Quando si parla di donne teologhe e di presenza femminile in responsabilità apicali nella Chiesa non si deve dimenticare il matrimonio! Breve nota di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni La chiesa e Famiglia e affettività.
Il Centro culturale Gli scritti (6/12/2020)
La grande questione della disparità di genere sul lavoro appare evidente non tanto dal fatto che poche donne raggiungono posizioni apicali, ma, ancor più, dal fatto che ciò è impedito alle donne sposate[1]. Non è sufficiente rilevare che mai quotidiani come La Repubblica, La Stampa o il Corriere della Sera hanno avuto un direttore donna e, quindi, accusare il mondo giornalistico di essere maschilista: la questione radicale è se potrebbe divenire direttore di una testata di tale importanza una donna sposata o se la difficoltà di conciliare lavoro e vita familiare glielo impedirebbe.
Quello che rende evidente la disparità è il fatto che gli uomini raggiungono vertici apicali anche se sposati, mentre per le donne ciò è possibile solo alle donne single.
Con ciò non si intende affermare che tutte le donne debbano sposarsi, ma che la maggior parte lo desiderano e desiderano diventare madri e, al contempo, desidererebbero raggiungere alti livelli nella loro professione.
Ora ciò illumina anche un aspetto della questione della presenza di donne ai vertici gerarchici di importanti istituzioni cristiane o di teologhe a fianco della formazione di seminaristi o frati o teologi e così via.
Credo sia fallace la via di fare semplicemente riferimento alla presenza di donne tout court. Non che questo non sia legittimo e anche di un certo rilievo.
Ma ciò che veramente sarebbe innovativo è che almeno una gran parte di esse abbia famiglia, oltre ad essere teologa o responsabili di istituzioni.
Questa capacità di avere relazioni con la figura maschile nella carne della vita, di vivere in maniera “reciproca” il rapporto maschile/femminile dentro le case e nella Chiesa sarebbe un contributo prezioso anche dove già c’è unapresenza di donne in teologia e nelle istituzioni.
La compresenza e il lavoro comune di donne consacrate, di donne non sposate e non consacrate, ma anche di donne sposate, creerebbe una tensione feconda che arricchirebbe ancor più il panorama della teologia e del ministero.
Altrimenti si incorrerebbe nello stesso rischio presente talvolta nel clero celibe: che persone senza una famiglia siano l’unico riferimento per una vita laicale, con l’accusa che essi non sarebbero adatti a comprendere pienamente le dinamiche della vita reale, perché mai avrebbero sperimentato la vita concreta di una famiglia, nella differenza dei sessi e delle generazioni.
Nella mia esperienza ormai decennale di sacerdozio posso testimoniare di aver incontrato numerosissime donne capaci di apportare una luce efficacissima nell’ambito delle decisioni ecclesiali, proprio perché sposate e madri, oltre che teologhe. La loro prospettiva è stata decisiva nell’illuminare in maniera concreta tante dinamiche della vita parrocchiale e diocesana.
Ovviamente anche talune donne non sposate hanno saputo apportare un loro contributo ed è necessario un equilibrio nella compresenza di entrambe le vocazioni femminili, quella verginale e quella matrimoniale, nel concreto lavoro della teologia.
Come nelle carriere laiche la situazione matrimoniale costituisce un impedimento profondo e ingiusto per una donna al raggiungimento di professioni apicali, così sarebbe interessante verificare se una teologa sposata abbia la possibilità di raggiungere un posto elevato all’interno dell’Accademia e se ciò sia più o meno facile rispetto a teologhe non sposate.
P.S. Fra l'altro la situazione di una donna sposata è tale e diversa proprio perchè si è costruita in un rapporto carne a carne con l'altro sesso e si è definita e ha definito l'altro nella concretezza e nella quotidianeità della vita.
Note al testo
[1] Lo abbiamo fatto notare più estesamente in una nostra recensione al film Il diritto di contare. Un film contro il razzismo verso i neri, le donne, le sposate e madri, di Andrea Lonardo: «La vera discriminazione femminile non riguarda la donna in sé, ma la donna che è madre e sposa. Per questo le quote rosa sono una risposta falsa al problema. La questione non è di per sé il sesso maschile o femminile, ma quella della donna “in situazione” che, nella maggioranza dei casi, vuole sposarsi ed avere figli e proseguire nel suo lavoro. Questa è la grande questione che viene da tutti ignorata. Nella vita ordinaria odierna questo è quasi impossibile. Una donna che vuole essere al top nel mondo del lavoro o della ricerca deve, nella maggioranza dei casi, rinunciare al suo desiderio di sposarsi e di avere bambini». Sulla questione vedi anche 1/ «Io, mamma lavoratrice, non ce l'ho fatta», di S. P. Lettera di una mamma lavoratrice a Beppe Severgnini 2/ «La colpa è di noi uomini», di Beppe Severgnini. La risposta di Beppe Severgnini alla mamma lavoratrice 3/ Colpa di noi maschi se troppe madri lasciano il lavoro, di Beppe Severgnini e Donne più brave a scuola ma il lavoro le penalizza. Più penalizzate le lavoratrici con figli, ovviamente. Il prossimo politico che lancia l'allarme sulla denatalità gli tiro un pomodoro [Le ultime 2 frasi del titolo sono dal Profilo FB dell’autrice], di Monica Ricci Sargentini.