Perché la lotta contro l’omotransfobia produce nuove ingiustizie, di Giovanni Amico
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Famiglia e gender.
Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2020)
La pretesa di combattere le discriminazioni mostra il suo lato problematico ogni volta che cerca di normare legislativamente la questione: la giusta richiesta di un assoluto rispetto, che dovrebbe essere affrontata a livello morale ed educativo, diviene irrispettosa e intollerante quando pretende un’uguaglianza sotto ogni aspetto che non è nella realtà.
Si pensi alla questione della partecipazione di transessuali alle competizioni sportive femminili.
Si pretende di stabilire che l’essere donna non dipenda dal Dna (e ovviamente nemmeno dai genitali) e si assegna arbitrariamente alla presenza del testosterone inferiore a 5nmol/L. per 12 mesi consecutivi (nel caso dell’atleta ipovedente e transessuale Valentina Petrillo che non ha cambiato sesso chirurgicamente è stato questo il dato che le ha permesso di partecipare alle competizioni femminili).
Così facendo avviene che:
a/ si dà spazio ad un doping al contrario, dimenticando quanti danni fisici irreversibili sono stati creati dalla somministrazione di ormoni ad atlete del blocco comunista (cfr. il caso della DDR, la Germania Orientale dell’epoca in 1/ “Il mio record frutto di un crimine di Stato”. Ines Geipel, vittima del doping nella Germania Est, di Gloria Remenyi 2/ Quando c'era il muro. Ddr, 100 ex atleti ancora in cura psichiatrica, di Massimiliano Castellani 3/ Ewald, dal '61 all'88 ai vertici dell'organizzazione sportiva, se la cava: 22 mesi con la condizionale. Diciotto mesi a Hoeppner, medico sportivo. Costringevano le atlete ad assumere anabolizzanti, di Marco Degl'Innocenti 4/ Doping: ex atleta DDR, transessuale per colpa delle medicine) sottoposte a trattamenti ormonali in questo caso mascolinizzanti, mentre nel nuovo doping essi sono femminilizzanti.
b/ si stabilisce arbitrariamente un nuovo confine fisico, non dato più dal Dna, ma nemmeno dall’autocoscienza della persona che si sente donna: il tasso del testosterone deve essere quello e solo quello, escludendo così altre atlete transessuali che si sentissero donne, ma che non accettassero di sottoporsi a quel trattamento ormonale così invasivo sull’equilibrio corpo-mente
c/ si discriminano le atlete donne che si vedono sottratte medaglie che avrebbero altrimenti vinto, per l’inserimento di transessuali con corporature maschili molto più sviluppate, anche se con bassa presenza di testosterone.
Proprio il caso Petrillo lo rende evidente: l’atleta ha vinto contemporaneamente i 100 metri, i 200 metri ed i 400 metri ai Campionati Paralimpici di Jesolo del 2020. Abitualmente un atleta gareggia nei 100 e nei 200 o alternativamente nei 400 e negli 800. Qui Petrillo ha sbaragliato la concorrenza in tre discipline molto diverse proprio a causa della sua corporatura così diversa che le permette di eccellere – rispetto alle donne – in categorie così diverse come la velocità e il mezzofondo.
Quale ingiustizia per le altre atlete ipovedenti che si allenavano da anni e si vedono sottratta ora la medaglia d’oro per l’inserimento di un’atleta che è di un’altra categoria!
Qual è allora la questione? Se da un lato si deve tutelare una transessuale, perché gode di tutti i diritti di ogni cittadino della Repubblica, d’altro canto questo non implica che non sia necessario parimenti operare dei distinguo.
Non solo è lecito discutere di tali distinguo, ma anzi essi vanno imposti, poiché il fatto che un maschio sia cittadino italiano non implica che possa partecipare ad una gara olimpica femminile.