbio alcuno sul destinatario della lettera, papa Leone X, anche se la lettera, come si spiegherà più avanti, non venne mai terminata e, quindi, mai spedita:
«Anche una lettera non spedita può lasciare il segno. Specialmente se a pensarla è stato un artista supremo come Raffaello e a cercarne le parole un letterato di gran rango come Baldassarre Castiglione; e se il destinatario è (o avrebbe dovuto essere) un Papa colto e Lungimirante come Leone X, figlio secondogenito di Lorenzo de' Medici, "il Magnifico"»[1].
Infatti così recita la Lettera:
«"Lettera a Leone X"? Le parole iniziali del documento (Padre Santissimo] non lasciano molti dubbi sul destinatario; e se qualcuno ce ne fosse, un passo successivo lo spazza via d'un colpo:
Quanti pontifici, Padre Santissimo, quali haveano el mede(si)mo officio che ha Vostra Santità, ma non già el mede(si)mo saper, né il mede(si)mo valore e grandezza de animo (...), quanti, dico, pontifici hanno atteso a ruinare templi antiqui, statue, archi et altri edificii gloriosi![2]
Destinatario di detta Lettera è dunque un Papa, a cui lo scrivente si rivolge con rispetto e con fermezza, mettendo a contrasto la sua cultura (saper) e larghezza di visione [grandezza de animo] con la meschina rozzezza di quei suoi predecessori che avevano infierito sul corpo già martoriato della Roma imperiale, aggiungendo la propria barbarie a quella dei «Goti, Vandali et altri tali perfidi inimici»,
profani e scelerati barbari (...) onde quelle famose opere che hoggi di più che mai sarebbono fiorenti e belle, fluirono dalla scelerata rabbia e crudele impeto di malvaggi homini, anzi fiere, arse e distratte: ma non tanto però che non vi restasse quasi la machina del tutto [cioè 'la forma generale della città'], ma senza ornamenti e, per dir così, fossa del corpo senza carne.
Il tema e il tono di questo testo saltano agli occhi nel duro contrasto fra lo splendore della Roma antica e il suo precipitare nell'abbandono e nella rovina. L'imperversare di barbari invasori, ma anche la lunga incuria dei papi, sovrani della Città. La speranza che il papa regnante voglia, in grazia delle sue qualità intellettuali e morali, porre rimedio a tanta sciagura,
haver cura che quello poco che resta di questa anticha madre de la gloria e grandezza italiana [...], non sia estirpato e guasto dalli maligni et ignoranti [...].
Anzi,
cerchi Vostra Santità, lassando vivo el paragone de li antichi [cioè conservandone, a modello, gli edifici
residui], eguagliarli e superarli come ben fa con magni edificii, col nutrire e favorire le virtù, risvegliare li
ingegni, dare premio alle virtuose fatiche.
Da un nuovo rispetto per le rovine di Roma, sostiene lo scrivente, promana un solenne ed efficace esempio»[3].
2/ Per la prima volta, nella storia di tutti i popoli, un’intellettuale chiede che siano conservate le memorie archeologiche del passato e lo chiede proprio ad un pontefice
La Lettera, allo stadio in cui venne lasciata incompiuta, è visionaria e profetica. Non solo è la prima volta nella storia della Chiesa che un intellettuale si rivolge al pontefice per chiedere che siano conservati e custoditi i beni artistici del passato, ma è molto più di questo perché è la prima volta nella storia del mondo, nella storia delle civiltà, nella storia delle etnie, nella storia delle religioni che questo avviene!
Raffaello è il primo intellettuale che si preoccupa della preservazione delle antichità e lo fa indirizzando una lettera al papa, perché sa che egli è già interessato a questa questione, perché sa che già Giulio II, che lo aveva chiamato a lavorare a Roma, era interessato a tale nuova problematica.
Ecco il Rinascimento. Ed ecco Roma, capitale del Rinascimento. Era stato proprio Giulio II ad acquisire il Laocoonte (scoperto nel 1506) e l’Apollo del Belvedere e a valorizzare il Torso del Belvedere.
Su questo e su quanto segue, cfr. il documentario Raffaello, Roma e l’ideale del Rinascimento:
Scrive Settis:
«Che cosa è, dunque, questa Lettera a Leone X? Certo, essa punta al progetto di uno studio architettonico dei resti dell'antica Roma, e anzi ne indica i metodi e gli strumenti. Ma la sua prima attrattiva è la febbrile eloquenza che la pervade, e che risalta ancor più dallo stato del testo, un non-finito ricco, lo vedremo, di varianti d'autore. Questa scrittura in ebollizione riflette, si può sospettare, una non intenzionale ambiguità, quella di un testo in bilico fra la perorazione visionaria di qualcosa che non è ancora accaduto (il rilievo di Roma antica, la nuova cura che il Papa ne prenderà) e la finzione letteraria che tutto sia accaduto già [che quella sia la lettera prefatoria a un'opera già compiuta]»[4].
3/ Chi è l’autore della lettera?
