1/ Ricostruire correttamente il pensiero di Charles de Foucauld, senza piegarlo a proprio uso e consumo nelle dispute inter-religiose e politiche moderne, di Andrea Lonardo 2/ Charles de Foucauld, les chretiens et les musulmans, di Jean-François Six
1/ Ricostruire correttamente il pensiero di Charles de Foucauld, senza piegarlo a proprio uso e consumo nelle dispute inter-religiose e politiche moderne, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (10/8/2020)
Purtroppo, un famoso brano di una lettera di Charles de Foucauld a René Bazin dell’Accademia Francese, del 29 luglio 1916, viene fatto girare senza commenti corretti ed estrapolato dal suo contesto che viene accuratamente ricostruito, invece, dall’articolo di Jean-François Six che segue.
Questo il testo che circola solo, senza il restante contenuto della lettera:
«Ritengo che se, lentamente, dolcemente, i musulmani del nostro impero coloniale del Nord Africa non si convertono, sorgerà un movimento nazionalista simile a quello della Turchia. Si formerà un’élite intellettuale nelle grandi città, educata in Francia, ma senza lo spirito né il cuore francese, un’élite che avrà perso la fede islamica, ma che ne conserverà il nome per influenzare attraverso di essa le masse.
Non si tratta di convertirli in un giorno, né tanto meno con la forza, ma dolcemente, in silenzio, con la persuasione, l’esempio, la buona educazione e l’istruzione, attraverso un contatto stretto e affettuoso. Questo è un lavoro soprattutto per i laici, che possono avere con i musulmani dei contatti assai più numerosi e più intimi che non i preti.
I musulmani possono diventare dei veri francesi? Eccezionalmente sì, ma in generale no. Molti dogmi fondamentali dell’islam si oppongono ai nostri principi. Con alcuni, e penso ai musulmani liberali che hanno ormai perso la fede, ci sono accomodazioni possibili. Ma con altri, e mi riferisco a coloro che aspettano il Madhì, non v’è nessuna possibilità di accordo. Escludendo i liberali, i musulmani credono che, giungendo i tempi del Giudizio Universale, verrà il Madhì che proclamerà una guerra santa per stabilire l’islam su tutta la terra, dopo aver sterminato o soggiogato tutti i non-musulmani.
Secondo la loro fede, i musulmani ritengono l’islam come la loro vera casa e i popoli non-musulmani come destinati a essere sopraffatti da loro o dai loro discendenti. Considerano la sottomissione a una nazione non-musulmana come una situazione transitoria. La loro fede li assicura che usciranno vincitori da questo scontro con gli europei che oggi li dominano.
Loro possono preferire un Paese a un altro, come preferiscono la Francia alla Germania perché ci ritengono più miti; possono intrecciare amicizie con tale o tal’altro francese; possono combattere con grande coraggio per la Francia, per sentimento o per onore; possono dimostrare spirito guerriero, fedeltà alla parola, come d’altronde i mercenari dei secoli XVI e XVII. Ma, di norma, esclusa qualche eccezione, finché saranno musulmani, non saranno dei veri francesi. Aspetteranno con più o meno pazienza il giorno del Madhì, quando allora attaccheranno la Francia».
L’intera lettera permette di allargare lo sguardo, da queste considerazioni sull’Islam in sé, all’atteggiamento spirituale di Charles de Foucauld verso i musulmani.
Come spiega bene Six, de Foucauld ama i musulmani e intende essere, in mezzo a loro, la presenza della tenerezza e della piccolezza del Cristo. Il giudizio così netto emesso nella parte della lettera che viene sempre estrapolata non può essere separato da questo amore.
De Foucauld vede bene che il colonialismo francese non tratta con amore i musulmani, per cui ad essi è quasi impossibile percepire l’amore del Vangelo nella presenza francese in Algeria.
De Foucauld fa sua la scelta di essere un “missionario isolato”, un “missionario solo”, allo scopo di divenire “l’amico sicuro” su cui un musulmano possa appoggiarsi, in cui possa confidare, scoprendo l’affidabilità del Vangelo del Signore – vedi più avanti l’intero testo della lettera e qui, in particolare, il riferimento è alla prima parte.
Ecco perché un utilizzo della lettera di de Foucauld in chiave anti-islamica è negato dal tenore della lettera stessa.
Ma è possibile anche una negazione in senso opposto. De Foucauld ama i musulmani, ma non ritiene identici l’Islam e il cristianesimo ed, anzi, è in mezzo ai musulmani perché desidera che essi diventino cristiani.
Anche se la sua via è quella dell’essere “piccolo fratello”, non di meno il suo intento è quello di poter trasmettere loro Gesù, sapendo che è della fede cristiana che i musulmani hanno bisogno.
Questa possibilità di tenere insieme l’amore per i musulmani e il desiderio che essi diventino cristiani e il lavorare per questo è inaccettabile al pensiero binario, di destra e di sinistra, dove non sui può che essere o assolutamente a favore dei musulmani o assolutamente contro.
Gli “intellettuali” non si capacitano di come possa coesistere insieme queste due cose e, allora, o amputano le parti in cui de Foucauld costantemente ripete il suo amore ai musulmani o amputano le parti in cui egli problematizza l’Islam (sul concetto di “pensiero binario” che riteniamo una delle cause più serie dell’empasse in cui versa il pensiero dell’occidente, cfr. Abbattere statue contro il razzismo? Troppo facile e deresponsabilizzante, di Giovanni Amico e Il pensiero binario, dalla cannabis all’omotransfobia, di Giovanni Amico).
