Uno Stato “statalista” che non sia fondato sulla sussidiarietà è destinato ad implodere e a morire di burocrazia. La critica di Hans Kelsen al marxismo vale anche per il Welfare, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /11 /2020 - 22:41 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Filosofia e Carità e giustizia.

Il Centro culturale Gli scritti (10/11/2020)

1/ Lo statalismo marxista non può che divenire elefantiaco. La visione di Kelsen e l’odierna questione dello statalismo nelle socialdemocrazie europee

Ricordo le lezioni di Lucio Colletti alla Sapienza, nel 1979-1980, quando avevo appena 19 anni – erano le mie prime lezioni di Filosofia.

Colletti in quell’anno ricordò come Hans Kelsen avesse criticato il marxismo non solo da un punto di vista teoretico, ma ancor più a partire da una visione concretissima della compagine statale: se tutto doveva essere statalizzato, ecco che l’esito non poteva che essere una burocratizzazione infinita della compagine sociale, perché tutto doveva essere centralizzato e governato dal Partito.

Colletti mostrava come questo era stato il destino fallimentare dell’Unione Sovietica: un enorme apparato burocratico dove, per mantenere il controllo su tutto, tutto era divenuto mastodontico e, in fondo, immobile. L’apparato burocratico sovietico pretendeva di controllare tutto e, per questo, non vi era più immediatezza e semplicità in qualsivoglia azione sociale.

Inoltre, l’enorme apparato statale, proprio per gli infiniti passaggi a cui ogni nuova azione doveva essere sottoposto, era diventato occasione enorme di corruzione e di imboscamento di risorse, con ingiustizie ogni giorno crescenti sulle persone.

Questo è il paradosso che Kelsen evidenzia: dove lo Stato dovrebbe scomparire per lasciare spazio ad una società senza classi, ecco che il marxismo giungeva, invece, ad un potere assolutamente centralizzato, per controllare che nessuna riemergenza capitalista si potesse reimpossessare dell’economia.

Ecco le parole di Colletti a commento di Kelsen:

Lo Stato abolisce la proprietà privata e prende possesso di tutti i mezzi di produzione, per sopprimere l’anarchia della produzione capitalistica. Ma, proprio nel momento in cui lo Stato centralizza tutti i mezzi di produzione, esso deve sparire. Che è come dire, che l’anarchia della società comunista (in quanto società che ha soppresso lo Stato) è invocata come il mezzo che deve sopprimere l'anarchia del capitalismo!

Il controsenso non potrebb'essere più stridente. Ma è proprio ciò che prospetta Engels quando, nel suo scritto L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza, afferma che, «nella misura in cui scompare l'anarchia della produzione sociale, viene meno anche l'autorità politica dello Stato»[1]. Qui, veramente, il lettore è preso da stupore. Engels immagina una società in cui la produzione sia centralizzata e diretta da un piano come un'unica e immensa fabbrica; e, contemporaneamente, ritiene realizzabile, in queste condizioni, la scomparsa dell'autorità direzionale dello Stato. La sorpresa è tanto maggiore, se si tiene conto della visione realistica, che Engels mostra altrimenti di avere, del grado di disciplina e di organizzazione autoritaria che è richiesta dall'industria moderna.
Nelle fabbriche della società di domani — egli scrive, in polemica con gli anarchici
[2] — «le questioni saranno risolte autoritariamente». «L'automata meccanico d'una grande fabbrica è molto più tiranno di quanto lo siano mai stati i piccoli capitalisti che impiegano operai. Almeno per le ore di lavoro si può scrivere sulle porte di queste fabbriche: Lasciate ogni autonomia, voi che entrate!
Se l'uomo con la scienza e il genio inventivo si sottomise le forze della natura, queste si vendicano su lui sottomettendolo, nel mentre ch'egli le impiega, a un vero dispotismo, indipendente da ogni organizzazione sociale. Voler abolire l'autorità nella grande industria (conclude Engels), è voler abolire l'industria stessa; distruggere la filatura a vapore per ritornare alla conocchia»
[3].