Per lungo tempo si era ritenuto che fosse Baldassarre Castiglione, ma non è suo l’“io” della Lettera! Scrive Settis:
«Quando la Lettera fu stampata la prima volta (a Padova, nel 1733), traendone il testo da un manoscritto ora perduto che apparteneva al grande erudito veronese Scipione Maffei, essa fu attribuita a Baldassarre Castiglione (1478-1529), il celebrato autore di uno dei libri-chiave della prima età moderna in Europa, Il Cortegiano. Ma sessant'anni dopo un dotto opuscolo di DanieleFrancescani (Firenze, 1799) cambiava radicalmente questaattribuzione, sostenendo che quella «lettera creduta di Baldessar Castigtione sia di Raffaello d'Urbino». Tale diagnosi amplificò l'importanza e la fama della Lettera, dando inizio a una discussione destinata a non chiudersi mai del tutto, nemmeno con la scoperta (verso il 1910) del più importante manoscritto del testo, scritto di suo pugno dallo stesso Baldassarre Castiglione e conservato nell'archivio privato dei suoi discendenti fino a quando Gino Famiglietti, Direttore Generale degli Archivi, acquistò quel carteggio, depositandolo nell'Archivio di Stato di Mantova (2016).
Ma chi dice 'io' nella Lettera? Risponde meglio al profilo di un nobile letterato come l'autore del Cortegiano o di un artista d'avanguardia come Raffaello?
(...) essendo io stato assai studioso di queste antiquità, et havendo posto non picciola cura in cercharle minutamente e misurarle con diligentia (...) penso haver conseguito qualche noticia dell'architettura antica. Il che in un punto mi dà grandissimo piacere, per la cognitione di cosa tanto eccellente, e grandissimo dolore, vedendo quasi el cadavero di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato. (....) Né senza molta compassione poss'io ricordarmi che poi ch'io sono in Roma sono state ruinate molte cose belle (...) (...) Essendomi, adunque, comandato da Vostra Santità ch' io ponga in dissegno Roma antica, quanto conoscere si può per quello che hoggi dì si vede (...) ho usato ogni diligentia a me possibile accioché l'animo di Vostra Santità resti senza confusione ben sodisfatto.
In questi ed altri passi della Lettera l'io scrivente, che ama parlare di sé in prima persona, è palesemente un artista: intento non solo a studiare, ma a misurare i resti delle antiche architetture, e insieme testimone impotente di nuove distruzioni. Un artista dedito a porre in disegno Roma antica, e che rivendica la capacità di farlo non a caso e per sola pratica, ma con vera ragione, con un occhio ai testi classici (quanto meno il trattato di architettura di Vitruvio e quel compendio di topografia romana che andava sotto il nome di Publio Vittore)»[5].
I due hanno pertanto lavorato insieme. Di Raffaello sono le idee, che ovviamente Castiglione condivideva. Possiamo immaginare i due discutere della preservazione della antichità e certamente le parti della lettera che ricostruiscono le modalità di conservazione sono di Raffaello, ma, quasi sicuramente, il redattore materiale fu poi il Castiglione, che fissava via via per iscritto gli appunti delle discussioni con Raffaello. Scrive Settis:
«La concezione della lettera (e del progetto di rilievo generale della machina di Roma antica) spetta nella sostanza a Raffaello, la sua stesura a Baldassarre Castiglione»[6].
Dai diversi manoscritti conservatosi si comprende bene che la Lettera era in fase di elaborazione e già diverse parti erano state ordinate al momento della morte di Raffaello, ma non ancora sistemate nella loro redazione definitiva:
«L'autografo di Baldassarre Castiglione, ormai notissimo, ha però una sua stratigrafia interna: le prime sedici pagine sono una bozza, peraltro ricca di correzioni interlineari, cancellature, varianti; come se non bastasse, le altre cinque pagine contengono il testo, ora identico o simile, ora sensibilmente diverso, di tre passi assai consistenti del testo che precede. Altre varianti testuali si trovano nell'edizione a stampa derivata dal manoscritto già Maffei e negli altri due, uno a Monaco e il quarto in collezione privata a Mantova»[7].
La Lettera non venne mai conclusa e, quindi mai spedita, per l’improvvisa morte di Raffaello. La morte improvvisa dell’artista fu uno dei più grandi choc del tempo. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare l’improvvisa morte dell’urbinate, dopo solo una settimana di febbri, che lasciò incompiuta non solo la lettera, ma moltissime delle fabbriche pittoriche e architettoniche a cui il maestro stava lavorando
Allo choc si aggiunse choc quando, solo 4 giorni dopo, morì Agostino Chigi, banchiere, forse il più ricco di Roma al tempo, e amico di Raffaello.
