Aborto e RU486: cercando parole di speranza in un dramma, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (17/8/2020)
N.B. Il testo che segue è stato preparato in vista di un video da pubblicare sui social. Ecco il video:
Appena diventato prete, venne da me una donna non sposata a chiedermi consiglio, perché era in cinta e pensava di abortire. Chiesi consiglio anche io al prete con cui mi confidavo e la sua risposta fu illuminante.
Devi pensare a due momenti – mi disse. Prima della decisione, sarai l’unico a poterle dire che vale la pena tenere il bambino. Dopo, se decidesse di abortire, sarai colui che dovrà aiutarla a scoprire la serenità e il perdono, perché non viva sempre di sensi di colpa.
Poi mi spiegò meglio i due momenti.
Prima tu sarai l’unico a poterle far intuire che far nascere un bambino è una cosa bellissima, è la scelta cristiana più vera.
Infatti, a chiunque lei chiedesse consiglio, tutti le diranno che non deve pensarci un momento, che abortire è la scelta giusta.
Tu non dovrai forzarla, guai a farlo. Ma renderla consapevole che sarebbe possibile e bello tenere il bambino questo sì. Innanzitutto falle capire che la decisione non è solo sua, ma anche dell’uomo. Lui deve essere responsabilizzato, perché non può scaricare tutta la responsabilità sulla donna.
Oggi capisco che questo è uno dei drammi del fallimento della cosiddetta “liberalizzazione sessuale”: la donna è ancora più sola di prima.
Quell’amico, negli anni ’80!, mi disse: “Dì che condivida la responsabilità della scelta con il papà del bambino. Lui non può dire solo: “Decidi tu”. Che lei gli chieda se lui lo terrebbe, senza dare nulla per scontato. Se lei decidesse di dirlo ai propri genitori o anche solo alla madre, che anche lui lo dica ai suoi: perché sempre e solo la donna e la famiglia di lei debbono essere coinvolti e mai quella di lui?
Se dovesse decidere di abortire capirà almeno di avere solo metà della responsabilità, perché l’altra metà è dell’uomo, e questo sarà un aiuto per quanto tronerà a pensarci.
Dille che provi a pensare cosa succederebbe se decidesse di tenerlo. Se i suoi la aiuterebbero. Spesso i genitori e gli amici, dopo un’inziale contrarietà, sono invece pronti a sostenere la scelta di una donna di tenere il suo bambino.
Mi parlò poi del secondo momento. Se decide di tenerlo, aiutala, dille che non si deve sposare per questo. Che facciamo nascere il bambino e poi si vedrà, guai al matrimonio che un tempo era detto “riparatore”, perché non funziona.
Ma se dovesse decidere di abortire, stalle vicino. Tornerà da te, perché si sentirà in colpa. Una donna sa benissimo che quello che ha in grembo è un bambino. Non dirà mai: “Aspetto un embrione”. Dirà sempre: “Aspetto un bambino”! Non c’entra niente la fede o la morale. È la verità: una donna sa che quello è un figlio.
Per questo, quando tornerà, tu parlale del fatto che è stata perdonata con la Confessione e che ora può vivere serena.
Anni dopo ho capito meglio anche questo. Ricordo una situazione di due giovani che avevano deciso di abortire e, in questo caso, lei si era subito confessata – lo racconto perché mi dettero il permesso di raccontare la loro esperienza perché poteva essere importante anche per altri.
Lui si era incattivito, invece, non era più sorridente, portava il peso della colpa e mi diceva: “Che senso ha che mi confesso. Tanto oramai non si può tornare indietro: io non voglio uno che mi dica: Sei perdonato, tanto questo non significa niente”. E più volte tornò a parlarmene.
Anni dopo, mentre passeggiava, si immaginò il suo bambino che dal cielo gli sorrideva. Me ne parlò e capimmo insieme che non era solo Dio che lo aveva perdonato, ma Dio aveva dato gioia al suo bambino. Allora era il perdono di Dio, ma anche il perdono di quella creatura, che era felice, nonostante la scelta sbagliata del padre.
