[È Cristo che battezza, unito alla sua Chiesa, non semplicemente il ministro o i parenti del battezzando. Ed esiste una tradizione liturgica proprio perché sia evidente che l’opera è di Dio e della sua Chiesa e non è proprietà di singoli]. Congregazione per la dottrina della fede, Nota dottrinale circa la modifica della formula sacramentale del Battesimo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /08 /2020 - 22:42 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito una Nota dottrinale circa la modifica della formula sacramentale del Battesimo, firmata dalla Congregazione per la dottrina della fede il 24/6/2020, unitamente all’articolo di Angelo Lameri che l’accompagnava su L’Osservatore Romano del 6/8/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Il Battesimo e la pastorale battesimale.

Il Centro culturale Gli scritti (10/8/2020)

N.B. de Gli scritti
Agostino ha scritto: «I bambini sono presentati per ricevere la grazia spirituale, non tanto da coloro che li portano sulle braccia (benché anche da essi, se sono buoni fedeli), quanto dalla società universale dei santi e dei fedeli... È tutta la madre chiesa dei santi che agisce, poiché essa tutta intera genera tutti e ciascuno» (Epist. 98, 5: PL 33, 362; CSEL 34, p. 526; cfr. Sermo 176, c. 2, n. 2: PL 38,950). Ciò che dice la Nota della Congregazione, sulla stessa linea, deve far riflettere anche quando ci si domanda se sia giusto battezzare bambini di genitori che non hanno una fede matura. Giustamente la risposta della Chiesa è da sempre: “Certo”.

1/  Congregazione per la dottrina della fede, Nota dottrinale circa la modifica della formula sacramentale del Battesimo

Recentemente vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole: «A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». A quanto sembra, la deliberata modifica della formula sacramentale è stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità, che la formula presente nel Rituale Romano veicolerebbe[1]. Riaffiora qui, con discutibili motivazioni di ordine pastorale[2], un’antica tentazione di sostituire la formula consegnata dalla Tradizione con altri testi giudicati più idonei. A tale riguardo già san Tommaso d’Aquino si era posto la questione «utrum plures possint simul baptizare unum et eundem» alla quale aveva risposto negativamente in quanto prassi contraria alla natura del ministro[3].

Il Concilio Vaticano II asserisce che: «Quando uno battezza è Cristo stesso che battezza»[4]. L’affermazione della Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, ispirata a un testo di sant’Agostino[5], vuole ricondurre la celebrazione sacramentale alla presenza di Cristo, non solo nel senso che egli vi trasfonde la sua virtus per donarle efficacia, ma soprattutto per indicare che il Signore è il protagonista dell’evento che si celebra.

La Chiesa infatti, quando celebra un Sacramento, agisce come Corpo che opera inseparabilmente dal suo Capo, in quanto è Cristo-Capo che agisce nel Corpo ecclesiale da lui generato nel mistero della Pasqua[6]. La dottrina dell’istituzione divina dei Sacramenti, solennemente affermata dal Concilio di Trento[7], vede così il suo naturale sviluppo e la sua autentica interpretazione nella citata affermazione di Sacrosanctum Concilium. I due Concili si trovano quindi in complementare sintonia nel dichiarare l’assoluta indisponibilità del settenario sacramentale all’azione della Chiesa. I Sacramenti, infatti, in quanto istituiti da Gesù Cristo, sono affidati alla Chiesa perché siano da essa custoditi. Appare qui evidente che la Chiesa, sebbene sia costituita dallo Spirito Santo interprete della Parola di Dio e possa in una certa misura determinare i riti che esprimono la grazia sacramentale offerta da Cristo, non dispone dei fondamenti stessi del suo esistere: la Parola di Dio e i gesti salvifici di Cristo.

Risulta pertanto comprensibile come nel corso dei secoli la Chiesa abbia custodito con cura la forma celebrativa dei Sacramenti, soprattutto in quegli elementi che la Scrittura attesta e che permettono di riconoscere con assoluta evidenza il gesto di Cristo nell’azione rituale della Chiesa. Il Concilio Vaticano II ha inoltre stabilito che nessuno «anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica»[8]. Modificare di propria iniziativa la forma celebrativa di un Sacramento non costituisce un semplice abuso liturgico, come trasgressione di una norma positiva, ma un vulnus inferto a un tempo alla comunione ecclesiale e alla riconoscibilità dell’azione di Cristo, che nei casi più gravi rende invalido il Sacramento stesso, perché la natura dell’azione ministeriale esige di trasmettere con fedeltà quello che si è ricevuto (cfr. 1 Cor 15, 3).