È difficile comprendere agli “intellettuali” del pensiero binario come de Foucauld possa avere un giudizio così netto sul fatto che chi resta musulmano difficilmente potrà scegliere di cuore e fino in fondo i valori dell’occidente, a partire da quello della libertà e, al contempo, amare “alla follia” i musulmani da decidere di vivere in mezzo a loro.
È difficile comprenderlo proprio mentre egli afferma di amare i musulmani e di amarli “alla follia”, al punto di decidere di dedicare la propria vita a loro. De Foucauld - da solo anche se nel desiderio che altri vengano a condividere la sua vita - intende essere un che Dio ama i musulmani.
Ma li ama perché possano un giorno divenire cristiani, accorgendosi, per di più che solo quelli “che quasi non credono più” divengono veri francesi, mentre gli altri o si oppongono apertamente ad una società che oggi diremmo tout court “laica”, o si opporranno inconsapevolmente o fingeranno di accettarla, nell’attesa che si giunga ad un conflitto e tutto l’occidente divenga musulmano.
Questa tensione fra gli opposti, questa dialettica intrinseca di un amore che ama e, proprio per questo, ha ben chiari i problemi, è inconcepibile oggi, sia a destra che a sinistra.
Con questo de Foucauld va ben al di là delle questioni politiche, poiché sa che la tenerezza della misericordia è portata dal Cristo: tutti, nessuno escluso, hanno bisogno di conoscerlo per comprendere cosa voglia dire che Dio è misericordioso e per vivere del suo perdono.
La difficoltà di accettare interamente e pienamente persone ricche e vere come Charles de Foucauld consiste proprio in questa loro capacità di essere totalmente cristiane, serissime quindi nell’amare i non cristiani e serissime, al contempo, nel rendersi conto che si deve desiderare che essi divengano cristiani, se si vuole il loro bene e quello del loro paese.
De Foucauld sa che il modo di vivere silenzioso di Gesù a Nazaret ha caratterizzato la vita del Cristo, così come lo ha caratterizzato l’esplicito annuncio della fede. Se egli sceglie i primi anni di vita di Gesù non per questo disprezza i secondi. Sa che l’annuncio del Vangelo passa sempre, però, attraverso un amore vero, leale e sincero ai fratelli che ancora non conoscono Cristo e che il rapporto personale, a tu per tu con ognuno, che Gesù ha vissuto a Nazaret, vale anche per gli anni della sua predicazione.
Sa anche che la presenza silenziosa di Nazaret è quasi necessaria in terra musulmana dove una parola esplicita potrebbe portare al rifiuto, poiché è vietata dall’Islam la predicazione del cristianesimo. C’è come una congruenza fra gli anni di Nazaret e le leggi che impediscono di predicare: in terra musulmana è come se si fosse obbligati a vivere il tempi di Nazaret. Ma de Foucauld sa che deve preparare la predicazione, perché essa è indispensabile non per sé, ma per il bene dell’altro.
C’è una similitudine in questo con Francesco d’Assisi. Anche egli predica al califfo, a Damietta, di convertirsi al cristianesimo, ma lo fa amandolo e accettando di dialogare con lui. Ma quando Francesco vede che i primi cinque francescani che predicarono in nord Africa vennero martirizzati proprio per aver predicato, invita i suoi alla prudenza. Non nega, cioè, loro di predicare, ma li avverte contemporaneamente a individuare altre strade, perché il contesto è difficilissimo e la via dell’annuncio esplicito è interdetta – si vede qui come anche Francesco sia ben consapevole della durezza non benefica dell’Islam del suo tempo, non dell’Islam in assoluta, ma di certo di quello del suo tempo.
Studiosi francescani hanno mostrato come l’espressione «Predicate sempre il Vangelo e se fosse necessario, anche con le parole!» sia stata attribuita a Francesco a partire da alcuni siti Internet che, nel 2008, iniziarono a proporla e come tale frase apocrifa sia una riscrittura moderna, invece, di un più circostanziato testo introdotto nella Regola proprio per i francescani missionari in terre musulmane, con la duplice possibilità di presenza, proprio perché in quelle terre non esisteva, a causa dell’Islam, la stessa libertà di parola degli altri luoghi di missione francescana: «I frati poi che vanno tra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace a Dio, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, e nel Figlio redentore e salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani» (Regola non bollata (1221), cap. XVI, Fonti francescane, 43).
Meraviglioso è che de Foucauld lavori per i tempi lunghi, quando afferma che ci vorranno “secoli” per questa scoperta della fede cristiana nei paesi musulmani, ma non di meno egli lavora per questo e, contemporaneamente, ama di tutto cuore i suoi fratelli musulmani, in cui ha scelto di vivere proprio perché essi possano sentire il profumo di Cristo.
Chi è politicamente di destra si approprierà di quella parte del pensiero di de Foucauld dove egli è estremamente realista nei confronti dell’Islam, chi è di sinistra si approprierà di quella parte del pensiero di de Foucauld per il quale egli accetta di essere, in vista di tempi nuovi, presenza silenziosa in Algeria.
Solo chi è talmente libero da uscire dalle logiche del pensiero binario è in grado di accogliere Charles de Foucauld così come egli è.
