Il sogno dei lavoratori-monaci (dalla serie Oikonomia /4), di Luigino Bruni
Riprendiamo sul nostro sito da Avvenire un articolo di Luigino Bruni pubblicato l’1/2/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Medioevo e Solidarietà e sussidiarietà.
Il Centro culturale Gli scritti (23/8/2020)
Il monachesimo aveva realizzato nei suoi cenobi una scansione temporale dell’esistenza dei monaci che non è stato forse uguagliato in alcuna istituzione della modernità, nemmeno dalla fabbrica taylorista
G. Agamben, Homo sacer
Il monachesimo è una radice dell’economia di mercato. Abdicando alla logica economica ordinaria, monaci e monache diedero vita ad esperimenti evangelici che hanno generato anche l’economia europea. Il capitalismo non è stato generato soltanto dal monachesimo, ma non sarebbe nato senza il monachesimo. Ben prima della Riforma protestante (Max Weber), è stato il monachesimo il primo grande episodio di "eterogenesi dei fini" dell’economia moderna. È stato un movimento immenso, sorprendente, meraviglioso. Ha cambiato l’Europa, l’ha fatta più bella e più ricca, ha accresciuto la sua biodiversità culturale, spirituale, artistica, forestale, enogastronomica, e poi, quasi per sbaglio, ha inventato un’altra economia. Non deve allora stupirci se ormai sono in diversi (ad esempio, Pierre Musso e Isabelle Jonveaux) a sostenere che le grandi imprese moderne sono la secolarizzazione degli antichi monasteri. Una tesi forte, che in parte qui si criticherà, ma che è un buon punto di partenza. Infatti, tranne pochissime (e tarde) esperienze, come l’Arsenale di Venezia, le cattedrali o le botteghe dei grandi artisti/artigiani, il mondo borghese medioevale non conosceva la cooperazione produttiva vasta, stabile e razionale di intere comunità di uomini (o donne). In alcune regioni italiane e francesi i monasteri erano centinaia, e nel Medioevo ebbero una durata media di cinque secoli.
Alcuni vedono nella figura dell’abate un paradigma di leadership. In realtà, la "leadership" – parola ambigua che amo poco – dell’abate è mediata, bilanciata e ridimensionata dalla regola. È la regola la vera "leader" del monastero. Ciascuno nel cenobio segue la regola, compreso l’abate, che è modello per gli altri in quanto fedelissimo alla stessa regola di tutti. L’abate, diversamente dal fondatore di comunità, è dunque un seguace (follower) non un leader. La longevità, la resilienza e la sostenibilità dei monasteri sta proprio nella spersonalizzazione della leadership, come la fragilità e la breve durata delle comunità (e imprese) carismatiche stanno nella personalizzazione del fondatore, che spesso diventa l’ipostasi del carisma della comunità. L’immagine del carisma del monastero non è l’abate, neanche san Benedetto o san Basilio, ma la regola. Tanto che molti monasteri sono nati e nascono attorno alla sola regola, senza nessuna personalità carismatica. La leadership della regola è quanto di più distante si possa immaginare dalla governance delle grandi imprese di oggi, anche di quelle che dicono di ispirarsi alla regola di san Benedetto. Ci sono poi altri aspetti del monachesimo, meno evidenti ma molto importanti in rapporto all’economia e alle imprese. Innanzitutto il lavoro. Ora et labora è la prima frase che viene in mente quando si pensa al monachesimo. Il monastero si presentava, fin dall’origine, come un’officina (officina divinae artis). La stessa vita del monaco era vista come apprendimento di una ars, quindi di un mestiere, di una professione, e così veniva presentata da alcuni antichi fondatori (Cassiano).