Ebbene l’originalissima riflessione di Kelsen non vale solo per la visione marxista dello Stato e lo statalismo tipico del comunismo e, in specie, dell’Unione Sovietica come degli altri Stati comunisti come la Cina, Cuba o la Corea del Nord.

Vale anche per le visioni stataliste così presenti nella cultura europea che, dimenticando la sussidiarietà, ritengono di dover incentrare tutto nello Stato, dimenticando che non esiste solo il liberismo come possibilità diversa dallo statalismo, ma anche una visione dello stato basata sulla sussidiarietà che è ben più interessante[4]!

Mentre nel liberalismo è il singolo che si oppone allo Stato e pretende di privatizzare tutto, nelle visioni incentrate sulla sussidiarietà sono le realtà sociali più semplici ed elementari come la famiglia, le religioni, i sindacati, i quartieri con le loro aggregazioni nate nel corso dei secoli, ad essere cellule vive che lo Stato deve sostenere e non pretendere di sostituirsi per non burocratizzarsi.

Questa anzi è la questione decisiva: se tutto deve essere gestito dallo Stato, perché la presenza di ogni altra realtà comunitaria sorta spontaneamente è pericolosa, ecco che non vi può essere altro esito che un’enorme burocratizzazione.

Se, invece, ogni libertà lasciata alle famiglie, alla scuola privata, all’accompagnamento ai deboli fatta da realtà non statali, ai diversi organismi religiosi non sono visti come un pericolo, ma anzi come realtà vivificanti dello stato, ecco che una società basata né sul collettivismo burocratizzante, sai esso marxista o meno, né sull’individualismo liberista e capitalista, bensì sulle aggregazioni spontanee che danno linfa alla società permette di sfuggire alle maglie dello statalismo.

Altrimenti il destino dello statalismo del Welfare in cui viviamo sarà lo stesso dello Stato marxista. Non essendo lasciata se non pochissima autonomia alle realtà comunitarie che sono il vero motore del Paese, ecco che la burocrazia è onnipresente e una serie infinita di cavilli legislativi paralizzano tutto. Infinite carte debbono essere prodotte per la minima azione, dall’economico all’architettonico, dall’organizzativo al religioso, di modo che prosperano solo le persone che utilizzano dello Stato ai loro fini personali. Ma se un cittadino intendesse seguire alla lettera le prescrizioni dettate dagli infiniti decreti di uno stato statalista niente si muove più.

Se l’accompagnamento degli anziani o la scuola dei bambini e dei ragazzi sono interamente affidate allo stato ecco che tutto si paralizza, perché ai corpi vivi vengono tarpate le ali[5].

Il paradosso è che la grande questione della sussidiarietà è spesso nemmeno conosciuta dalla politica e dagli stessi studiosi di diritto ed economia e, talvolta, nemmeno citata nei percorsi universitari. Il diffuso pregiudizio che vede come giusto solo l’intervento statale regna così ovunque – si veda, solo per fare un caso le discussioni sulla scuola.

2/ Il marxismo tra visione “scientifica” del reale e proposta morale basta sul “dover essere” del bene. La cristica di Kelsen

Kelsen ricorda poi come l’ambiguità del marxismo consista nel presentare la “società senza classi” come una necessità ineluttabile e scientifica, mentre essa è altrove nei filosofi marxisti un ideale morale.

L’oscillazione fra esito ineluttabile della società senza classi e visione morale di esso non viene mai risolta nei testi fondatori (e, in fondo, nemmeno oggi): 