2/ Charles de Foucauld, les chretiens et les musulmans, di Jean-François Six[1]
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Jean-François Six (https://mission-universelle.catholique.fr/wp-content/uploads/sites/7/2016/03/Charles-de-Foucauld_les-chr%C3%A9tiens-et-les-musulmans.pdf). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (10/8/2020)
Si l’on étudiait la place que l’Islam tenait en France il y a un siècle dans le monde politique, dans les journaux, dans l’opinion publique, et celle qu’il y tient aujourd’hui, il n’y aurait guère de comparaison possible: l’Islam est infiniment plus présent dans les esprits aujourd’hui qu’hier. Objet de recul ou de fascination, d’aversion ou d’approche en sympathie, de rejet ou d’acceptation, l’Islam, début du XXIème siècle, existe en France à travers la présence de nombreux musulmans sur notre sol, de nationalité française pour la plupart, à travers le retentissement que produisent sur nous les communautés, la pensée, les réactions musulmanes venant du monde entier.
Il y a cent ans, la France avait des colonies; les plus proches, les trois pays d’Afrique du Nord, étaient essentiellement peuplés de musulmans; ils étaient un peu plus de 4 millions; ils étaient «sujets français» et non pas «citoyens français»; 5000 d’entre eux, surtout Kabyles, travaillaient en France.
Il y a, aujourd’hui en France, 4 millions de musulmans venus d’Afrique du Nord. Qui pourrait ignorer ces changements de situation et de perspective? Et ces nouvelles données d’ensemble ne peuvent que nous rendre bien précautionneux afin d’éviter de juger inconsidérément avec nos yeux d’aujourd’hui la réalité d’il y a un siècle en y projetant nos préoccupations actuelles.
C’est dire à quel point il faut évaluer avec discernement les paroles et les actes de nos prédécesseurs. En 1887, Jules Ferry, le père de l’école, est président du Conseil; il est, lui, grand patriote, «accusé de haute trahison» par Clémenceau et renversé; ce républicain intègre, qui veut planter le plus loin possible le drapeau français, redonner à son pays sa fierté après le désastre de 1870, a trouvé beaucoup de soutiens, entre autres la Société de Géographie, pour réaliser son projet: il veut d’abord faire «œuvre civilisatrice»; mais il a lancé une malheureuse expédition au Tonkin qui a échoué; c’en est fait de lui; alors que ce vosgien est profondément attaché à l’Alsace et la Lorraine, Clémenceau pense qu’il veut, par des conquêtes outre-mer, faire oublier aux Français les provinces perdues. Un texte tronqué et hors contexte.
C’est dans ce contexte politique que le jeune officier Charles de Foucauld, né à Strasbourg, exilé de son Alsace à 12 ans après la défaite de 1870, a réalisé, au début des années 80, à la suite de l’officier Savorgnan de Brazza et d’autres explorateurs, une étonnante «reconnaissance au Maroc»; il s’est, pendant près d’un an immergé dans un monde essentiellement musulman; plus tard, en 1901, devenu prêtre, il s’immergera dans les territoires sahariens en cours de colonisation et y sera sans cesse, jusqu’à sa mort en 1916, au contact de l’Islam.
C’est dans le contexte politique qui est le nôtre aujourd’hui que nous sommes, nous, immergés. Jules Ferry, Clémenceau, Foucauld étaient dans leur époque et, pour les comprendre, nous avons à replacer leurs propos, leurs faits et gestes dans celle-ci; isoler une parole venant d’eux, en faire un en-soi hors contexte, c’est s’égarer.
«Avec deux lignes de l’écriture de l’homme le plus instruit, on peut le faire pendre», aurait dit Richelieu. Le législateur français a tenu compte de ce danger d’écrire en reconnaissant à tout auteur un droit moral en vertu duquel toute citation doit être justifiée par le caractère de l’œuvre et ne peut être détournée de son sens par un contexte qui pourrait prêter à confusion.
Ce ne sont pas deux lignes mais une page de Charles de Foucauld qui est citée depuis quelques années hors de son contexte; elle est publiée, pour les besoins de leur cause, à la fois par des nostalgiques de l’Algérie française et par des islamophobes, dans un moment où, comme le dit Alfred Grosser (La Croix 20 janvier 2010), «l’anti-islamisme prend de plus en plus les formes qu’avait l’antisémitisme virulent».
Il est important de faire un travail de vérité à propos de cette page qui est manifestement instrumentalisée. Cette page est un passage d’une lettre que Charles de Foucauld a écrite quatre mois avant sa mort. Cette page n’est donc qu’un extrait, lequel tient en une page dactylographiée. Il faut souligner qu’on n’est en présence que d’un extrait: la lettre où il se trouve est trois fois plus longue; la page qui est citée est donc une partie tronquée: elle vient après une première partie et une troisième partie, aussi importantes qu’elle, qui l’encadrent et en bonne partie l’expliquent.
Voici la lettre dans son intégralité:
Tamanrasset, par Insalah, via Biskra, Algérie 29 juillet 1916
Monsieur, Je vous remercie infiniment d’avoir bien voulu répondre à ma lettre, au milieu de tant de travaux, et si fraternellement. Je pourrais, m’écrivez-vous, vous dire utilement la vie de missionnaire parmi les populations musulmanes; mon sentiment sur ce qu’on peut attendre d’une politique qui ne cherche pas convertir les musulmans par l’exemple et par l’éducation, et qui par conséquent maintient le mahométisme, enfin, des conversations avec des personnages du désert sur les affaires d’Europe et sur la guerre.
