Della povertà originaria. Breve nota di storia evoluzionista e di economia politica di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Nord e Sud del mondo.
Il Centro culturale Gli scritti (19/10/2020)
Abitante della Terra del fuoco, disegno dal viaggio del Beagle compiuto da C. Darwin
Forse qualcuno dovrebbe ricordare che la povertà non è solo il frutto di uno sfruttamento di una nazione sull’altra, ma è la condizione originaria, da cui si deve uscire e dalla quale si esce solo con lo sviluppo e la cultura.
Quando Darwin giunse nella Terra del Fuoco trovò gli indigeni - che egli chiama “selvaggi”, alla maniera razzista dell’epoca - e si accorse di quanto fossero “primitivi”, non per uno sfruttamento esterno e straniero, bensì per condizioni endemiche. Anzi Darwin, da fondatore dell’evoluzionismo, afferma che è il meccanismo della selezione naturale ad aver avvantaggiato l’uomo europeo, a motivo di un ambiente che, differenziatosi nei millenni, ha permesso lo sviluppo dell’uomo occidentale mediterraneo - la tesi darwiniana è ovviamente discutibilissima, poiché differenzia in maniera valoriale le culture primitive da quelle moderne, ma certo si radica sull’evidenza che quelle popolazioni non erano ancora mai venute in contatto con gli europei e, nonostante questo, erano poverissime e arretrate.
Se qualcuno si interessa di studi di antropologia culturale e si sofferma sulle condizioni dell’uomo delle caverne o dei primi villaggi si accorge che la povertà, la precarietà dell’esistenza, la lotta per la sopravvivenza e contro le malattie e i pericoli sono le condizioni di origine da cui si deve uscire. Una tribù della foresta ha una povertà impensabile per un uomo di città, eppure se l’uomo occidentale andasse indietro nei millenni ai suoi antenati si accorgerebbe che essi vivevano esattamente come vivono oggi alcune popolazioni della foresta. Solo lo sviluppo ha segnato la differenza - e, si noti bene, uno sviluppo che ha generato progressi, ma perso anche valori!
Tale differenza di condizioni non è radicata innanzitutto in uno sfruttamento, ma prima ancora in uno sviluppo che è avvenuto o è mancato.
Questo nulla toglie al fatto che, in ogni periodo della storia, fin dalle età primitive, ci sia stato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Marx, per primo, ha evidenziato come la lotta di classe sia la condizione perpetua della storia umana: egli pone l’avvento di una società giusta alla fine della storia e non alle sue origini.
Anzi, più precisamente, il marxismo pone alle origini quasi un Paradiso in cui sarebbe stata assente la lotta di classe, per affermare che essa inizia, però, un istante dopo, all'interno delle stesse tribù primitive, non appena si differenziarono i ruoli del guerriero, del cacciatore, dello stregone, del capo tribù, ecc. e tutta la storia è, da quel momento in poi, storia di lotta di classe. Non, quindi solo sfruttamento odierno di popoli sviluppati su popolazioni primitive, ma lotta di classe dentro le popolazioni sviluppate come dentro quelle primitive, prima che lotta fra i due tipi di popolazione.
Il cristianesimo, dal canto suo, affermando l’esistenza del peccato originale, in maniera molto diversa giunge ad una conclusione simile: la lotta per la supremazia esiste negli uomini primitivi, nelle tribù della foresta, nei popoli africani e nelle tribù americane anche prima della colonizzazione, in Europa, come in Cina, come in India, perché l’uomo non vive spontaneamente in una situazione di cuori puri e altruisti e in una società “buona”, bensì deve camminare per uscire dal male e anzi deve essere salvato: la lotta di Caino e Abele viene proiettata all’inizio della storia umana e non al suo culmine
Ma certo, pur nella loro diversità, marxismo e cristianesimo concordano sul fatto che il male e la povertà non sopraggiungano, bensì siano la condizione originaria.
Ma, al di là di tali questioni, quello che è evidente anche per chi non fosse marxista o cristiano, quello che è certo che dalla povertà non si esce se non con lo sviluppo, dalle prospettive di una vita più breve se non con la presenza di una medicina evoluta, da una situazione di maggiore ignoranza se non con la costituzione di scuole e università.
Questo non toglie che una situazione di sfruttamento possa aggravare - e di molto - le disparità. Ma le disparità, spesso, hanno preceduto lo sfruttamento: la questione mai risolta definitivamente è come si debba conciliare uno sviluppo economico con la conservazione dei costumi originari. Se si pensa allo sviluppo dell’occidente, è evidente che per giungere alla società attuale anche le modalità di vita e le tradizioni culturali delle diverse popolazioni europee hanno dovuto compiere un cammino che le ha sensibilmente modificate.
La grande questione della storia umana è come uscire dalla condizione originaria di povertà, conservando i ricchi valori della tradizione. Si noti bene che ciò che è vero per le culture è vero anche per le singole persone: anche la situazione di nascita di qualsiasi creatura è la debolezza e la povertà, fin dal suo venire alla luce con il bisogno di essere protetti fin da subito, ma è parimenti la condizione degli anziani e dei deboli fra i nati in una famiglia. È anche la condizione di qualsiasi età: sempre debole, sempre povera, sempre attaccabile dalla malattia.
Questo aiuta a capire che, mentre si lotta per una rinnovata giustizia, si tratta anche di accompagnare quel cammino che dalle età primitive muove l’uomo in avanti.
La scoperta della dignità del lavoro, del contributo che l’uomo e la donna apportano con il lavoro fatto non per il solo guadagno, ma come contributo sociale, l’elaborazione di una cultura dello studio e della ricerca scientifica, la maturazione di un’etica dello sviluppo e delle sue condizioni, sono così certamente le questioni decisive. Lo sono sia per le popolazioni più sviluppate che vengono in contato con quelle che lo sono meno, ma anche viceversa: si tratta di uscire da una visione manichea per la quale le cause del ritardo di sviluppo di una nazione siano solo proprie o solo da attribuire a cause esterne, per entrare in gioco con l’elaborazione di un necessario impegno, anche culturale, per il futuro. Disegnare il futuro è tipico dell’uomo che da sempre si spinge più avanti verso la civiltà.
Si potrebbe dire, allora, che ogni “cultura” è tale proprio perché è aperta, perché non difende l’equilibrio già raggiunto, ma desidera progredire, perché si accorge di essere mancante, di essere incompleta. Il cristianesimo, d’altro canto, sa da sempre che ogni realtà è incompleta, finché non giunga a Cristo.
Si tratta, d’altro canto, di accorgersi oggi che diverse nazioni di paesi un tempo detti “in via di sviluppo” sono certamente più progrediti dei paesi del meridione dell’Europa, come l’Italia, la Grecia e la Spagna, e che diverse nazioni dell’Africa o dell’estremo Oriente, vedranno nei decenni a venire un’immigrazione da nazioni europee, tanto le condizioni di lavoro sono lì migliori che nei suddetti paesi europei che a stento si possono oggi riconoscere nel cosiddetto Nord del mondo.