«Negli scritti di Marx e di Engels, sia del periodo giovanile sia di quello della piena maturità, il comunismo non è mai prospettato come una meta ideale o un progetto soggettivo-umano, bensì come un approdo e un traguardo verso cui tende il processo storico stesso, cioè il corso reale e aggettivo delle cose. In polemica con i vari socialisti utopisti, Marx ed Engels riaffermano, in ogni occasione, che «la classe operaia non ha ideali da realizzare»; ciò che essa persegue è quel che lo sviluppo storico stesso pone all'ordine del giorno. «II comunismo non è per noi una condizione che debba essere realizzata, un ideale cui si debba conformare la realtà. Noi chiamiamo comunismo — scrivono Marx ed Engels nell'Ideologia tedesca[6]— il movimento reale che abolisce le condizioni attuali».
La differenza tra marxismo e socialismo utopistico è tutta qui. Il socialismo utopistico oppone l'ideale alla realtà, il «dover essere» all'«essere». II marxismo viceversa, che ritiene di aver indagato e scoperto le «leggi che regolano il movimento storico reale, si dichiara «socialismo scientifico». Esso non chiama il movimento operaio a perseguire astratti princìpi di giustizia, bensì gli prospetta come obiettivi i traguardi stessi che si vanno realizzando sotto l'azione, e come effetto, delle «leggi»[7].

Il marxismo pretendeva così di differenziarsi dal pensiero anarchico che vedeva come un pensiero ideale e non scientifico:

«Proudhon pone all'attuale società — scrive Engels — l’istanza di trasformarsi non secondo le leggi del suo proprio sviluppo, ma secondo le prescrizioni [...] della giustizia. Dove noi produciamo dimostrazioni, Proudhon predica e si lamenta»[8].
Radicalmente diversa, la linea di condotta del «socialismo scientifico». L'obiettivo di trasformazione, che esso propone, non fa che enunciare lo stato di cose verso cui tendono le leggi che presiedono al corso storico effettivo. Non è un «dover essere» morale, ma una «necessità» scientifica
[9].

Ecco ciò che pretende di essere il materialismo dialettico di Marx:

Il socialismo marxista pretende di essere una «descrizione» moralmente indifferente della successione storica delle varie formazioni economico-sociali (cfr. il Vorwort a Per la critica dell'economia politica). Esso si propone di «spiegare», in termini causali, la genesi di ciascuna di esse, l'una dall'altra. Al tempo stesso è però innegabile che la successione storica, ch'esso prospetta, risulta orientata, cioè diretta verso un fine. Il corso storico, che l'indagine mette in luce, attraversa le seguenti tappe fondamentali: si snoda a partire da uno stadio primitivo, senza classi e senza proprietà privata (il «comunismo originario»); passa attraverso un lungo intermezzo storico, contrassegnato — in conseguenza della divisione in classi della società — da «schiavitù» e «sfruttamento»; approda, infine, a uno stadio, di perfetta libertà ed eguaglianza, che è il «comunismo» moderno propriamente detto. […]
La difficoltà, in cui la teoria si avvolge, è evidente. Da una parte, in quanto analisi scientifica, il marxismo prospetta il corso storico reale come uno sviluppo causale-oggettivo. Dall'altra, questo sviluppo
causale è chiamato, di fatto, a produrre un fine, a realizzare un «valore»: la società comunista in quanto società «dei liberi e degli eguali». Il socialismo marxista, in altri termini, pretende di ricavare e dedurre, da un'«evoluzione necessaria» delle cose, una condizione finale che esso stesso prospetta come un «salto» dal «regno della necessità» in quello «della libertà». La conclusione, che s'impone, è quella che già trasse, a suo tempo, Kelsen: «La critica di Marx alla società e la sua predizione del comunismo, come risultato necessario di un'evoluzione determinata dalla legge causale, sono basate su di un giudizio soggettivo di valore». «Trovare i mezzi per realizzare un fine presupposto — aggiunge Kelsen — è certo un compito scientifico, poiché il rapporto fra mezzi e fine è un rapporto fra causa ed effetto, e la conoscenza di questo rapporto è una funzione specifica della scienza. Ma, per trovare i mezzi per la realizzazione di un fine, si deve prima determinare un fine definito, e la determinazione di un fine [...] non è una funzione scientifica. Essa non è e non può essere la funzione di una scienza obiettiva, essendo basata su di un giudizio di valore che, in ultima analisi, ha carattere soggettivo»[10]. La difficoltà è tutta qui[11].