1. Vie du missionnaire parmi les populations musulmanes
Habituellement chaque mission comprend plusieurs prêtres, au moins deux ou trois; ils se partagent le travail qui consiste surtout en relations avec les indigènes (les visiter et recevoir leurs visites) œuvres de bienfaisance (aumônes, dispensaires); œuvres d’éducation (écoles d’enfants, école du soir pour les adultes, ateliers pour les adolescents); ministère paroissial (pour les convertis et ceux qui veulent s’inscrire dans la religion chrétienne).
Je ne suis pas en état de vous décrire cette vie qui, dans ma solitude au milieu de populations très disséminées et encore très éloignées d’esprit et de cœur, n’est pas la mienne… Les missionnaires isolés comme moi sont fort rares. Leur rôle est de préparer la voie, en sorte que les missions qui les remplaceront trouvent une population amie et confiante, des âmes quelque peu préparées au christianisme, et, si faire se peut, quelques chrétiens. Vous avez en partie décrit leurs devoirs dans votre article: «Le plus grand service» (Echo de Paris, 22 janvier 1916). II faut nous faire accepter des musulmans, devenir pour eux l’ami sûr, à qui on va quand on est dans le doute ou la peine, sur l’affection, la sagesse et la justice duquel on compte absolument. Ce n’est que quand on est arrivé là qu’on peut arriver à faire du bien à leurs âmes. Inspirer une confiance absolue en notre véracité, en la droiture de notre caractère, et en notre instruction supérieure, donner une idée de notre religion par notre bonté et nos vertus, être en relations affectueuses avec autant d’âmes qu’on le peut, musulmanes ou chrétiennes, indigènes ou françaises, c’est notre premier devoir: ce n’est qu’après l’avoir bien rempli, assez longtemps, qu’on peut faire du bien.
Ma vie consiste donc à être le plus possible en relation avec ce qui m’entoure et à rendre tous les services que je peux. A mesure que l’intimité s’établit, je parle, toujours ou presque toujours en tête à tête, du bon Dieu, brièvement, donnant à chacun ce qu’il peut porter, fuite du péché, acte d’amour parfait, acte de contrition parfaite, les deux grands commandements de l’amour de Dieu et du prochain, examen de conscience, méditation des fins dernières, à la vue de la créature penser à Dieu, etc., donnant à chacun selon ses forces et avançant lentement, prudemment. Il y a fort peu de missionnaires isolés faisant cet office de défricheur; je voudrais qu’il y en eut beaucoup: tout curé d’Algérie, de Tunisie on du Maroc, tout aumônier militaire, tout pieux catholique laïc (à l’exemple de Priscille et d’Aquila), pourrait l’être. Le gouvernement interdit au clergé séculier de faire de la propagande anti-musulmane; mais il s’agit de propagande ouverte et plus ou moins bruyante: les relations amicales avec beaucoup d’indigènes, tendant à amener lentement, doucement, silencieusement, les musulmans à se rapprocher des chrétiens devenus leurs amis, ne peuvent être interdites par personne.
Tout curé de nos colonies pourrait s’efforcer de former beaucoup de ses paroissiens et paroissiennes à être des Priscille et des Aquila. Il y a toute une propagande tendre et discrète à faire auprès des indigènes infidèles, propagande qui veut avant tout de la bonté, de l’amour et de la prudence, comme quand nous voulons ramener à Dieu un parent qui a perdu la foi … Espérons qu’après la victoire nos colonies prendront un nouvel essor.
Quelle belle mission pour nos cadets de France, d’aller coloniser dans les territoires africains de mèrepatrie, non pour s’y enrichir, mais pour y faire aimer la France, y rendre les âmes françaises et surtout leur procurer le salut éternel, étant avant tout des Priscille et des Aquila!
2. Comment franciser les peuples de notre empire africain
Ma pensée est que si, petit à petit, doucement, les musulmans de notre empire colonial du nord de l’Afrique ne se convertissent pas, il se produira un mouvement nationaliste analogue à celui de la Turquie: une élite intellectuelle se formera dans les grandes villes, instruite à la française, sans avoir l’esprit ni le cœur français, élite qui aura perdu toute foi islamique, mais qui en gardera l’étiquette pour pouvoir par elle influencer les masses; d’autre part, la masse des nomades et des campagnards restera ignorante, éloignée de nous, fermement mahométane, portée à la haine et au mépris des Français par sa religion, par ses marabouts, par les contacts qu’elle a avec les Français (représentants de l’autorité, colons, commerçants), contacts qui trop souvent ne sont pas propres à nous faire aimer d’elle.
Le sentiment national on barbaresque s’exaltera dans l’élite instruite: quand elle s’en trouvera l’occasion, par exemple lors de difficultés de la France au dedans ou au dehors, elle se servira de l’Islam comme d’un levier, pour soulever la masse ignorante, et cherchera à créer un empire africain musulman indépendant. L’empire Nord-Ouest-Africain de la France, Algérie, Maroc, Tunisie, Afrique occidentale française, etc., a 30 millions d’habitants; il en aura, grâce à la paix, le double dans cinquante ans.
