[«Personalmente sono convinto che il più grande scrittore di western sia stato Omero. Ha scritto storie favolose sulle vicende di singoli eroi come Achille, Aiace, Agamennone, tutti prototipi per i personaggi interpretati da Gary Cooper, Burt Lancaster, Jimmy Stewart e John Wayne. Alle mie spalle ovviamente c'è una cultura di cui non posso sbarazzarmi. Non posso neppure negarla. Per esempio, respiriamo quotidianamente il cattolicesimo anche senza crederci». Sergio Leone e l’importanza dei classici]. C'era una volta Sergio Leone di Christopher Frayling
Riprendiamo da La Repubblica del 26/10/2014, aggiornata il 4/12/2018, un’intervista a Sergio Leone di Christopher Frayling. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Cinema.
Il Centro culturale Gli scritti (19/10/2020)
Questa intervista è stata fatta al Dorchester Hotel di Londra una sera di febbraio del 1982. Sergio Leone mi aveva telefonato quel giorno ringraziandomi per le ricerche dedicate al padre Vincenzo che avevo pubblicato nel libro Spaghetti Westerns.
Molti critici stanno prendendo sul serio i suoi film, soprattutto C'era una volta il West. Prima, però, hanno maltrattato a lungo la sua opera.
"Sui giornali m'hanno sempre accusato di copiare i western americani. I critici hanno scritto poi che cercavo di creare una specie di "cinema critico". Si sbagliavano. Io ho dato al western alcune precise convenzioni mie personali che non includevano imitazioni di quello americano. Alle mie spalle ovviamente c'è una cultura di cui non posso sbarazzarmi. Non posso neppure negarla. Per esempio, respiriamo quotidianamente il cattolicesimo anche senza crederci. Ciò traspare forse in certi aspetti dei miei film. È nell'aria. Inoltre, quando faccio un western, ho delle cose da dire. Mentre preparavo Per un pugno di dollari, il mio primo western, mi sentivo in un certo senso come William Shakespeare. Ho scoperto che avrebbe potuto scrivere ottimi western!".
Perché Shakespeare?
"Perché ha scritto alcuni grandi drammi italiani senza aver mai visitato l'Italia e assai meglio degli stessi italiani. A ogni modo, quanto indietro nel tempo vogliamo spingerci? Personalmente sono convinto che il più grande scrittore di western sia stato Omero. Ha scritto storie favolose sulle vicende di singoli eroi come Achille, Aiace, Agamennone, tutti prototipi per i personaggi interpretati da Gary Cooper, Burt Lancaster, Jimmy Stewart e John Wayne. Le storie di Omero sono dei prototipi per tutti gli altri temi western: battaglie, conflitti personali, guerrieri e famiglie, lunghi viaggi. E incidentalmente ha creato anche i primi cowboy. Gli eroi greci basavano le loro vite sull'abilità nel maneggiare lancia e spada, mentre i cowboy si affidavano per sopravvivere all'estrazione rapida della pistola. In fondo è un po' la stessa cosa. Sono grandi miti sull'individualismo. Il guerriero. Il pistolero. Nei miei film poi le donne tendono ad avere un ruolo poco rilevante perché i miei eroi non hanno tempo per innamorarsi o per far loro la corte. Sono troppo impegnati a tentare di sopravvivere. I ruoli femminili nei western di solito tendono a essere ridicoli. È tutt'altra cosa se invece il personaggio femminile è al centro del film, come Claudia Cardinale in C'era una volta il West. In definitiva, credo d'essere riuscito ad accostarmi al western con distacco, da un punto di vista europeo, pur restando un appassionato del genere".
In alcune interviste ha citato tra le fonti italiane dei suoi film le tradizioni dei pupi siciliani.