La Lettera è così testimone del vigore intellettuale di Raffaello, fiaccato improvvisamente da una febbre che il gossip dell’epoca cercò di attribuire a cause specifiche solo perché il morbo era inspiegabile ed era inaccettabile la morte di un giovane di immense speranze, come il 37enne pittore:
«Nessuno dei due (poteva pensare che la morte del più giovane di loro fosse così imminente. E certo entrambi continuarono a pensare a quella lettera incompiuta: Baldassarre forse inseguendo nuove eleganze dello stile, Raffaello certo industriandosi a riscoprire ruderi, a misurarli, a figurarsi la machina di Roma antica, rimettendo un po’ di carne sul suo scheletro di rovine con la potenza del proprio disegno. Possiamo solo immaginare quale fosse il loro progetto: rivedersi di lì a qualche mese o a qualche anno, guardare insieme la messe di disegni di architetture antiche per l'intanto accumulati da Raffaello, rileggere il testo, dargli l'ultima mano, e finalmente deporlo, con i disegni, ai piedi del Pontefice romano»[8].
4/ Leone X seppe mai della Lettera? Perché è falsa la diceria che Leone X abbia incaricato Raffaello delle antichità romane?
Settis si domanda se Leone X sapesse dell’amore di Raffaello per le antichità e se mai lo avesse incaricato di qualcosa in merito:
«Ma Leone X venne mai a sapere che un pittore e un letterato da lui tanto apprezzati erano indaffarati a scrivergli una lettera laboriosa e impegnativa? Niente lo prova. In tutte le versioni del testo, il Papa appare remoto sul suo trono (Padre Santissimo, Vostra Santitate...). Salvo che in un punto, forse il più famoso dell'intera lettera: ed è quello (riportato sopra, con le sue varianti), dove chi scrive assevera: Essendomi adonque comandato da V(ostra) S(antitate) ch'io pongha in dissegno Roma anticha... . Ma davvero il Papa aveva dato questo incarico a Raffaello prima che questo abbozzo di lettera fosse scritto? Davvero il sistematico rilievo dei ruderi dell'antica Roma faceva parte, per dirlo col linguaggio d'oggi, detta "politica culturale' di quel Papa? C'è da dubitarne. Se un tal progetto fosse nato su iniziativa del Papa, la morte di Raffaello non lo avrebbe certo interrotto, come interrotte non furono le altre grandi imprese a cui egli era intento (le Stanze, la Fabbrica di San Pietro), immediatamente affidate ad altri.
Di un tale incarico, inoltre, non abbiamo la minima traccia documentaria: tale non è, infatti, il Breve di Leone X a Raffaello del 27 agosto 1515, molto citato e poco letto. In esso, il Papa non dà affatto a Raffaello (come spesso si dice) l'ufficio di soprastante alle antichità di Roma - una sorta di premonizione delle Soprintendenze d'oggi -, ma al contrario lo incarica di prelevare dalle rovine di Roma i marmi necessari per costruire la Basilica di San Pietro:
Dato che, per costruire il tempio del Principe degli Apostoli, è necessaria una gran quantità di pietre e marmi, che è opportuno trovare in patria anziché cercarli lontano, ho accertato che le rovine dell'Urbe possono fornire in abbondanza tali materiali (...). E poiché ti ho nominato a capo del cantiere [di San Pietro] e ho spesso constatato di persona la tua abilità artistica e la tua onestà, ti incarico di vegliare sugli scavi che da ora in poi si faranno, in Roma e nell'arco di 10 miglia, e sulle pietre che ne verranno tratte, e di acquistare per mio conto tutti i materiali utili alla costruzione [di San Pietro]. Pertanto ordino a chiunque scavi tali marmi di informartene entro tre giorni(...). Inoltre, poiché mi vien detto che molti marmi e pietre recano iscrizioni, che talora conservano informazioni degne di nota e meritano di essere conservate anche per lo studio e l'eleganza della lingua latina, ordino che i marmorarii specializzati nel tagliare le pietre non possano distruggere nessuna pietra iscritta senza il tuo ordine o permesso.
La Lettera a Leone X, come abbiamo visto, deplora i Papi che avevano permesso la distruzione di Roma antica; ma lo stesso Leone X, in quel Breve, comanda di continuare tali distruzioni, usando le rovine come una cava di materiali. E ne incarica proprio Raffaello, mitigando appena la sua decisione col salvaguardare le iscrizioni, e nemmeno tutte ma solo quelle con elegantiae del latino o nuove notizie storiche»[9].
Raffaello non è il sovrintendente alle antichità! Egli è, invece, l’architetto della basilica di San Pietro. Raffaello morirà essendo in carica nel medesimo ufficio che avrà anche Michelangelo al momento della morte: sovrintendente alla costruzione di San Pietro.
Entrambi amavano talmente la Roma e la Chiesa del tempo da accettare tale incarico per la nuova San Pietro. Sia l’uno che l’altro dedicarono tempo e inventiva alla progettazione di quella che ritenevano essere la più grande e bella fabbrica della cristianità di allora ed entrambi amarono tale suprema responsabilità.