Nel mondo antico lavoravano gli schiavi – «Tutti gli artigiani, inoltre, esercitano un mestiere volgare: non c’è ombra di nobiltà in una bottega» (Cicerone, De Officiis). Nel monachesimo lavoravano anche i monaci, spesso colti e dottori in teologia e in altre scienze. Questo, da solo, basterebbe per capire che cosa la riunificazione delle mani con la testa significò per l’etica del lavoro. Quando un contadino o un artigiano analfabeta vedeva i monaci lavorare, fare cioè le stesse cose che faceva lui, capiva immediatamente che il suo lavoro era importante, non era faccenda per servi e schiavi. La fede nell’Incarnazione aveva insegnato ai monaci che toccare la materia non è qualcosa di impuro, che quindi si addice solo allo schiavo. La terra, la polvere, il cibo, sono segno e sacramento della stessa vita. Solo chi ha usato le mani per produrre pane e vino sa cosa è veramente l’Eucarestia, perché intuisce che quei beni che sull’altare cambiano per l’azione efficace della parola del sacerdote sono, da un altro punto di vista vero, sempre le stesse cose buone nate dalla vite e dal lavoro dell’uomo. Senza una nuova etica del lavoro e della materia non avremmo avuto l’economia di mercato, e non avremmo avuto questa nuova etica senza i monaci.
Non è comunque facile capire dove si trovi veramente l’innovazione che il monachesimo ha operato nei confronti del lavoro. Innanzitutto dobbiamo rinunciare a considerare il rapporto tra preghiera e lavoro soltanto come una divisione pratica del tempo di vita. I monaci dovevano gestire la tensione tra due parole bibliche: «pregate sempre» (Lc 18,1) e «chi non lavora non mangi» (2 Tess 3,10). Ma la risolsero in un modo assolutamente geniale. Il vero colpo di genio antropologico e spirituale del monachesimo fu intendere e praticare la preghiera e il lavoro come momenti dell’unica liturgia della regola. Nei monasteri il tempo del lavoro non è tempo sottratto alla preghiera, né il tempo della preghiera è sottratto al lavoro. Non si prega meno perché si lavora, né si lavora meno perché si prega. Per realizzare questa sorta di alchimia, i fondatori del monachesimo fecero qualcosa di strepitoso. Pur muovendosi all’interno di una visione quantitativa delle dodici horae del tempo, inventarono la pietra filosofale del tempo-qualità. Mentre l’horologium dell’officium scandiva severamente la cronologia del giorno, un altro orologio allargava quello stesso tempo fino a farlo coincidere con l’infinito. La gestione razionale del tempo dei monasteri, che sembra anticipare di molti secoli la "divisione del lavoro" di Smith e la "divisione della conoscenza" di Hayek, per essere compresa va letta insieme alla sua visione qualitativa e liturgica, che la umanizzava e scoperchiava i tetti delle biblioteche e delle fattorie. In un piccolo luogo rigidamente limitato e recintato dalle mura dell’abbazia, in quella carestia di spazio i monaci inventarono un altro tempo, impararono a non occupare spazi per attivare processi (ancora vivi). La liturgia della regola aggiunse una dimensione al tempo di vita, e così la linea del tempo divenne una superficie.
Grazie alla visione liturgica del tempo e della vita, una parte quantitativa del tempo di un giorno può diventare, qualitativamente, l’eternità. È infatti tipica della liturgia la capacità di creare un altro tempo: bucare il tempo-quantità e toccare l’infinito, di farci tornare a passeggiare, tutti i giorni, nei giardini dell’Eden. Una grande innovazione del monachesimo fu l’invenzione di questo altro tempo. Una esperienza che tutti possiamo ripetere vivendo per qualche giorno in un monastero: il tempo rallenta, diventa più denso, si entra in un altro ritmo di vita. Anche se gli anni di vita dei monaci non erano, in media, molti di più di quelli che vivevano fuori dal cenobio, in realtà nei monasteri si viveva e si vive un tempo più lungo e profondo. È questa sorta di "vita eterna" terrena che ha sempre affascinato e attratto molti nei monasteri. Una esperienza così inebriante che divenne la grande tentazione del monachesimo, perché qualche volta ha fatto coltivare il desiderio di essere immortali come Dio (la promessa del serpente). Se la regola coincide con la vita e la vita con la regola, si può arrivare a essere talmente assorbiti dalla liturgia da non sentire più la vita, e viceversa. È su questa visione liturgica consentita dalla regola che il lavoro e la preghiera possono avere la stessa dignità e non essere in conflitto tra di loro. Qui il lavoro non ha bisogno di essere spiritualizzato pregando salmi e rosari mentre si lavora. Non è necessario, né richiesto: il lavoro è attività dello stesso valore della preghiera perché è parte della stessa liturgia e quindi della stessa vita, sono dentro la stessa regola.