II sera alors en plein progrès matériel, riche, sillonné de chemins de fer, peuplé d’habitants rompus au maniement de nos armes, dont l’élite aura reçu l’instruction dans nos écoles. Si nous n’avons pas su faire des Français de ces peuples, ils nous chasseront. Le seul moyen qu’ils deviennent Français est qu’ils deviennent chrétiens. Il ne s’agit pas de les convertir en un jour ni par force: mais tendrement, discrètement, par persuasion, bon exemple, bonne éducation, instruction, grâce à une prise de contact étroite et affectueuse, œuvre surtout de laïcs français qui peuvent être bien plus nombreux que les prêtres et prendre un contact plus intime.
Des musulmans peuvent-ils être vraiment français? Exceptionnellement, oui. D’une manière générale, non. Plusieurs dogmes fondamentaux musulmans s’y opposent; avec certains il y a des accommodements; avec l’un, celui du mehdi, il n’y en a pas; tout musulman, (je ne parle pas des libre-penseurs qui ont perdu la foi), croit qu’à l’approche du jugement dernier le mehdi surviendra, déclarera la guerre sainte, et établira l’islam par toute la terre, après avoir exterminé ou subjugué tous les non-musulmans. Dans cette foi, le musulman regarde l’islam comme sa vraie patrie et les peuples non musulmans comme destinés à être tôt ou tard subjugués par lui musulman ou ses descendants; s’il est soumis à une nation non musulmane, c’est une épreuve passagère; sa foi l’assure qu’il en sortira et triomphera à son tour de ceux auxquels il est maintenant assujetti; la sagesse l’engage à subir avec calme son épreuve; «l’oiseau pris au piège qui se débat perd ses plumes et se casse les ailes; s ’il se tient tranquille, il se retrouve intact le jour de la libération», disent-ils; ils peuvent préférer telle nation à une autre, aimer mieux être soumis aux Français qu’aux Allemands, parce qu’ils savent les premiers plus doux; ils peuvent être attachés à tel ou tel Français, comme on est attaché à un ami étranger; ils peuvent se battre avec un grand courage pour la France, par sentiment d’honneur, caractère guerrier, esprit de corps, fidélité à la parole, comme les militaires de fortune des XVIe et XVIIe siècle: mais d’une façon générale, sauf exception, tant qu’ils seront musulmans, ils ne seront pas français, ils attendront plus ou moins patiemment le jour du mehdi, en lequel ils soumettront la France.
De là vient que nos Algériens musulmans sont si peu empressés à demander la nationalité française: comment demander a faire partie d’un peuple étranger qu’on sait devoir être infailliblement vaincu et subjugué par le peuple auquel on appartient soi-même? Ce changement de nationalité implique vraiment une sorte d’apostasie, un renoncement à la foi du mehdi…
3. Conversation avec des personnages du désert sur les affaires de l’Europe et sur la guerre
Je n’en ai pas. Je n’ai jamais cessé de dire aux indigènes que cette guerre est chose sans gravité; deux gros pays ont voulu en manger deux petits; les autres gros pays, tel que les Anglais, les Russes et nous, leur font la guerre non seulement pour empêcher cette injustice, mais pour ôter à ces deux voleurs la force de recommencer; quand ils seront bien corrigés et affaiblis, on leur accordera la paix: cela durera ce que cela durera, le résultat ne présente aucun doute, et nous avons l’habitude d’aller lentement mais sûrement…
Les gens de ce pays reculé sont d’une telle ignorance que tout détail supplémentaire les induirait en erreur: ils ne comprendraient pas, et se feraient des idées fausses.
La main-d’œuvre polonaise
Votre article sur la main-d’œuvre étrangère (Echo de Paris du 28 mai 1916), et ce que vous y dites avec tant de vérité des Polonais me porte à vous parler d’un ami… qui a consacré sa vie à l’étude et au relèvement de la Pologne, sa patrie, il travaille à la relever surtout par la pureté des mœurs, l’austérité de la vie et le renoncement à l’alcool. Voyant avec douleur beaucoup de Polonais partir annuellement pour l’Amérique où ils perdent leurs âmes, il cherche à détourner ce mouvement d’émigration vers la France et les colonies françaises du Nord de l’Afrique, Algérie, Maroc, Tunisie. Depuis trois ou quatre ans, il a fait parvenir des propositions à ce sujet aux autorités françaises d’Algérie et du Maroc, offrant de diriger sur ces pays des familles choisies de Polonais. Rien de ce qu’il a proposé n’a été exécuté jusqu’à présent. L’heure viendra peut-être bientôt de reprendre son idée et de l’appliquer non seulement à l’Algérie, à la Tunisie et au Maroc, mais aussi à la France…
Les Kabyles
Comme vous, je désire ardemment que la France reste aux Français et que notre race reste pure. Pourtant je me réjouis de voir beaucoup de Kabyles travailler en France; cela semble peu dangereux pour notre race, car la presque totalité des kabyles, amoureux de leur pays, ne veulent que faire un pécule et regagner leurs montagnes. Si le contact de bons chrétiens établis en Kabylie est propre à convertir et à franciser les Kabyles, combien plus la vie prolongée au milieu des chrétiens de France est-elle capable de produire cet effet! Les berbères marocains, frères des Kabyles, sont encore par trop rudes; ils seront pareils aux Kabyles, quand eux, ils auront soixante ans de domination française. Saint Augustin aimait la langue punique, parce que, disait-il, c’était la langue de sa mère: qu’était la race de sainte Monique dont la langue était la punique? La race berbère? Si la race berbère nous a donné sainte Monique et en partie saint Augustin, voilà qui est bien rassurant. N’empêche que
les Kabyles ne sont pas aujourd’hui ce qu’étaient leurs ancêtres du IVè siècle: leurs hommes ne sont pas ce que nous voulons pour nos filles; leurs filles ne sont pas capables de faire les bonnes mères de famille que nous voulons. Pour que les Kabyles deviennent français, il faudra pourtant que des mariages deviennent possibles entre eux et nous: le christianisme seul, en donnant même éducation, mêmes principes, en cherchant à inspirer mêmes sentiments, arrivera avec le temps, à combler en partie l’abîme qui existe maintenant. En me recommandant fraternellement à vos prières, que nos Touaregs, et en vous remerciant encore de votre lettre, je vous prie d’agréer l’expression de mon religieux et respectueux dévouement. Votre humble serviteur dans le cœur de Jésus.