Nella celebrazione dei Sacramenti, infatti, il soggetto è la Chiesa-Corpo di Cristo insieme al suo Capo, che si manifesta nella concreta assemblea radunata[9]. Tale assemblea però agisce ministerialmente — non collegialmente — perché nessun gruppo può fare di se stesso Chiesa, ma diviene Chiesa in virtù di una chiamata che non può sorgere dall’interno dell’assemblea stessa. Il ministro è quindi segno-presenza di Colui che raduna e, al tempo stesso, luogo di comunione di ogni assemblea liturgica con la Chiesa tutta. In altre parole, il ministro è un segno esteriore della sottrazione del Sacramento al nostro disporne e del suo carattere relativo alla Chiesa universale.

In questa luce va compreso il dettato tridentino sulla necessità del ministro di avere l’intenzione almeno di fare quello che fa la Chiesa[10]. L’intenzione non può però rimanere solo a livello interiore, con il rischio di derive soggettivistiche, ma si esprime nell’atto esteriore che viene posto, con l’utilizzo della materia e della forma del Sacramento. Tale atto non può che manifestare la comunione tra ciò che il ministro compie nella celebrazione di ogni singolo Sacramento con ciò che la Chiesa svolge in comunione con l’azione di Cristo stesso: è perciò fondamentale che l’azione sacramentale sia compiuta non in nome proprio, ma nella persona di Cristo, che agisce nella sua Chiesa, e in nome della Chiesa.

Pertanto, nel caso specifico del Sacramento del Battesimo, il ministro non solo non ha l’autorità di disporre a suo piacimento della formula sacramentale, per i motivi di natura cristologica ed ecclesiologica sopra esposti, ma non può nemmeno dichiarare di agire a nome dei genitori, dei padrini, dei familiari o degli amici, e nemmeno a nome della stessa assemblea radunata per la celebrazione, perché il ministro agisce in quanto segno-presenza dell’azione stessa di Cristo che si compie nel gesto rituale della Chiesa. Quando il ministro dice «Io ti battezzo…» non parla come un funzionario che svolge un ruolo affidatogli, ma opera ministerialmente come segno-presenza di Cristo, che agisce nel suo Corpo, donando la sua grazia e rendendo quella concreta assemblea liturgica manifestazione «della genuina natura della vera Chiesa»[11], in quanto «le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è sacramento di unità, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi»[12].

Alterare la formula sacramentale significa, inoltre, non comprendere la natura stessa del ministero ecclesiale, che è sempre servizio a Dio e al suo popolo e non esercizio di un potere che giunge alla manipolazione di ciò che è stato affidato alla Chiesa con un atto che appartiene alla Tradizione. In ogni ministro del Battesimo deve essere quindi radicata non solo la consapevolezza di dover agire nella comunione ecclesiale, ma anche la stessa convinzione che sant’Agostino attribuisce al Precursore, il quale «apprese che ci sarebbe stata in Cristo una proprietà tale per cui, malgrado la moltitudine dei ministri, santi o peccatori, che avrebbero battezzato, la santità del Battesimo non era da attribuirsi se non a colui sopra il quale discese la colomba, e del quale fu detto: “È lui quello che battezza nello Spirito Santo” (Gv 1, 33)». Quindi, commenta Agostino: «Battezzi pure Pietro, è Cristo che battezza; battezzi Paolo, è Cristo che battezza; e battezzi anche Giuda, è Cristo che battezza»[13].

Risposte a quesiti proposti sulla validità del Battesimo
conferito con la formula
«Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»

Quesiti

Primo: È valido il Battesimo conferito con la formula: «Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»?

Secondo: Coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula devono essere battezzati in forma assoluta?

Risposte

Al primo: Negativamente.

Al secondo: Affermativamente.

Il Sommo Pontefice Francesco, nel corso dell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, in data 8 giugno 2020, ha approvato queste Risposte e ne ha ordinato la pubblicazione.

Dalla sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 24 giugno 2020, nella Solennità della Natività di san Giovanni Battista.

Luis F. Card. Ladaria, s.i.
Prefetto

Giacomo Morandi
Arcivescovo tit. di Cerveteri Segretario

2/ Trasmettere ciò che si è ricevuto. Azione ministeriale e celebrazione dei sacramenti, di Angelo Lameri,
Vicedecano della Facoltà di Teologia alla Pontificia Università Lateranense

«A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 18-20). Le ultime parole di Gesù agli undici discepoli sul monte in Galilea contengono il mandato del Risorto ai suoi, inviati a rendere presente nel mondo la sua missione di salvezza. Tre sono gli elementi fondamentali di questo mandato: l’annuncio-insegnamento del Maestro, che sfocia nel discepolato, l’azione del battezzare, l’assicurazione della costante e indefettibile presenza del Signore accanto ai suoi. Fin dai suoi primi passi la Chiesa delle origini ha custodito il comando del Signore annunciando ai popoli che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che è stato crocifisso (cfr. At 2, 36), invitando alla conversione, battezzando e vivendo nella carità di Cristo (cfr. At 2, 42-45). Nel corso dei secoli, approfondendo sempre meglio il senso del suo essere e della sua missione, la Chiesa ha compreso che mentre custodisce con amore ciò che sta all’origine del suo esistere, ne è a sua volta custodita. Proprio per questo ha fissato un canone delle Scritture e il settenario dei Sacramenti: la Parola di Dio e i suoi doni di grazia sono indisponibili a ogni manipolazione, perché nella Parola e nel Sacramento Cristo stesso è presente, parla alla sua Chiesa e agisce in essa, suo Corpo scaturito dal mistero della Pasqua (cfr. SC 5).