Come Michelangelo, anche Raffaello descrive l’incarico con termini entusiasmanti, con una fierezza unica che appare nella lettera allo zio Simone Ciarla[10]:
«Circa a star in Roma: non posso star altrove più per tempo alcuno, per amore della fabrica di Santo Petro, ché sono in locho di Bramante. Ma quallocho è più degno al mondo che Roma, qual impresa è più degna di Santo Petro, ch'è il primo tempio del mondo, e che questa è la più gran fabrica che sia mai vista, ché montarà più d'un millione d'oro? E sapiate che 'l Papa ha deputato di spendare sessanta mila ducati l'anno per questa fabrica, e non pensa mai altro. Mi ha dato un compagno frate doctissimo, e vecchio de più d'octant'anni, e 'l Papa vede che 'l puol vivere pocho; ha risoluto S. Santità darmelo per compagno, ch'è huomo di gran riputatione, sapientissimo, accioch'io possa imparare se ha alcun bello secreto in architectura, acciò io diventa perfettissimo in quest'arte; ha nome fra' Giocondo; et onni di il Papa ce manda a chiamare, e ragiona un pezzo con noi di questa fabrica. Vi prego voi voliate andare al Duca e alla Duchessa e dirli questo: ché so lo haveranno chare a sentire che un loro ser[vitore] si facci honore, e racomandatimi a loro Signoria, et io del continuo a voi mi raccomando».
Ed è a motivo di tale responsabilità, come si è visto, che Raffaello viene incaricato dal pontefice di salvare sì le pietre con antiche iscrizioni, ma di prelevare tutto il restante materiale, ritenuto allora non ancora prezioso in una prospettiva di studio, per utilizzarlo nella costruzione della nuova San Pietro.
Insomma, Raffaello è il sovrintendente alla Fabbrica di San Pietro e non il deputato alle antichità. Ma proprio l’incarico alla erigenda basilica lo pone nuovamente in contatto con il problema delle antichità che già stava affrontando per passione e interesse.
Per questo è errato considerare Raffaello il primo sovrintendente alle antichità romane. Scrive Settis:
«Per quanto vecchia e tenace, questa fake news è nettamente smentita dai documenti: Leone X affidò anzi a Raffaello, come si è visto sopra, il compito di andar raccogliendo in giro per Roma i marmi antichi da reimpiegare nel cantiere di San Pietro. Ma quel suo incarico, che lo autorizzò o lo costrinse a girar per ruderi, studiandoli e misurandoli proprio mentre spediva verso San Pietro carri colmi di marmi da riusare, venne presto fuso o confuso col suo progetto, di poco posteriore, di porre in dissegno Roma antica»[11].
Una responsabilità per le antichità Romane nacque poco dopo:
«L'ufficio di Commissario (più tardi Prefetto) alle Antichità di Roma fu creato in realtà qualche anno dopo la morte di Raffaello, quando Papa Paolo III Farnese, con Breve del 28 novembre 1534, lo affidò a Latino Giovenale Manetti. Seguirono molti altri, fra cui figure di prim'ordine come Giovan Pietro Bellori (1670-1694), Johann Joachim Winckelmann (1763-1768), Carlo Fea (1800-1836).
Andava intanto sviluppandosi la legislazione pontificia in materia di antichità, tesa a evitarne o limitarne l'esportazione da Roma. Già nel Quattrocento ci avevano pensato Martino V (1425), Eugenio IV [1437], Pio II (1462), e più tardi si susseguirono a ritmo serrato gli editti sullo stesso tema dei cardinali Camerlenghi Aldobrandini (1624), Sforza (1646), Altieri (1686), Spinola (1704, 1717), Albani (1733). Specialmente importante fu quest’ultimo editto, e non solo perché simultaneo alla decisione di Clemente XII di creare i Musei Capitolini, primo museo pubblico del mondo, ma specialmente perché fra i motivi di protezione del patrimonio artistico l'editto indicava per la prima volta, oltre al «pubblico decoro di quest'alma città di Roma», anche «il gran vantaggio del pubblico, e del privato bene», facendo leva sulla nozione giuridica di utilitas publica. Essa era al cuore della legislazione pontificia sin da Gregario XIII, che nella Costituzione Apostolica Quae publice utilia et decora (1574) proclamò l'assoluta priorità del bene e del decoro pubblico sulle cupiditates e sui commoda [interessi, profitti] dei privati, sottoponendo a rigoroso controllo l'attività edilizia. Un secolo e mezzo dopo, l'editto Albani applicava espressamente quello stesso principio alla tutela delle cose d'antichità e d'arte, e così fu da allora in poi in tutte le norme pontificie, come l'editto del Camerlengo Valenti [1750], dove si aggiunge che la conservazione delle opere d'arte «porge incitamento a' Forastieri di portarsi alla medesima Città per vederle, ed ammirarle»»[12].