Questo è il contesto nel quale situare il problema della burocratizzazione su enunciato. Il marxismo pretende che sia costruita una forma statale che possa controllare ogni minima risorsa e che venga centralizzata per compiere il passaggio dal capitalismo, che è per sua natura incontrollato e quindi anarchico, alla società giusta perché controllata dal potere centrale che porterà la giustizia.

Non così, ovviamente, per il marxismo. Sebbene anch'esso condivida (come abbiamo visto) alcuni aspetti dell'ingenuo ottimismo antropologico che è al fondo della dottrina dell'anarchia, il marxismo non prospetta alcun «ritorno alla natura». La sua critica del capitalismo è, anzi, incentrata sul tema che il capitalismo è un ordinamento «anarchico» o «naturale». Engels contrappone chiaramente all'ordinamento «naturale» della società capitalistica l'«organizzazione pianificata e cosciente». « In questo modo, in un certo senso (egli dice), l'uomo si separa definitivamente dal regno degli animali»[12]. Con la socializzazione dei mezzi di produzione — aggiunge Engels — gli uomini «adesso, per la prima volta, diventano coscienti ed effettivi padroni della natura, perché, ed in quanto, diventano padroni della loro propria organizzazione in società»[13].
Sotto questo profilo, la distanza tra anarchismo e marxismo non potrebb'essere maggiore. Là, «spontaneità naturale»; qui, «organizzazione pianificata». Là, reintegrazione dell'uomo nell’«ordine naturale»; qui, uscita definitiva dell’uomo dall'immediatezza naturale-animale, per accedere a un «ordine nuovo» e diverso, prodotto storico dell'uomo e, perciò, contrapposto a quello della natura. Là, infine, «spontaneità»; qui «coscienza», «volontà organizzata», ecc.
[14].

Note al testo

[1] F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza, Roma 1970, p. 118.

[2] Cfr, K. Marx – F. Engels, Critica dell'anarchismo, Torino 1972, pp. 308-9.

[3] L. Colletti, Kelsen e il marxismo, in Tramonto dell’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 184-185.

[4] Sulla sussidiarietà, cfr. «Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire». L’applicazione del paradosso di Böckenförde all’intera società civile, di Andrea Lonardo e, in maniera più articolata, Il principio di sussidiarietà nella dottrina sociale della Chiesa, di Giorgio Feliciani.

[5] Non meno triste è l’esito dello statalismo e del welfare delle socialdemocrazie del Nord Europa: anche se lì lo Stato è meno burocratizzato per il ridotto numero di abitanti rispetto agli altri Paesi d’Europa, nondimeno, poiché lo Stato è l’unico ad occuparsi degli anziani, della scuola, della disabilità – e così via – il risultato è che ogni anziano è solo, che la scuola è controllata in ogni suo passo al punto che è sottratta ai genitori ogni libertà educativa, che i disabili non vengono più fatti nascere. Tutto è statalizzato e, apparentemente, ciò rende tutto funzionante, mentre alla società è strappata l’anima della vita con il suo calore.

[6] K. Marx - F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma 1958, p. 32. Traduzione modificata.

[7] L. Colletti, Kelsen e il marxismo, in Tramonto dell’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 165.

[8] F. Engels, Sulla questione delle abitazioni, Roma 1971, p. 109.

[9] L. Colletti, Kelsen e il marxismo, in Tramonto dell’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 166.

[10] H. Kelsen, La teoria comunista del diritto, Milano, 1956, pp. 66-7. Quest’opera di Kelsen, il cui testo originale è in inglese, è del 1955. Nella prima parte, essa riprende le tesi già esposte da Kelsen nel saggio del 1920 Socialismo e Stato.

[11] L. Colletti, Kelsen e il marxismo, in Tramonto dell’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 168-169.

[12] F. Engels, Antidühring, in Marx-Engels, Opere, vol. XXV, p. 273.

[13] Ibidem. Kelsen commenta questi testi in Socialismo e Stato cit., pp. 91-6,

[14] L. Colletti, Kelsen e il marxismo, in Tramonto dell’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 181-182.