"Già, quando ho iniziato a girare il mio primo western dovevo cercarmi delle motivazioni psicologiche, non avendo mai vissuto in quel contesto. E mi è venuta in mente una cosa. Era come fare il marionettista dei pupi siciliani. Gli attori vanno in giro su dei carretti e interpretano spettacoli tra lo storico e il leggendario basandosi sulla Chanson de Roland. L'arte del marionettista consiste nel dare a ciascun personaggio una dimensione speciale che coinvolga quel particolare villaggio ove si trovano. Adattano la leggenda al posto in cui si trovano in quel momento. Per esempio, Rolando incarna difetti e virtù del sindaco locale. È l'eroe positivo della storia. Il suo nemico, il cattivo, magari è rappresentato dal droghiere locale. Da regista avevo il compito di fare favole per adulti e mi sentivo come un marionettista con i pupi. Allo stesso modo i marionettisti rendevano più interessanti le storie per gli spettatori locali aggiungendo a un personaggio poco noto al pubblico le caratteristiche d'un vero abitante del posto. È ciò che ho cercato di fare io con il western".
"Favole per adulti": cosa intende?
"Sono film per adulti ma restano favole e hanno l'impatto delle favole. Il cinema per me vuol dire l'immaginario, e l'immaginario si comunica meglio sotto forma di parabola, cioè di favola. Ma non nel senso inteso da Walt Disney. Le sue attraevano in quanto favole interamente inventate, pulite e zuccherose, il che rende le favole meno suggestive. Secondo me le favole catturano l'immaginario del pubblico quando sono ambientate nella realtà anziché nella fantasia. La fusione tra ambienti realistici e storie fantastiche può dare al film un senso mitico, leggendario. C'era una volta..."
Lei ha collegato i suoi film, in particolare Il buono, il brutto, il cattivo, alla tradizione letteraria picaresca, a libri come il Don Chisciotte.
"Nei film d'avventure, e specialmente nei western seri, i registi hanno paura di lasciare che uno spirito picaresco s'intrometta in avventure tragiche. Ma il genere picaresco non appartiene esclusivamente alla letteratura spagnola. Vi è l'equivalente in Italia. Il picaresco e la commedia dell'arte - una tradizione teatrale italiana - hanno molte cose in comune. Non hanno veri eroi rappresentati da un unico personaggio. Prenda Arlecchino nelle commedie di Goldoni: serve due padroni ed è un imbroglione. Si vende a un padrone e poi all'altro senza che i due lo sappiano. Non è un "vero eroe". Idem Clint Eastwood ne Il buono, il brutto, il cattivo. Il mio retroterra, la mia formazione, contengono aspetti che mi hanno influenzato e che non hanno nulla a che fare con il western ".
A proposito di Eastwood: come l'ha scoperto?
"Di Clint mi hanno affascinato la sua figura e la sua personalità. L'avevo visto in un telefilm della serie Rawhide e l'ho preso perché all'epoca James Coburn costava troppo. Guardando Incident of the Black Sheep ho notato che Clint parlava poco, però ho notato anche il modo pigro, distaccato con cui entrava in scena e senza alcuno sforzo rubava ogni inquadratura a Eric Fleming. Quando abbiamo lavorato assieme era come un serpente, andava a fare un pisolino a cento metri di distanza, arrotolandosi sul retro d'un auto o sul set. Poi si svegliava srotolandosi e stendendo le braccia. Mescolando questo atteggiamento con le esplosioni e la velocità degli spari si ottiene quel contrasto essenziale che ci ha apportato. Così abbiamo costruito il personaggio via via, anche a livello fisico, mettendogli la barba e il piccolo sigaro in bocca che non fumava mai. Quando gli è stato offerto il secondo film, Per qualche dollaro in più , mi ha detto: "Leggerò la sceneggiatura, verrò a fare il film, ma per favore, ti supplico, una sola cosa: non mettermi di nuovo il sigaro in bocca!". E io: "Clint, non possiamo lasciar perdere il sigaro, il protagonista è lui!"".
Perché ha deciso d'adottare uno stile cinematografico diverso per C'era una volta il West?