5/ Raffaello avrebbe voluto corredare il testo con disegni delle antichità romane
Il fatto che Raffaello sarebbe comparso come l’autore del testo appare con certezza dal fatto che la Lettera, allo stato in cui fu lasciata incompiuta, reca indicazioni su disegni delle antichità romane che l’artista avrebbe sottoposto al papa per avvalorare la propria tesi. Tali disegni non potevano che essere di mano di Raffaello e non del Castiglione:
«Il testo così com'è dimostra che erano previste alcune illustrazioni esemplificative e dimostrative:
[pag. 12 dell'autografo Castiglioni]: ......bisogna intendere le altezze e tondi, li quali se misurano in questo modo: [ai due punti segue mezza pagina bianca, destinata a un disegno]
[pag. 16 dell'autografo Castiglioni]: ......e, accioché più chiaramente anchor se intenda, havemo posto qui in dissegno un solo edificio in tutti tre questi modi dissegnato: [ai due punti segue mezza pagina bianca, destinata a un disegno]
[pag. 20 dell'autografo Castiglioni]: ......Ho adonque, cominciando [spazio bianco] divisa la città in 14 reggioni, secondo che la descrive [spazio bianco], e tolto li confini suoi dalli colli e poi misurato le piante (...) in questo modo dissegnato: [ai due punti segue un quarto di pagina bianca, destinato a un disegno].
[pag. 20 dell'autografo Castiglioni, poco più sotto]: Nel dissegnarla ho poi tenuta questa regula [qui mancano i due punti, ma segue un quarto di pagina bianca, destinato a un disegno]»[13].
Si definisce così una convincente lettura del lavoro di collaborazione dei due:
«Questa dunque, proviamo a ipotizzare, la congiuntura fra il settembre 1519 e l'aprile 1520: Raffaello e il Castiglione intraprendono a Roma la scrittura di un'elaborata lettera a Leone X, destinata ad esser messa in bella copia, e inoltre illustrata dallo stesso Raffaello. Intanto il pittore rivede i disegni di monumenti romani che aveva già fatto, mette a punto e teorizza la metodologia del rilievo, progetta un atlante generale di Roma antica (comparabile per ambizioni alle carte del mondo che illustravano i codici di Tolomeo), completa (o quasi) l'atlante della Regio I. Castiglione lascia Roma portandosi dietro, per lavorarci ancora, il brogliaccio che aveva steso al fianco di Raffaello, e cinque mesi dopo l'artista muore»[14].
6/ Roma al centro del Rinascimento
Ecco il valore della lettera:
«Era dunque già cominciata, sorgendo in armi dalle rovine di Roma grazie a Raffaello, quella tensione verso il corpus delle antichità che avrebbe informato nel secolo seguente il Museo Cartaceo di Cassiano dal Pozzo, e dato poi origine, da Winckelmann in poi, a quella che oggi chiamiamo "archeologia"»[15].
Ma, certamente, il clima creato da Giulio II e da Leone X - e prima ancora dai papi da Sisto IV in poi - era il contesto nel quale una lettera di questo tipo, per la prima volta nella storia del mondo, poteva essere pensata.
Con ciò non si intende dire che tutto il bene in questione derivasse dai pontefici, ma si intende piuttosto sostenere che Roma era allora, insieme a Firenze, uno dei due centri maggiori del Rinascimento e che sia gli artisti che gli ecclesiastici contribuirono a creare quel clima di nuova e anzi inedita attenzione al passato che mai si era verificato nei millenni precedenti o in altre culture e continenti.
Scrive Settis: «E al centro dell'irradiazione del testo non può essere Mantova. Dev'essere Roma»[16].
«Né Raffaello né Castiglione potevano credere che Leone X dovesse arrovellarsi su quelle pagine inseguendo compassi astrolabi e calamite, eppure questa sezione è la più lunga della Lettera (in uno dei manoscritti anzi, quello di Monaco, si espande ancora, anche se non è chiaro chi ne sia responsabile). È dunque da credere che la funzione di questa sezione tanto specializzata, che quasi trasforma la lettera dedicatoria in trattatello tecnico, fosse di dimostrare, agli occhi del Papa, l'estremo rigore, la serietà (noi diremmo 'scientifica') dell'impresa di Raffaello»[17].
Questa attitudine tecnica, questa passione architettonica, è certamente propria di Raffaello:
«Rispetto a tali coordinate di cultura e di gusto, Raffaello fa storia a sé. Come il Prospettivo Milanese, piange davanti alle rovine, ma subito vuole impadronirsene mediante il disegno; come il cardinal Cesarini, si compiace della sua conoscenza dell'antico e vuol condividere con i concittadini quel suo «onesto piacere», ma stabilisce nuovissime regole del gioco, e gira per le rovine armato di bussola e compasso»[18].
Ma è solo a Roma che potevano convergere la presenza di tante e ricchissime antichità e la passione per esse che il Rinascimento cristiano andava riscoprendo per via di artisti come Bramante, Michelangelo e Raffaello e per via di ecclesiastici come Giulio II e Leone X.
Scrive ancora Settis:
……«resta da aggiungere la secca opposizione fra coloro che
misurando col suo piccolo iudicio le cose grandissime (...) de la cità di Roma, circa el mirabile artificio, le ricchezze, ornamenti e grandezza de li edificii (...), quelle più presto [cioè piuttosto] estimano fabulose, che vere.
e chi invece, come l'estensore della lettera,
considerando, dalle reliquie che anchor si veggono delle ruine di Roma, la divinitate di quelli animi antichi [...ritiene ragionevole] che molte cose a noi paiono impossibili che ad essi erano facilissime.