Questo allora significa che il lavoro vale in quanto lavoro, ha un valore intrinseco sebbene sia strumentale alla vita. È questa la paradossale laicità dei monaci. Il monachesimo ha conosciuto e conosce le sue crisi quando le mani che raccolgono grano e vino sono state considerate meno degne e spirituali di quelle di chi diceva Messa, o quando qualcuno (a Cluny) pensò che le ore passate a dire Messa potessero sostituire quelle passate nella vigna. Ma conosce e ha conosciuto altre crisi quando ha voluto spiritualizzare il lavoro, raccomandando ai monaci di salmodiare mentre lavoravano, di meditare la Bibbia mentre raccoglievano l’uva. Questi riduzionismi rimpiccioliscono la profezia del monachesimo, accorciano il tempo, tagliano i suoi orizzonti, riportano la giornata dentro le sue 24 ore. Perché se prego mentre lavoro nella forma della preghiera, sto sottraendo tempo alla mia giornata. La profezia del monachesimo era ed è lavorare e basta, nel tempo e nella forma del lavoro, e pregare e basta, nel tempo e nella forma della preghiera; così ogni momento serve e rigenera l’altro, e insieme sono un grande canto alla laicità della vita, dove il sacro non si mangia il profano, perché anche il profano è liturgia, e la liturgia non è altro che la vita. Nei monasteri si sconfigge la morte, quando, con i piedi ben piantati nel fango dei campi si sfiora il cielo con un dito sporco di lavoro.
È questa dimensione qualitativa del tempo che manca nelle moderne imprese dei cartellini, dei minutaggi, dei bonus, che vorrebbero controllare il tempo con horologi sempre più sofisticati, ma che non conoscono l’altra dimensione del tempo, che quando c’è libera il lavoratore dagli incentivi e dai controlli. Una dimensione qualitativa che manca perché manderebbe in crisi l’intera struttura delle imprese, che regge finché il tempo può essere misurato e usato per incentivare e misurare i meriti. Ma c’è ancora qualcosa di più. Se da una parte le grandi imprese moderne si stanno allontanando dall’umanesimo dei monasteri, dall’altra senza saperlo, gli si stanno avvicinando molto. Diversamente dalle fabbriche tayloriste del Novecento, cui bastavano le nostre mani, le imprese del XXI secolo sognano sempre di più lavoratori-monaci. Il management vorrebbe lavoratori con vocazione, che aderiscono liberamente alla mission dell’impresa, che non siano guidati dall’incentivo esterno (troppo debole) ma da una spinta interiore, che non conoscano la distinzione tra tempo libero e lavoro, dove il lavoro coincida con la vita. In sostanza vorrebbero monaci, che non lavorano per il salario né per il profitto, ma per una fedeltà intima, che in una visione liturgica della vita non smettano di lavorare neanche quando dormono, perché perfino il sonno è officium. Li vorrebbero come i monaci descritti da Agostino: «Nessuno mai lavori per se stesso, ma tutti i vostri lavori tendano al bene comune, e con maggior impegno e più fervida alacrità che se ciascuno li facesse per sé» (Regula, 31). La promessa delle imprese, diversamente da quella dei monasteri, è troppo piccola. Per avere lavoratori-monaci ci vorrebbero il paradiso, un altro tempo, altri incentivi. Le imprese non li hanno, ma stanno facendo di tutto per convincerci del contrario. Conoscere e meditare la grande tradizione monastica, potrebbe diventare il vero unico antidoto alle false e seducenti promesse di paradiso.