Charles de Foucauld.
Cette lettre a été publiée, en son entier, après la mort de Foucauld, en 1917, par son destinataire, René Bazin. Celui-ci, de l’Académie française, était alors président de la Corporation des publicistes chrétiens; il publie in extenso cette lettre, qu’il avait donc reçue lui-même de Foucauld, dans le Bulletin du Bureau catholique de Presse, n° 5, octobre 1917. Il a fait précéder le contenu de la lettre de Foucauld par une introduction (non signée) où il est indiqué que son auteur a été récemment «assassiné, très certainement en haine du Christ et de la France».
Le «très certainement» est excessif: on notera que l’Église, en 2005, n’a pas retenu le bienheureux Foucauld comme martyr. Quand il publie en octobre 1917 cette lettre datée du 29 juillet 1916, René Bazin a déjà été sollicité par L. Massignon, six mois plus tôt, pour écrire une biographie de Foucauld et il est en train de la mettre en œuvre. Celle-ci paraîtra chez Plon en 1921 sous le titre Charles de Foucauld explorateur du Maroc, ermite au Sahara[2]. Pourquoi Foucauld était-il entré en contact avec Bazin? Il souhaitait depuis longtemps lui écrire pour une demande précise. En 1907, Foucauld qui depuis 1904 sillonnait le Sahara où, contrairement au titre de Bazin, il n’était en rien un ermite, et qui connaissait l’Afrique du Nord depuis 1881, avait pris conscience de l’ampleur des problèmes de l’Algérie et des oasis sahariennes; il s’en était ouvert, entre autres, à son père spirituel l’abbé Huvelin; par exemple dans une lettre du 22 novembre 1907, regrettant vivement l’impéritie des Français par rapport aux autochtones (on disait, sans que le mot soit alors péjoratif: «indigènes»):
«Les civils ne cherchent la plupart qu’à augmenter les besoins des indigènes, pour tirer d’eux plus de profit, ils cherchent leur intérêt personnel uniquement; les militaires administrent les indigènes en les laissant dans leur voie, sans chercher sérieusement à leur faire faire des progrès». Il concluait: «De sorte que nous avons là plus de trois millions de musulmans depuis plus de 70 ans pour le progrès moral desquels on ne fait pour ainsi dire rien, desquels le million d’Européens habitant l’Algérie vit absolument séparé, sans le pénétrer en rien, très ignorant de tout ce qui les concerne, sans aucun contact intime avec eux, les regardant toujours comme des étrangers et la plupart du temps comme des ennemis[3]».
Que faire pour ces peuples? Foucauld estime que c’est là une attitude intolérable; il invoque «la fraternité que personne ne nie» – que ce soit la fraternité républicaine, que ce soit la fraternité chrétienne – cette «fraternité qui trace des devoirs bien différents».
Et devant cette situation, pensant à l’Algérie et à d’autres colonies, au «mal» qui s’y fait, rappelant «ce devoir envers ces peuples qu’on n’accomplit pas», il confie à l’abbé Huvelin qu’il souhaite «un bon livre» «écrit par un laïc», un livre «facile à lire», qui «montre la voie à suivre»; il ajoute à l’abbé Huvelin qu’il a pensé à un nom: René Bazin.
Dans les années qui suivent, la situation ne change pas; en 1912 Foucauld écrit: «On les a maintenus dans la soumission et rien de plus. Si la France n’administre pas mieux les indigènes de sa colonie qu’elle ne l’a fait, elle la perdra et ce sera un recul de ces peuples vers la barbarie avec perte d’espoir de christianisme pour longtemps».
Les choses s’aggravent même du fait de la guerre. L’occasion, pour Foucauld, de s’adresser directement à Bazin va se présenter. Rappelons que la guerre éclate en 1914, que la bataille de Verdun dure quasiment toute l’année 1916 et que la correspondance entre Bazin et Foucauld se situe dans ce contexte où la France est extrêmement angoissée sur l’issue de la guerre. Même si, comme on l’a dit (J. Morienval, art. R. Bazin, in Catholicisme, 1948), R. Bazin a été un écrivain «timide devant son temps», il s’est pourtant beaucoup intéressé aux questions d’actualité.
