1/ Il demografo. Il paradosso (vincente) di Israele. Alta natalità, integrazione e forte sviluppo: il Paese che da 70 anni vive in una situazione di conflitto cresce e va in controtendenza. Il demografo Della Pergola: il progetto iniziale funziona, di Barbara Uglietti 2/ Crescete e moltiplicatevi. Un recente studio condotto dall’Economist ha cercato di indovinare dove sarebbe meglio vivere nel 2030. Israele è al ventesimo posto, prima di Regno Unito, Francia, Italia, e Giappone. Un solo paese occidentale e ricco continua a fare figli: Israele. Miracolo della democrazia in guerra, di Giulio Meotti
N.B. de Gli scritti Riportiamo i due articoli seguenti, pur non condividendone le loro affermazioni integralmente, per i dati estremamente interessanti che forniscono. I dati del 2014 - e ancora quelli del 2017 - mostravano che i tassi di fecondità delle famiglie ebree era ormai pari a quello delle famiglie palestinesi residenti a Gerusalemme o arabi-israeliani (cioè arabi aventi la cittadinanza israeliana, acquisita nel 1948). Evidente è che il tasso delle famiglie ebree ortodosse - gli haredim, su cui vedi:
- Oltre Meah Shearim. I mille volti dell’ebraismo religioso (a cura di Giorgio Bernardelli)
- Haredim e modernità: una nuova crisi, di Giovanni Quer
- 1/ Il popolo ebraico è fortemente plurale, ecco la sua composizione, di Ugo Volli 2/ Israele le tante facce dell’ebraismo. Un dossier della rivista francescana Terrasanta sugli ebrei religiosi di oggi tra stereotipi e realtà, di Giorgio Bernardelli
- 1/ Unorthodox: il coraggio di Esty, un film tutto israeliano da non perdere, di Giovanni Quer 2/ Fuga da New York, la sposa infelice cerca la libertà. 'Unorthodox', un film da non perdere, di Natalia Aspesi
- è estremamente maggiore di quello degli ebrei laici, motivo per il quale si ritiene che nel 2065 gli ebrei ortodossi costituiranno almeno il 30 % della popolazione del paese. Ovviamente questa presenza sempre più numerosa degli haredim comporta una serie di problemi nuovi che l’Israele socialista dei primi decenni dello Stato non aveva mai dovuto affrontare: emblematico è il caso - che ha avuto enorme risalto nella stampa israeliana - di una madre e di una figlia ebree, pur praticanti, che ha dovuto subire insulti e sputi da parte degli ultra-ortodossi, poiché attraversavano il loro quartiere per recarsi a scuola, senza osservare tutte le prescrizioni dell’abbigliamento che gli haredim del luogo ritenevano imprescindibili; cfr. su questo i video con la storia di Hadassah Margolis e di sua figlia Naama
Ovviamente i dati israeliani aiutano a riflettere anche sui motivi della denatalità europea e su quali potrebbero essere gli elementi per una nuova crescita, se bastino incentivi economici o se sia necessaria ancor prima una diversa visione della vita e della comunità cui si appartiene.
1/ Il demografo. Il paradosso (vincente) di Israele. Alta natalità, integrazione e forte sviluppo: il Paese che da 70 anni vive in una situazione di conflitto cresce e va in controtendenza. Il demografo Della Pergola: il progetto iniziale funziona, di Barbara Uglietti
Riprendiamo da Avvenire dell’11/12/2018 un articolo di Barbara Uglietti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Ebraismo e Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (13/9/2020)
Il conflitto con i vicini regionali, le spaccature interne, le difficoltà politiche, l’antisemitismo (spesso vestito di antisionismo). Eppure Israele cresce. E cresce in controtendenza rispetto agli altri Paesi sviluppati, riuscendo a combinare indicatori impensabili nell’Europa più avanzata, a cominciare da binomio (quasi) impossibile tra alta natalità e sviluppo.
Professor Della Pergola, Israele è stabile al 16esimo posto nell’Indice di sviluppo umano compilato dall’Onu (ISU); l’Italia è al 26esimo. Israele ha il più alto tasso di fecondità tra i Paesi sviluppati: il 3 contro l’1,3 dell’Italia (e in tutta Europa il dato non sale sopra il 2). A cos’è dovuto?