Mi disse una frase liberamente: “Quando avrò un figlio, non sarà il sostituto di quello, ma ne avrò uno in cielo e uno in terra”.
Ecco questa è l’esperienza che bisogna aiutare a far fare a chi abortito, perché vinca quel senso di colpa che lo blocca, anche se in segreto.
Capite perché secondo me sono sbagliate perché lontane dalla vita sia le parole di chi ossessivamente ripete che l’aborto è un omicidio, sia di chi insiste sul fatto che non è niente, che è solo un diritto, perché quel grumo di cellule non è nulla. Sono parole che non rendono conto del dramma della scelta che la persona sa bene di avere dinanzi a sé.
Non è la Chiesa a far sorgere il senso di colpa: la donna sa bene cosa è l’aborto e lo sa anche l’uomo, sebbene venga sempre, purtroppo, deresponsabilizzato dall’odierna cultura.
Ecco allora anche il mio pensiero sulla RU486 e prima ancora sulla legge 194.
È evidente che la Legge sull’aborto non intese assolutamente proclamare un “diritto all’aborto”. Questa è una falsa interpretazione della legge e chi parla di diritto all’aborto non sa cosa dice. Infatti, la legge si apre con il primo articolo che dichiara: “Lo Stato tutela la vita umana dal suo concepimento”.
La Legge intese, invece, di chiarare che non è bene punire chi abortisce – cosa ben diversa da un diritto – e che, dopo aver fornito ogni aiuto perché la persona possa rendersi conto che esistono alternative all’aborto, è bene far sì che l’aborto non avvenga in maniera clandestina con ulteriori pericoli per la donna.
Ciò che è stato totalmente disatteso dall’attuazione della Legge – e lo è ancora di più con la “privatizzazione” della RU 486 - è la presentazione delle alternative! Quello che mi consigliava di fare quel mio amico di cui vi ho parlato, la Legge prevede che debbano farlo le strutture pubbliche. Esse dovrebbero aiutare la donna – e l’uomo, non dimentichiamolo – a capire che se decidessero di tenere il figlio, avrebbero aiuti dallo Stato e anzi sarebbe una scelta bella. Dovrebbero sentirsi dire che se ritenessero di non poter tenere il bambino, potrebbero farlo nascere e il bambino sarebbe subito dato in adozione ad una delle tante famiglie che sono in attesa da anni di un bambino da adottare.
La vecchia ruota delle suore dove si ponevano i bambini appena nati che non si potevano tenere era bella, anche se viene irrisa. Salvava la donna che non poteva tenerlo e il bambino che poteva vivere. Ben due persone venivano aiutate. Ed oggi, con i mezzi moderni che abbiamo, non sarebbe possibile offrire un tale aiuto?
In realtà ci sono i Centri di aiuto alla vita che lo fanno egregiamente e tante donne, di cui moltissime migranti, scoprono di poter essere aiutate o a tenerlo o a darlo in adozione.
Se, invece una donna si rivolge ad un consultorio ecco che in un attimo, senza alcun vero ascolto, le viene rilasciato il certificato per abortire, senza provare a fare il minimo passo in vista dell’accoglienza del bambino, come prevederebbe la 194.
Ora, con la possibilità di assumere la RU486 senza ricovero in ospedale tale possibilità viene ridotta al nulla.
In questa maniera, non solo non si dà alcuna possibilità al bambino, ma ancora più la donna è lasciata sola con i suoi sensi di colpa, senza che alcuno condivida con lei la responsabilità.
Mi ha colpito come un film sul dramma delle migrazioni, Mediterraneo, di Crialese, contempi invece il caso di una donna africana, in cinta per uno stupro avvenuto nei lager libici, che difende l’esistenza del suo bambino e dice al fratellino che vorrebbe l’aborto: “Mio marito capirà”.
Sono i migranti a ricordarci quel senso di maternità, di paternità e di filiazione che è in noi e che la cultura moderna vorrebbe far credere estinto, mentre esso è vivo nei cuori.