Nella complessa storia della comunità cristiana non sono però mancati tentativi di manipolazione del gesto sacramentale, a volte anche in buona fede, con la motivazione di rendere più comprensibile, o più aderente a una certa teologia, o più attenta ai bisogni pastorali la celebrazione dei sacramenti. Quando però questi interventi si sono spinti fino a toccare la sostanza dei sacramenti, la Chiesa è sempre intervenuta a custodire ciò che a sua volta ha ricevuto. È il caso della Nota dottrinale, oggi pubblicata, circa la modifica della formula sacramentale del Battesimo che accompagna la risposta al dubium che nega la validità del Battesimo conferito con la formula: «Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo».

Innanzitutto la Nota mostra l’infondatezza delle ragioni che stanno all’origine della formula modificata. Per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, la partecipazione della famiglia e di tutti i presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacro esclusivo del sacerdote, si è giunti ad affermare che il Battesimo viene celebrato «A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome dell’intera comunità…». Appare qui evidente la distorsione: i presenti e l’intera comunità non sono più coloro che partecipano attivamente all’atto di Cristo, ma appaiono come i protagonisti primi di ciò che si compie, che appunto avviene in loro nome. La Chiesa quando battezza, non lo fa mai in nome proprio, perché è consapevole che nella sua azione vi è l’azione di Cristo: «Quando uno battezza è Cristo stesso che battezza» (SC 7). Giustamente la Nota, citando Romano Guardini, mette in guardia da una deriva soggettivistica, che conduce a privilegiare il proprio sentire o ciò che in un dato momento sembra desiderabile.

Del richiamo dottrinale proposto dalla Congregazione per la dottrina della fede è interessante mettere in luce almeno due aspetti determinanti. Il primo conduce alla forma simbolica del Sacramento. Il Sacramento, infatti, è un evento che si compie in una forma rituale. Proprio essa ci permette di cogliere non solo la circolarità tra rito e Chiesa, ma anche il limite invalicabile di fronte al quale la Chiesa stessa deve arrestarsi. L’allora cardinale Ratzinger scriveva a questo proposito che il rito «è espressione, divenuta forma, dell’ecclesialità della preghiera e dell’azione liturgica — una comunitarietà che supera la storia. In esso si concretizza il legame della liturgia con il soggetto vivente “Chiesa”, che a sua volta è caratterizzato dal legame con il profilo della fede cresciuto nella Tradizione apostolica. Questo legame con l’unico soggetto Chiesa lascia spazio a forme diverse ed include uno sviluppo vivo, esclude però altrettanto l’arbitrarietà» (Teologia della liturgia, Città del Vaticano 2010, 159). L’arbitrarietà è esclusa perché l’azione simbolico-rituale di sua natura non rimanda a un’idea, ma è reale e unitiva: unisce i singoli partecipanti alla celebrazione costituendoli in assemblea convocata, unisce ogni assemblea con la Chiesa tutta, unisce singoli e Chiesa alla Tradizione consegnataci da Gesù. Intervenire arbitrariamente sul rito, in particolare sulle formule sacramentali, significa spezzare quel legame, umile e fragile, tra ciò che la Chiesa compie e il mistero della salvezza donata, che Cristo stesso ha affidato alle nostre mani. Per questo la Nota afferma che ogni abuso liturgico non costituisce solo una «trasgressione di una norma positiva, ma un vulnus inferto a un tempo alla comunione ecclesiale e alla riconoscibilità dell’azione di Cristo, che nei casi più gravi rende invalido il Sacramento stesso».