"Il ritmo del film doveva creare il senso degli ultimi respiri d'una persona che sta morendo. Una danza di morte dall'inizio alla fine. Tutti i personaggi del film tranne Claudia sanno che non giungeranno vivi al finale. E io volevo che il pubblico s'immedesimasse per tre ore con i personaggi che vivevano e morivano, come se avessero passato dieci giorni con loro. Il ritmo - tempi brevi, tempi lunghi - è come l'ultimo respiro. Lo stile era in un certo senso una reazione. Volevo fare un film per me stesso anziché per il pubblico. Ricordo bene che, quando è uscito a Roma, un fruttivendolo che lavorava vicino a Piazza Venezia è venuto a dirmi: "Leone è impazzito, non riesce più a dire una cosa in modo diretto. L'America deve averle fatto un pessimo effetto!"".
Qual è stata la sua influenza sul western americano?
"Sam Peckinpah mi ha detto che Il mucchio selvaggio non sarebbe stato possibile senza i miei film. Fino a un certo momento i western sono stati una specie di gioco infantile, i personaggi morivano cadendo in avanti invece d'essere spinti all'indietro. Le pallottole li penetravano senza lasciare traccia. Credo che Per un pugno di dollari abbia introdotto una svolta nella rappresentazione della violenza, e che abbia introdotto una forma di realismo che adesso si può usare in questi film. I produttori in passato non pensavano che si potesse farlo. In questo senso i miei film non hanno influenzato solo i western ma anche altri film. Stanley Kubrick non avrebbe fatto Arancia meccanica senza questa svolta. Non solo riguardo alla violenza ma anche riguardo al coltivare il verismo per raccontare una favola. Mentre stava preparando Barry Lyndon Kubrick mi telefonò: "Ho tutti gli album di Ennio Morricone. Mi spiega perché mi piacciono solo le musiche che ha composto per i suoi film?". Gli risposi: "Non si preoccupi. Io non consideravo granché Richard Strauss finché non ho visto 2001 Odissea nello spazio"".
Credo che C'era una volta il West sia stato il film che ha avuto l'impatto maggiore sulla generazione anni Settanta di Hollywood...
"Forse. Hanno ambientato i loro film nel futuro ma tanti erano veri western. Quando ho visto, ad esempio, la sequenza iniziale di Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg ho pensato: "È girata da Sergio Leone". La polvere, il vento, il deserto, le pianure, improvvisamente le note per archi nella colonna sonora. Anche Fuga da New York di John Carpenter dicono sia stato influenzato dai miei primi western. George Lucas mi ha detto che si era continuamente riferito alla musica e alle immagini di C'era una volta il West montando Guerre stellari, che era un vero western - di serie B - situato nello Spazio. Tutti quei giovani registi di Hollywood, Lucas, Spielberg, Scorsese, Carpenter, hanno detto di sentirsi in debito nei riguardi di C'era una volta il West. Forse gli è piaciuto perché è davvero l'opera di un regista. Però nessuno di loro ha tentato di fare un western che sia un western. Alcuni fanno film evidentemente americani ma con un'ottica europea. Questa contaminazione ha prodotto risultati eccellenti. Ammiro in particolare i film di Spielberg, assai più significativi di quanto appaiono".
Ha mai avuto la tentazione di fare un film sull'Italia ambientato nel presente?
"A me piace fare film spettacolari. Pur essendo una grande nazione di alto profilo, purtroppo l'Italia non offre granché in termini internazionali. Uno dei motivi che mi hanno spinto a fare western era perché fanno parte d'una tradizione perduta dagli stessi americani. Adesso appartiene a noi tutti. Il western è un bene di consumo in Giappone, Nigeria, Colombia, Inghilterra, Italia, Germania e Francia, un po' ovunque. Appartiene al mondo. Ma d'altra parte l'Italia ha un grosso problema. Prenda ad esempio un bel film come Il gattopardo di Visconti. È incomprensibile in America. Visconti ha fatto un lavoro meraviglioso ma è stato un flop in America. Purtroppo, quando si scrive una storia sull'Italia riguarda solo l'Italia. In America invece, anche nella città più piccola, si può scrivere del mondo. Perché? Perché è un agglomerato di tutte le altre comunità. In America si può trovare il mondo. Voglio dire il mondo con tutti i suoi usi, difetti e punti di forza. Come europeo, più conosco l'America e più mi affascina. Pur sentendomi lontano anni luce dall'America".