Chi scrive la Lettera dà per scontato che il Papa debba condividere questa seconda opinione, se intende eguagliare e superare [gli Antichi] con magni edificii. Perciò
Non debe (...) esser tra li ultimi pensieri di Vostra Santitate, lo haver cura che quel poco che resta di questa antica madre de la gloria e grandezza italiana, per testimonio del valore e virtuale de quelli animi divini, che pur con la memoria sua excitano alla virtute li spirti che hoggi di sono tra noi, non sii estirpato e guasto dalli maligni et ignoranti.
Il pathos delle rovine di Roma aveva, e non solo in Italia, una tradizione secolare, che ispira anche questo testo; ma solo qualche volta, e mai con tanta forza, si era fatto leva sull'antinomia fra la favolosa bellezza delle architetture antiche e il loro disfarsi in rovina al fine di trarne, con la forza di un sillogismo, l'esortazione ad haver cura delle vestigia dell'Urbe»[19].
7/ Conservare le antichità romane, ma distruggere quelle tardo-romane e medioevali
Ovviamente esiste una riserva nella Lettera, poiché non si tratta di un interesse archeologico tout court, così come di una preservazione del passato senza eccezioni.
Raffaello, infatti, sta lavorando ad abbattere, almeno progettualmente, l’antica basilica costantiniana, così come non si dà pensiero per gli edifici medioevali dell’urbe che sarebbero di lì a breve spariti per lasciare il posto nei secoli ai rifacimenti rinascimentali e poi barocchi.
Perché l’aetas media, il medioevo, per lui, non conta. Il Rinascimento, rifacendosi al classico, recide il periodo intermedio, quel lunghissimo periodo di mille anni che, da allora, verrà chiamato medioevo.
Ebbene tale accentuazione della bellezza del passato romano e la corrispettiva dimenticanza dei secoli “intermedi” non sarà solo un’idea da intellettuali, ma porterà, di fatto, alla scomparsa nell’urbe di quasi tutto il patrimonio successivo al classico.
Solo l’amore moderno per il medioevo porta gli storici dell’arte odierni a rimpiangere, ad esempio, la perdita della produzione in affresco precedente a Giotto, motivo per cui si possono fare oggi solo ipotesi sul grande passaggio che avverrà fra la fine del XIII secolo e gli inizi del XIV. Ipotesi che non possono divenire certezze, poiché il patrimonio artistico di quei decenni è andato perduto in età rinascimentale e poi barocca. Restano solo alcune scene del Giudizio universale di Cavallini a Santa Cecilia, gli affreschi del Sancta Sanctorum, le pitture restanti riscoperte recentemente in Santa Maria in Ara Coeli (oltre ovviamente ai mosaici delle basiliche), ma tutto il resto è stato cancellato in Roma e solo ad Assisi si può cogliere pienamente il rinnovamento d’epoca, che si capisce però indotto anche da Roma.
Raffaello, Giulio II e Leone X salvano le antichità romane, ma, al contempo, condannano alla sparizione quelle medioevali, perché la loro prospettiva storico-estetica farà scuola: salvare il classico, condannare il medioevale.
Interessantissimi sono in proposito, nella Lettera a Leone X, i passaggi in cui Raffaello esecra i secoli “intermedi” dove, ove si legge “tedeschi”, si deve intendere il periodo romanico e soprattutto gotico, condannato inesorabilmente come esteticamente poco interessante dal Rinascimento di Raffaello:
«Parve dappoi, che i tedeschi cominciassero a risvegliare un poco quest’arte: ma negli ornamenti furono goffi, e lontanissimi dalla bella maniera de’ romani: li tedeschi per ornamento spesso ponevano solamente un qualche figurino, rannicchiato e malfatto, per mensola a sostenere un trave: e animali strani, e figure, e fogliami goffi e fuori di ogni ragione naturale. Pure ebbe la loro architettura questa origine, che nacque dagli alberi non ancor tagliati, li quali piegati li rami e rilegati insieme, fanno li loro terzi acuti. E benchè questa origine non sia in tutto da sprezzare, pure è debole; perchè molto più reggerebbon le capanne fatte di travi incatenate e poste a uso di colonne, con li culmini e coprimenti, come descrive Vitruvio dell’origine dell’opera dorica, che gli terzi acuti li quali hanno due centri. Ma ».
La decadenza dell’arte in età medioevale non sarà dunque un postulato puramente teorico, ma la dichiarazione che essa non è meritevole di conservazione.
Con precisione, nella Lettera stessa, Raffaello fa iniziare la decadenza artistica e, quindi, la disponibilità alla damnatio memoriae con l’ascesa al trono di Costantino. Tutto ciò che è costantiniano e post-costantiniano può scomparire:
«E questo conoscer si po da molte cose, e, tra l'altre, da l'arco di Constantino, el componimento del quale è bello e ben fatto in tutto quello che apartiene alla architectura, ma le sculpture del mede(si)mo arco sono sciocchissime, senza arte o bontate alchuna. Ma quelle che vi sono delle spoglie di Traiano e d'Antonino Pio sono excellentissime e di perfetta maniera.