Aggiungerei anche un altro elemento: la forte partecipazione attiva della donna alla vita economica e politica del Paese. Gli indicatori, se comparati, fotografano sicuramente un paradosso tutto israeliano. Un paradosso di successo. Ma c’è una precisa linea logica che sottende a tutto questo, e che parte da lontano. È il grande progetto da cui è nato questo Stato: un progetto di riscatto umano da una condizione storica che ben conosciamo. Questa tensione ideologica, inquadrata in una programmazione molto razionale, ha dato luogo a uno sviluppo eccezionale.
Le premesse demografiche, economiche e ideologiche di Israele nel 1948 non erano certo incoraggianti. Come sono state superate?
Far convergere milioni di persone che, sì, avevano in comune un nucleo di valori, al centro dei quali i testi sacri, ma anche enormi differenze culturali, è stato uno sforzo immane. Questo è l’aspetto più interessante della cultura di Israele. La spiegazione più immediata sta nell’abitudine alla convivenza che la società israeliana ha dovuto acquisire in fretta.
E la natalità?
Il dato demografico rientra totalmente nel progetto iniziale, perché è il prodotto di un sistema valoriale che considera la famiglia nucleare tradizionale come l’elemento portante della società. La famiglia è un valore che qui si è corroso un po’ meno rispetto ad altre società occidentali in cui vediamo gravi fenomeni di invecchiamento e impoverimento demografico.
Tutto questo sull’onda di quella spinta progettuale iniziale?
Sì: è ancora molto forte la vitalità di quell’idea originale. Se guardiamo le ultime indagini sociali su Israele, la cosa più sorprendente è l’ottimismo delle persone, la dichiarata soddisfazione nei confronti della vita, la speranza nel futuro. È difficile da spiegare razionalmente, ma è qualcosa che riflette perfettamente il fatto di credere nei valori fondamentali storici e religiosi.
Progetto, convivenza, famiglia, ottimismo: parole decisamente fuori moda in Italia e in Europa.
Purtroppo rilevo in molti Paesi occidentali, e l’Italia è quello che mi è più vicino, una grande apatia, una sostanziale mancanza di volontà di fare e di capire quello che si vuole fare. È una forte crisi identitaria. In Israele questo non c’è. Semmai il contrario.
Però dentro la società israeliana le tensioni sono forti. E se una volta gli israeliani si differenziavano soprattutto tra “religiosi” e “non religiosi”, adesso la spaccatura sembra essere più politica: “destra”, “sinistra”.
Va chiarita una cosa: l’asse identitario religioso è sempre fondamentale, anche per chi religioso non è. Detto questo, la società israeliana è un mosaico composto di posizioni, spesso anche agli estremi: dagli Haredím (ultraortodossi) ai secolari. Ora, che succede con la politica? Succede che nella democrazia israeliana l’elemento religioso diventa un elemento di partito, e poi si consolidano alleanze in cui l’interesse di partito, che è sempre un interesse laico, materialista, si sovrappone a richieste di tipo culturale o spirituale. Questo finisce per condizionare la vita del Paese.
Per esempio, nei mesi scorsi si è sfiorata una crisi di governo sul problema della leva per gli ortodossi. E si sono registrate polemiche sul tema dello spazio di preghiere per le donne al Muro Occidentale, dalle correnti dell’ebraismo più ortodosso.
Per l’appunto. La legge elettorale crea una grande frammentazione. In un tale Parlamento si devono creare delle coalizioni, e in queste coalizioni anche il partito più piccolo ha il potere di ricattare il partito più grande, di imporgli concessioni su temi specifici. È una situazione che considero malsana, e sarebbe auspicabile una riforma elettorale in senso meno poporzionale.
Ci sono state molte polemiche anche sulla questione di 50mila immigrati, soprattutto africani, entrati illegalmente in Israele. Il Paese ha bisogno di queste persone o no?
Ritengo che l’immigrazione sia un fatto positivo per l’economia di un Paese. Ma a determinate condizioni: il limite è quello dell’integrazione culturale degli immigrati. Va considerata anche la loro volontà di partecipare a questa società, adottando determinate norme di lingua, cultura e comportamento.
Poi però c’è la popolazione palestinese. E lì il discorso cambia.
Cambia perché non c’è un progetto simmetrico a cui lavorare. Lo dico con grande rammarico: non riesco più a vedere possibilità di dialogo. Ci sono due Palestine, Ramallah e Gaza, in guerra civile una con l’altra. Trattare diventa quasi impossibile.