Répondant à Foucauld, il va lui écrire en l’interviewant en journaliste, lui posant trois questions: 1. Quelle est la vie des missionnaires parmi les populations musulmanes 2. Comment franciser les peuples de notre empire africain 3. Quel est le contenu des conversations avec des personnages du désert sur les affaires de l’Europe et sur la guerre.»
Dans le Bulletin d’octobre 1917, en publiant intégralement la réponse de Foucauld, Bazin réintroduira en sous-titres ces trois questions, ceci pour simplifier la lecture de la longue réponse de Foucauld. Inutile de parler ici du troisième point; Foucauld répond en effet au sujet des ces «conversations»: «Je n’en ai pas».
Il ne voit pas comment il pourrait expliquer ce qui se passe aux «gens de ce pays reculé» et d’une extrême «ignorance», ils n’y comprendraient rien. Il ajoutera, après cette troisième partie très brève, un long paragraphe sur une émigration possible de Polonais pour l’Afrique du Nord (plutôt que «pour l’Amérique où ils perdent leurs âmes»), et un autre paragraphe, dont nous reparlerons, sur le fait que «beaucoup de Kabyles viennent travailler en France».
Franciser ces peuples? Prenons donc le deuxième point de la lettre de Foucauld. C’est celui qui, depuis quelques années, a été reproduit plusieurs fois et présenté comme si c’était toute la lettre du 29 juillet 1916; publication qui est le fait de médias à tendance d’extrême-droite; ainsi par exemple, il y a quelques années, sur le site www.occidentalis.com, le texte a été publié à l’appui de leur thèse qu’ils citèrent: «Pour que l’Occident ne devienne jamais une terre d’Islam.»
Notons que ce texte fait l’objet actuellement d’une grande diffusion en cette année 2010 où le gouvernement français a lancé un débat sur l’identité nationale, initiative applaudie par M. Le Pen qui y a vu une tribune pour mettre en garde contre les musulmans établis en France.
«Comment franciser?» interroge Bazin; il ne pose pas une question préalable: «Faut-il franciser?» car, pour lui, comme pour Jules Ferry jadis, il n’y a aucun doute: la République française a une mission civilisatrice, elle doit donc «franciser» ces peuples arriérés, leur apporter le caractère français tout particulièrement par l’instruction.
Mais cela ne signifie nullement donner à ces populations la nationalité française et l’égalité qui en découle; si le fameux décret d’Adolphe Crémieux, en 1870, a permis aux Juifs d’Algérie d’accéder au statut de citoyen français, la plupart des Français d’Algérie et de France veulent éviter plus que tout que ces populations obtiennent les mêmes droits.
Napoléon III avait rêvé d’un «royaume arabe», d’une association libre de celui-ci avec la France: il s’était heurté à la fois aux Français d’Algérie et à une gauche jacobine qui méprise les Arabes au nom de la «civilisation»[4].
Quelle est là-dessus la position de Foucauld? Il veut, il l’a répété constamment, que ceux qu’il n’a cessé de rencontrer depuis plus d’un quart de siècle en Afrique du Nord soient «nos égaux». Ils ne le sont pas? qu’ils le deviennent et qu’on les aide à le devenir.
Plus précisément, la conception de Foucauld par rapport à ce problème s’exprime à travers une métaphore, non pas paternaliste comme on pourrait le juger trop vite, mais familiale. Pour lui, comme il l’écrit dans les derniers chapitres du Directoire, un vade-mecum qu’il compose en 1909 pour les membres de l’UNION, la confrérie qu’il veut fonder, pour lui, «la patrie est l’extension de la famille […] et les colonies de la patrie font partie de la grande famille nationale». La France et les colonies sont des enfants de cette «grande famille», des enfants qui sont égaux en droit et doivent devenir tels dans la réalité.
Des parents doivent tout faire, s’ils ont un enfant arriéré, pour combler son retard, le mettre à niveau de leurs autres enfants; il faut – et Foucauld montre là qu’il n’est pas, comme on l’a dépeint, un aristocrate d’ancien régime mais un véritable républicain – que tous ces enfants soient véritablement égaux, que la France et les colonies fassent partie d’un ensemble où tous sont sur un même pied d’égalité.
Comment réaliser cette égalité? Par le progrès. Pendant autant de temps que la France aura des colonies, son devoir est de faire en sorte que les colonies puissent devenir, peu à peu, des égaux par rapport aux Français, des frères non par le sang, bien sûr, ni par les sentiments, mais par l’égalité; l’égalité non seulement de droit mais de fait et ceci grâce au progrès:
«Je suis persuadé, écrit-il le 4 mars 1916, neuf mois avant sa mort, que ce que nous devons chercher pour les indigènes de nos colonies, ce n’est ni l’assimilation rapide, elle est impossible, l’assimilation demandant des générations et des générations, ni la simple association, qui n’est pas propre à produire, par elle-même, les progrès de nos administrés, ni leur union sincère avec nous, mais le progrès qui sera très inégal et devra être cherché par des moyens souvent bien différents dans nos colonies si variées, mais doit être constamment le but poursuivi».