Il secondo aspetto ci rimanda al ruolo del ministro e alla natura stessa del ministero ecclesiale, che nella Nota, come si evince dalle argomentazioni, sono riferiti in particolare ai ministri ordinari del Battesimo (vescovo, presbitero, diacono: cfr. ccc 1256; cic can. 861 §1). Essere ministri significa essere servi di Dio e del suo popolo. Non si esercita un potere proprio, ma si diviene segno e strumento della potestas che Cristo ha conferito alla Chiesa. In quest’ottica, come afferma il concilio di Trento, il ministro non solo deve avere almeno l’intenzione di compiere ciò che fa la Chiesa (Denz. 1611), ma, ponendosi nel solco della Tradizione ecclesiale, agisce all’interno dell’assemblea liturgica come segno-presenza di Colui che la raduna e la rende suo Corpo, perché Cristo «è sempre presente nella sua Chiesa, specialmente nelle azioni liturgiche» (SC 7). Se il soggetto dell’azione sacramentale è la tota communitas, come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1140), questa comunità non è un’assemblea che si è costituita da sé, ma il Corpo di Cristo che agisce inseparabilmente dal suo Capo. Proprio il ministro, che al tempo stesso è parte dell’assemblea e posto di fronte a essa, rimanda al fatto che ogni assemblea liturgica è costituita da una chiamata che non sorge dal suo interno. Per questo motivo il ministro non agisce per virtù propria, ma si pone al servizio di Dio e del suo popolo, trasmettendo con fedeltà quello che a sua volta ha ricevuto (cfr. 1 Cor 15, 3). Si comprende allora che non si tratta di un “potere sacrale” da cui svestirsi per condividerlo con altri, ma dell’essere consapevoli che il sacerdozio ministeriale si pone in relazione e al servizio del sacerdozio comune, perché sono ordinati l’uno all’altro (LG 10).

Quando le motivazioni pastorali, pur apprezzabili nel loro intento, non si confrontano con il Magistero e la riflessione teologica, come ha ampiamente dimostrato l’intervento della Congregazione per la dottrina della fede, il rischio è quello di distorcere la natura di quello che si compie e, paradossalmente, di compiere ciò che si vuole evitare. Nella situazione che ha suscitato il dubium, per evitare la concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote ci si è arrogati un potere ancora più ampio: quello di modificare la formula sacramentale del Battesimo, consegnataci dalla bimillenaria Tradizione ecclesiale. Per esprimere il valore comunitario del Battesimo e rendere i fedeli presenti partecipi dell’azione sacramentale, si è manipolato il rito in modo che la comunità non diviene più riconoscibile come assemblea-Corpo di Cristo, ma come gruppo che amministra il Sacramento a nome proprio e che quindi compie un’azione incapace di andare oltre l’agire dell’uomo. Risuona pertinente anche nel nostro caso quanto scrive Papa Francesco in Evangelii gaudium, dove afferma che la chiave e il fulcro della funzione del sacerdozio ministeriale «non è il potere inteso come dominio, ma la potestà di amministrare il sacramento dell’Eucaristia; da qui deriva la sua autorità che è sempre un servizio al popolo» (n. 104).

Note al testo

[1] In realtà, un’attenta analisi del Rito del Battesimo dei Bambini mostra che nella celebrazione i genitori, i padrini e l’intera comunità sono chiamati a svolgere un ruolo attivo, un vero e proprio ufficio liturgico (cfr. Rituale Romanum ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani ii instauratum auctoritate Pauli pp. VI promulgatumOrdo Baptismi ParvulorumPraenotanda, nn. 4-7), che secondo il dettato conciliare comporta però che «ciascuno, ministro o fedele, svolgendo il proprio ufficio, compia soltanto e tutto quello che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza»: Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Sacrosanctum Concilium, n. 28.

[2] Spesso il ricorso alla motivazione pastorale maschera, anche inconsapevolmente, una deriva soggettivistica e una volontà manipolatrice. Già nel secolo scorso Romano Guardini ricordava che se nella preghiera personale il credente può seguire l’impulso del cuore, nell’azione liturgica «deve aprirsi a un altro impulso, di più possente e profonda origine, venuto dal cuore della Chiesa che batte attraverso i secoli. Qui non conta ciò che personalmente gli piace o in quel momento gli sembra desiderabile…» (R. Guardini, Vorschule des Betens, Einsiedeln/Zürich, 19482, p. 258; trad. it.: Introduzione alla preghiera, Brescia 2009, p. 196).

[3] Summa Theologiae, III, q. 67, a. 6 c.

[4] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Sacrosanctum Concilium, n. 7.

[5] S. Augustinus, In Evangelium Ioannis tractatus, VI, 7.

[6] Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Sacrosanctum Concilium, n. 5.

[7] Cfr. DH, n. 1601.

[8] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Sacrosanctum Concilium, n. 22 § 3.

[9] Cfr. Catechismus Catholicae Ecclesiae, n. 1140: «Tota communitas, corpus Christi suo Capiti unitum, celebrat» e n. 1141: «Celebrans congregatio communitas est baptizatorum».

[10] Cfr. DH, n. 1611.

[11] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Sacrosanctum Concilium, n. 2.

[12] Ibidem, n. 26.

[13] S. Augustinus, In Evangelium Ioannis tractatus, VI, 7.