E i ritorni dalla diaspora? L’antisemitismo è in crescita, soprattutto in Europa. Questo continua a essere un fattore sensibile?
Il dato più alto lo si è registrato nel 2015-2016. Poi nel 2017 e 2018 c’è stato un forte calo. Questo significa che anche se i fattori scatenanti delle migrazioni dall’Europa sono ancora lì, e per certi versi sono anche peggiorati, la diaspora è forte e solida. Ieri è stato pubblicato a Bruxelles uno studio dell’Agenzia per i Diritti Fondamentali: il pubblico ebraico ha una sensazione di forte aumento dell’ostilità, non tanto del pregiudizio generico, che è stabile, ma di quella parte dell’ostilità percepita come “molto forte”. Credo ci sia un’erosione del discorso civile nel sistema politico dei Paesi europei e anche negli Stati Uniti: determinati modi di esprimersi, fare e di agire sono senza precedenti. Si tratta di forme deplorevoli che in genere sono dirette verso altri gruppi come immigrati, musulmani, ma che alla fine colpiscono anche gli ebrei, percepiti sempre come “altro”. Tutto questo crea premesse tragiche. Un segnale che tutti dovremmo imparare a leggere.
Chi è Sergio Della Pergola
Specialista riconosciuto a livello internazionale sulla popolazione in Israele e nella diaspora, autore di libri e articoli, Sergio Della Pergola, nato a Trieste nel 1942, cresciuto a Milano, dal 1966 vive a Gerusalemme. È professore emerito di demografia ed ex-Direttore dell’Istituto Avraham Harman di Studi Ebraici Contemporanei all’Università Ebraica di Gerusalemme.
2/ Crescete e moltiplicatevi. Un recente studio condotto dall’Economist ha cercato di indovinare dove sarebbe meglio vivere nel 2030. Israele è al ventesimo posto, prima di Regno Unito, Francia, Italia, e Giappone.. Un solo paese occidentale e ricco continua a fare figli: Israele. Miracolo della democrazia in guerra, di Giulio Meotti
Riprendiamo da Il Foglio del 31/7/2016 un articolo di Giulio Meotti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Ebraismo e Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (13/9/2020)
Israele può vantare molti record. In trent’anni, il suo prodotto interno lordo è aumentato del 900 per cento; la pressione fiscale è scesa dal 45 al 32 per cento; gli aiuti americani erano il dieci per cento del pil, mentre oggi solo l’un per cento; le esportazioni sono aumentate dell’860 per cento; trent’anni fa Israele non aveva fonti indipendenti di energia, mentre oggi il 38 per cento proviene dalle proprie risorse; e se non c’era acqua desalinizzata trent’anni fa, oggi oltre il 40 per cento dell’acqua consumata proviene da impianti di desalinizzazione.
Un recente studio condotto dall’Economist ha cercato di indovinare dove sarebbe meglio vivere nel 2030. Israele è al ventesimo posto, prima di Regno Unito, Francia, Italia, e Giappone. I tassi di mortalità in Israele sono i secondi più bassi dell’Ocse. E per il Wall Street Journal, Israele è il secondo paese più colto del mondo, dietro il Canada e prima del Giappone. Da anni, gli israeliani sono più felici di quanto non siano la maggior parte delle persone nel mondo occidentale.
Per la maggior parte degli indicatori sulla qualità della vita, Israele è conforme ai paesi sviluppati: la maternità infantile è bassa e l’aspettativa di vita di 82 anni è la più alta in Asia occidentale. Con gli indicatori di salute tra i primi dieci paesi al mondo, la popolazione presenta alti livelli di istruzione e di reddito in crescente aumento.
Ma c’è un record che rende unico questo paese, ed è perfino surreale per lo stato ebraico, uno stato-guarnigione che finisce sui nostri notiziari della sera soltanto per i morti del terrorismo e per le guerre terribili, le maschere antigas, i bunker a prova di missile, gli accoltellamenti, i kamikaze. Quel record è il tasso di fertilità.
Il “campo della pace” in Israele e i suoi sostenitori internazionali hanno utilizzato a lungo questo argomento grezzo ma potente: gli arabi fanno più figli degli ebrei e se non si crea uno stato palestinese indipendente, una bomba a orologeria demografica trasformerà Israele in un apartheid sullo stile dei sudafricani bianchi.