Osservazione, questa, notevolissima e senza alcun vero precedente. Essa non solo distingue nell'arco di Costantino la maggior tenuta dell'architettura tardo antica rispetto alta scultura, ma con penetrante sguardo analitico cala sulle sculture dell'Arco, le giudica e le data correttamente, distinguendo i rilievi di spoglio delle età di Traiano e di Marco Aurelio (veniale per quel tempo è la menzione, in suo luogo, del suo immediato predecessore Antonino Pio) da quelli «sciocchissimi» del tempo di Costantino. Una diagnosi stilistica precoce, che congiunge l'esperienza e la pratica dell'arte alta competenza antiquaria, come in quegli anni solo Raffaello sapeva fare»[20].
Si vede qui come il Rinascimento detta, con Raffaello, i criteri estetici che sono ancora oggi in uso, criteri ovviamente legati anche a precise considerazioni di ordine storico volte a cogliere il bene di alcuni periodi e a dimenticarlo in altri.
8/ Raffaello venne riscoperto contro i rivoluzionari francesi che volevano impossessarsi di tutti i reperti classici per trasferirli a Parigi
Si vede bene qui come la Lettera a Leone X non abbia interesse solo in sé, in relazione al Rinascimento, ma come essa inauguri una prospettiva di lettura che è nuova, ma anche problematica.
Interessantissimo è, poi, come tale Lettera sia decisiva anche in altri periodi storici, sebbene tale rilevanza venga spesso passata sotto silenzio.
Una forte riscoperta dello scritto incompiuto di Raffaello e Castiglioni avvenne in chiave anti-francese e anti-napoleonica, nel momento in cui i rivoluzionari iniziarono anche in Italia la depredazione di opere d’arte che già avevano intrapreso in altre nazioni, con il progetto apparentemente cosmopolita e in realtà dittatoriale di creare un unico “Museo universale” a Parigi[21].
Fu in quell’occasione che per la prima volta la Lettera venne attribuita a Raffaello, per evocare la sua autorità contro il progetto rivoluzionario illuministico:
«La Lettera a Leone X, dopo che fu stampata nel 1733 con l'attribuzione al Castiglione, ebbe poca influenza su questi sviluppi, ma tutto cambiò dopo che il Francesconi […] l'ebbe attribuita a Raffaello nel 1799. Erano, quelli, anni durissimi per i Papi e le loro collezioni di antichità, abbondantemente depredate dai francesi dopo il trattato di Tolentino (1797). Ma la Lettera, ormai riconosciuta come di Raffaello, venne in mano fra gli altri ad Antonio Canova, a Carlo Fea, e allo stesso Pio VII, e li incoraggiò a cercare qualche rimedio alle perdite subite. Nel suo Chirografo del 1802, in realtà steso in gran parte dal Fea (Prefetto alle Antichità], Pio VII ricorre ai grandi nomi di Leone X e di Raffaello per rifondare la propria politica delle arti:
Nel vortice delle passate vicende, immensi sono stati li danni, che questa Nostra dilettissima Città ha sofferti nella perdita dei più rari monumenti, e delle più illustri Opere dell'Antichità. Lungi però dall'illanguidirsi per questo, si è anzi maggiormente impegnata la Paterna Nostra sollecitudine a procurare tutti i mezzi, sia per impedire che alle perdite sofferte nuove se ne aggiungano, sia per riparare con il discuoprimento di nuovi Monumenti alla mancanza di quelli, che sonosi perduti. Sono state queste le riflessioni, che dappresso all'illustre esempio che la S(anta) M(emoria] di Leone X diede nella persona del gran Raffaello d'Urbino, ci hanno recentemente determinati ad eleggere l'incomparabile scultore Canova, emulo dei Fidia, e dei Prassiteli, come quello lo fu degli Apelli, e dei Zeusi, in Ispettore Generale di tutte le Belle Arti (...).
Canova come Raffaello, Pio VII come Leone X: questo il terreno su cui s'impianta e si sviluppa la leggenda di Raffaello "primo Soprintendente di Roma", che da allora in poi verrà data da molti per scontata»[22].
Conclude sapientemente Settis che se Raffaello non fu determinante nella tutela dei beni archeologici nel cinquecento, lo fu invece a partire dall’età illuministica e per i secoli a venire:
«Il preteso «Commissariato di Raffaele» appartiene dunque sì alla storia della tutela, ma solo a quella dell'Otto e del Novecento»[23].