Tale prospettiva certamente sembrava reale quando il processo di pace di Oslo ha avuto inizio nel 1990. La fertilità tra gli ebrei israeliani si attestava a una media di 2,6 figli per donna, rispetto a 4,7 tra i musulmani in Israele e a Gerusalemme Est e sei tra i palestinesi a Gaza e Cisgiordania. Yasser Arafat dichiarava orgoglioso che il ventre della donna palestinese è l’arma più potente del suo popolo. La paura demografica ha motivato l’allora primo ministro Ehud Olmert a offrire ai palestinesi metà di Gerusalemme e la quasi totalità della Cisgiordania in cambio di un accordo di pace (fallito) nel 2007. Tutte le concessioni israeliane sono state motivate dalla paura della fecondità araba.
Eppure, come racconta ora il Wall Street Journal, “negli ultimi dieci anni si è verificata una rivoluzione demografica con conseguenze politiche di lunga durata”. In meno di vent’anni, il numero annuo di nascite fra gli ebrei israeliani è salito del 65 per cento, passando dalle 80.400 nascite del 1995 alle 132 mila del 2013. Il tasso di natalità degli ebrei in Israele ha avuto un incredibile balzo in avanti, mentre il tasso di natalità fra gli arabi è molto diminuito. Il tasso di fertilità ebraica in Israele è stato di 3,11 figli per donna nel 2014, l’ultimo anno completo per cui sono disponibili i dati, mentre tra i cittadini arabi di Israele e di Gerusalemme est era solo una tacca più alta a 3,17, secondo le statistiche ufficiali di Israele. I tassi di fertilità palestinesi sono scesi a 3,7 in Cisgiordania da 5,6 nel 1997 e a 4,5 da 6 nella Striscia di Gaza. La scolarizzazione, la pianificazione familiare e l’occidentalizzazione hanno fatto scendere il tasso demografico degli arabi, mentre lo stesso è cresciuto per gli ebrei israeliani.
Nei quindici anni dal 1994 al 2009, il numero delle nascite arabe in Israele è rimasto stabile intorno a 39 mila, mentre le nascite di ebrei sono passate da 80 a 120 mila. L’Europa meridionale, dalla Spagna all’Italia, è votata al suicidio demografico con tassi di 1,4 figli per donna. Stesso scenario per l’Europa dell’est, che sta vivendo l’unica perdita di popolazione dalla fine della Seconda guerra mondiale. La Germania è scossa da una guerra silenziosa, una vera e propria “carestia delle nascite”. Vanno un po’ meglio, con tassi di fertilità attorno a 1,8, Francia e Inghilterra, grazie soltanto al contributo delle comunità islamiche. Vanno male gli Stati Uniti, dove escono libri come “What to Expect When No One’s Expecting?” di Johnatan Last, in cui sono spiegate cause e conseguenze dal calo della fertilità americana, un tasso che è attorno all’1,9 soltanto perché i figli della crescente comunità ispanica alzano la media.
Poi c’è Israele, questo piccolo paese, enclave occidentale conficcata nel cuore del mondo islamico, che è da anni e di gran lunga il paese più demograficamente prolifico tra le economie avanzate del mondo. Gli ebrei israeliani hanno oggi più figli, in media, persino dei prolifici egiziani o libanesi. “Questa è l’unicità di Israele, che non troverete in nessun’altra società in tutto il mondo”, ha detto Arnon Soffer, professore presso l’Università di Haifa e uno dei maggiori demografi del paese. Sorprendentemente, questo baby boom sta avendo luogo soprattutto tra gli ebrei laici o moderatamente religiosi.
Negli ultimi dieci anni, i tassi di fecondità sono diminuiti nella comunità ultraortodossa. A differenza di venti anni fa, quando gli ebrei laici nell’area metropolitana di Tel Aviv potevano avere uno o al massimo due bambini, oggi il loro numero è cresciuto fino a tre o quattro.
Se i tassi demografici rimarranno inalterati, Israele avrà una popolazione più grande della Polonia nel 2085. Ancora più notevole è che Israele avrà in assoluto più giovani rispetto all’Italia o alla Spagna e un numero pari a quelli della Germania alla fine del secolo, se il tasso di incremento della fertilità rimarrà invariato. Un secolo e mezzo dopo l’Olocausto, cioè, lo stato ebraico avrà più uomini in età di vestire una divisa, e sarà in grado di mettere in campo un esercito di terra più grande di quello della Germania. Il 28 per cento degli israeliani ha meno di 15 anni, e il 10 per cento ne ha più di 65, a fronte di proporzioni europee del 16 per cento per entrambi.
“La parola ‘miracolo’ in ebraico non possiede alcuna connotazione di soprannaturale” ha scritto il famoso rabbino J. B. Soloveitchik. “Miracolo descrive solo un evento straordinario che provoca stupore”. Definizione che andrebbe usata per spiegare questa unicità di Israele, l’unico paese industrializzato, moderno e occidentale che ha tassi demografici che l’Europa non conosce più da mezzo secolo. Solo gli Stati Uniti, ma di gran lunga sotto, sono tra le nazioni industriali del mondo con un tasso di fertilità intorno al livello di sostituzione di due; Europa e Asia orientale sono diretti verso un apocalittico calo della popolazione con un tasso di fertilità di appena 1,5 figli per donna.
Le donne israeliane, al contrario, hanno tre figli in media; le donne ebree non ortodosse hanno una media di 2,6 figli. Che la fertilità eccezionale di Israele nasca dalla religione, piuttosto che dall’etnicità, è facilmente spiegato dall’enorme contrasto tra tassi di natalità ebrei ortodossi e laici negli Stati Uniti. Da nessuna parte il divario di fertilità tra religiosi e non religiosi è più estremo che tra gli ebrei americani. Come gruppo, gli ebrei americani mostrano la fertilità più bassa di qualsiasi gruppo etnico del paese. Alan Dershowitz, il giurista ebreo di Harvard, ha non a caso intitolato un suo libro “The Vanishing American Jew”. L’ebreo americano in via di estinzione.
Due terzi degli ebrei americani non appartiene a una sinagoga, un quarto non crede in Dio e un terzo ha un albero di Natale in casa durante le feste. Anche l’ex rabbino capo del Regno Unito, Jonathan Sacks, ci ha scritto un libro, dal titolo emblematico: “Avremo ancora nipotini ebrei?”. Gli ebrei potrebbero sparire, assimilati dai non ebrei. La domanda posta da Sacks è terrificante: “Riuscirà l’assimilazione a ottenere ciò che a Hitler non riuscì?”. Invece della Shoah, la dissoluzione. Anche il premio Pulitzer Charles Krauthammer, l’editorialista ebreo più rispettato e influente d’America, ha commentato i dati. “Come fa una comunità a decimarsi nelle condizioni benigne degli Stati Uniti? Facile: bassa fertilità e matrimoni misti. In tre generazioni, la popolazione sarà dimezzata. Negli Stati Uniti oggi gli ebrei si sposano più con i cristiani che con altri ebrei”.
Qualcosa di simile era successo in Unione sovietica, dove gli ebrei, aggrediti da decenni di ateismo di stato comunista, avevano un tasso di fertilità di appena 0,8 figli per donna. Sarebbero scomparsi nel giro di poche generazioni. Oggi l’aumento della fertilità per gli ebrei di Israele si deve non soltanto agli “yuppie di Tel Aviv”, ma anche proprio agli immigrati dall’ex Unione sovietica. In Russia gli ebrei avevano uno dei tassi di natalità più bassi al mondo, ma quando gli ex ebrei sovietici sono arrivati in Israele, i loro figli hanno subito assunto le abitudini demografiche israeliane. Rispetto a Israele, crollano anche le nascite nel suo arcinemico: la Repubblica islamica dell’Iran. I dati di 49 paesi a maggioranza musulmana ci dicono che dagli anni Ottanta ai primi dieci anni del Duemila, la natalità è calata del 41 per cento. L’Iran è sceso del 70 per cento, uno dei declini più rapidi che si sia mai visto nella storia. Mai le donne iraniane avevano partorito due figli per coppia, la media era sempre stata di cinque. Alla fine del secolo, la popolazione iraniana sarà diminuita del cinquanta per cento.
A fronte della passione israeliana per i bambini, legata al trauma della Shoah, al permanente stato di guerra, alla tradizione religiosa di un piccolo popolo da sempre sotto assedio e che vuole diventare più numeroso, più forte. Un popolo, gli israeliani, che sembra amare la vita e odiare la morte più di qualsiasi altro al mondo. Compresi non soltanto i mortiferi vicini di casa, ma anche i libertini occidentali.