9/ L’articolo “più originale” della nostra Costituzione: la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico
Settis conclude facendo riferimento all’articolo 9 della Costituzione italiana dove si tutela sia il “paesaggio” che il “patrimonio storico e artistico”, articolo importantissimo e gravido di conseguenze, che guarda al futuro che non può non radicarsi nella precipua storia italiana. Ebbene proprio quell’articolo reca ancora l’impronta di un portato che viene da Raffaello, da Giulio II, da Leone X e raggiunge il nostro tempo:
«La formulazione più netta, più tagliente e più felice [che mostra come la tutela possa assumere rango costituzionale] è l'art. 9 della Costituzione italiana del 1948: La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Aveva ragione il Presidente Ciampi di definirlo "l'articolo più originale della nostra Costituzione", eppure i precedenti non mancano, come risulta dai verbali della Costituente. Un simile principio era già nella Costituzione tedesca della Repubblica di Weimar (1919) e in quella, effimera, della Repubblica spagnola (1931). Anche qui, una riflessione s'impone: la Costituzione di Weimar nacque all'indomani di una rovinosa sconfitta in guerra, quella spagnola sulla soglia di una guerra civile, quella italiana prese forma fra le rovine di un'altra guerra. Come le tempeste dell'età napoleonica avevano forgiato le coscienze e indotto il governo pontificio a una più avanzata formulazione delle leggi di tutela, così accadde nel Novecento con le Costituzioni di tre grandi Paesi europei. E, nella discussione sull'art. 9 nell'aula della Costituente, uno dei deputati, Edoardo Clerici, espressamente citò, il 30 aprile 1947, l'editto Pacca come quello che «segnò quasi 150 anni or sono l'esempio a tutta la Legislazione moderna». Ma gli editti del 1819-20 presupponevano il Chirografo del 1802, e questo si era fatto forte del nome di Raffaello, nella sua Lettera non spedita a Leone X. Nel corso di questa lunga storia che arriva ad oggi, la rivoluzionaria novità della visione di Raffaello fu di cogliere assai precocemente il nesso operativo fra le procedure di conoscenza e studio dell'antichità e le pratiche della loro tutela»[24].
Note al testo
[1] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 2.
[2] Quanto al testo della Lettera stessa Settis dichiara:«Nelle citazioni dalla Lettera ho seguito il testo offerto da F. P. Di Teodoro, Raffaello, Baldassar Castiglione e la Lettera a Leone X, seconda edizione, Bologna 2003, pp. 65-87, modernizzando la grafia quel poco che mi è parso opportuno per questa circostanza. Così pure per le citazioni da altri testi e documenti, tratte dalla preziosa raccolta di J. Shearman, Raphael in Early Modern Sources, 1483-1602, New Haven-London 2003. Le traduzioni dal latino, talvolta leggermente abbreviate, sono mie» (S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 3).
[3] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, pp. 2-4.
[4] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 5.
[5] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, pp. 6-7.
[6] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 8.
[7] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 9.
[8] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 12.
[9] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, pp. 13-14.
[10] Lettera di Raffaello a Simone Ciarla dell’1/7/1514.
[11] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 27.
[12] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, pp. 28-29.
[13] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 16.
[14] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 13.
[15] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 19.
[16] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 19.
[17] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, pp. 24-25.
[18] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 26.
[19] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, pp. 20-21.
[20] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 22.
[21] Cfr. su questo la storia delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, della Pinacoteca di Bologna e della Pinacoteca di Brera:
- Le Gallerie dell’Accademia di Venezia. Guida per la visita, prima parte, di Andrea Lonardo 1/ La vera storia delle Gallerie dell’Accademia di Venezia: per capire la storia d’Italia all’arrivo dei rivoluzionari francesi 2/ I dipinti superstiti della chiesa di Santa Maria della Carità e i teleri depredati alla Sala dell’albergo della Scuola grande di San Marco, presenti nella sala 23 3/ I teleri di Vittore Carpaccio con le storie di Sant’Orsola e delle undicimila vergini depredati alla Scuola di Sant’Orsola 4/ Storia della chiesa di Santa Maria della carità (oggi sala delle Gallerie dell’Accademia di Venezia)
- La vera storia delle Gallerie dell'Accademia di Venezia per capire la vera storia d'Italia all'arrivo dei rivoluzionari francesi (II parte), di Andrea Lonardo 5/ I teleri con le Storie delle reliquie della Croce depredati alla Scuola di San Giovanni Evangelista 6/ I teleri di Jacopo Robusti detto Jacopo Tintoretto depredati alla Scuola Grande di San Marco 7/ L’istituzione laica delle Scuole di Venezia 8/ Un elenco delle opere depredate alle chiese di Venezia all’arrivo dei rivoluzionari francesi
- Introduzione alla Pinacoteca di Brera di Milano. «La Pinacoteca di Brera si distingue dalle raccolte di Firenze, di Roma, di Napoli, di Torino, di Modena, di Parma, per le vicende della sua formazione che non ha radici nel collezionismo aristocratico, principesco o di corte, ma nel collezionismo politico, di Stato, che è invenzione napoleonica. Ai dipinti tolti da chiese e conventi della Lombardia, se ne aggiunsero altre centinaia confiscati dai vari dipartimenti, numerosissimi quelli dal Veneto», di Luisa Arrigoni
- La Pinacoteca di Bologna ha sede nell’antico noviziato dei Gesuiti che fu depredato all’arrivo delle truppe rivoluzionarie francesi inviate dal Direttorio ed è composta in massima parte dalle opere sottratte con la violenza (circa 1000 tele ed opere diverse) alle chiese e ai conventi fra il 1797 e il 1810.
[22] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, pp. 29-30.
[23] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, p. 31.
[24] S. Settis, Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana, pp. 32-33.