Progrès sur trois plans: «Progrès intellectuel, moral et matériel», dit-il[5]. Le triple «progrès» pour ces peuples. Ce progrès aux trois dynamiques indissociables, on a vu qu’il le requiert de la population européenne qui se trouve en Afrique du Nord. On a lu sa pensée: ainsi, pour lui, depuis 80 ans que la France est en Algérie et aujourd’hui en 1907, «on n’y fait rien pour les indigènes», dit-il, renvoyant d’ailleurs dos à dos civils et militaires, les mettant devant leurs immenses responsabilités; Jules Ferry voulait apporter l’instruction, entre autres; or, en 1907, à peine 2% des enfants algériens sont scolarisés. Et en 1901, dès son arrivée à Beni Abbès, dans le sud-algérien, Foucauld avait constaté stupéfait, une réalité révoltante: «Ici, hélas, l’esclavage fleurit comme il y a deux mille ans, au grand jour, sous les yeux et avec la permission du gouvernement français», écrit-il dès son arrivée, le 8 janvier 1902 à Marie de Bondy.
Il accueille alors chez lui des esclaves, rachète quelques-uns d’entre eux, mais c’est la situation politique qu’il faut changer: «Je ne cache pas à mes amis français que cet esclavage est une injustice, une immoralité monstrueuse». Et dans cette même lettre à son supérieur ecclésiastique, Mgr Guérin, il cite nommément le gouverneur militaire de la région et son adjoint: «C’est par ordre du général Risbourg, ordre confirmé par le colonel Billet, que l’esclavage est maintenu».
Le 7 février, il écrit en France, au père abbé de la Trappe Notre-Dame des Neiges «il faut dire – ou faire dire par qui de droit – «non licet»; «Væ vobis hypocritæ» qui mettez sur les timbres et partout «liberté, égalité, fraternité, droits de l’homme» et qui rivez aux fers des esclaves, qui condamnez aux galères ceux qui falsifient vos billets de banque et qui permettez des voler des enfants à leurs parents».
Il s’attaque au nœud du problème: la loi même qui permet l’esclavage, ou plutôt à ce qui fait loi dans la région, en l’occurrence la déclaration formelle du général Risbourg: «Elle est le «code noir» dans la Saoura et fait loi», écrit-il à Mgr Guérin. Il contribuera à faire supprimer en partie l’esclavage quelques années plus tard[6].
Or, ce progrès fondamental, il l’a obtenu en invoquant les principes mêmes de la République française en même temps que le commandement évangélique «Aimer le prochain comme soi-même», l’essentiel étant pour lui la libération des êtres, le développement des peuples; ce devenir de progrès qui est pour lui premier; de la même manière, chez les Touaregs, il ne cessera de promouvoir l’égalité entre tous, travaillant à défaire le système des castes qui y existe, donnant toute leur place aux «imrad» face aux chefs; les «imrad», c’est-à-dire ceux qu’il appelle les «plébéiens», ceux d’ailleurs à qui il fait d’abord confiance pour l’avenir, pour le progrès.
Dans la question de l’esclavage, il s’élève contre les autorités françaises mais il met en même temps en cause d’autres autorités: les marabouts musulmans qui ont eux-mêmes des esclaves et veulent perpétuer la situation: «Ceux qui ont énormément d’esclaves, ce sont les nomades et les marabouts: les uns et les autres ne travaillent jamais»; il ajoute ironiquement: «En libérant leurs esclaves, on les fera travailler un peu, ce qui les améliorera dans la même proportion».
Il n’est pas plus tendre envers les uns qu’envers les autres, envers ceux qui représentent la République et la bafouent en autorisant l’esclavage, comme envers les tenants de l’Islam qui pratiquent sans vergogne l’esclavage.
Il dénonce les uns et les autres avec la même vigueur, à la gêne d’ailleurs de ses supérieurs ecclésiastiques et de certains de ses amis militaires haut placés qui préféreraient, politiquement, plus de retenue, plus d’accommodement. Il y a «musulmans» et «musulmans». S’il critique des Français et des Musulmans peu fidèles, dans les faits, soit à leur devise républicaine, soit à leur croyance, il reste qu’il admire la République lorsqu’elle accomplit une œuvre de «progrès» et l’Islam lorsqu’il anime des hommes de foi profonde.
Et c’est un progrès quand des populations, sous régime français, peuvent vivre plus de justice: «Elles doivent être sous un régime de justice, elles ont droit à l’équité sociale, à la suppression des castes, à l’abolition des abus, et à la protection contre toute violence injuste et toute exaction» (au capitaine Gardel, 24 août 1913).
Quant à la foi islamique il en reconnaît la grandeur. Son ami Laperrine dira de lui, au sujet de l’exploration qu’il avait réalisée au Maroc, en 1883-84, tandis qu’il était incroyant: «Il admirait la force que tous ces Marocains puisaient dans leur foi». Et lui-même, en 1901, peu après son ordination sacerdotale, écrira à son ami Castries, grand spécialiste de l’Islam, se référant à cette année d’exploration: «l’Islam a produit en moi un profond bouleversement. La vue de cette foi, de ces âmes vivant dans la continuelle présence de Dieu m’a fait entrevoir quelque chose de plus grand et de plus vrai que les occupations mondaines».
Cette foi l’a même attiré au point de lui faire songer à s’y convertir: «L’islamisme est extrêmement séduisant: il m’a séduit à l’excès», écrit-il encore à Castries; et il lui donne les raisons de cette attirance: «L’islamisme me plaisait beaucoup avec sa simplicité, simplicité de dogme, simplicité de hiérarchie, simplicité de morale». Il y a aussi, pour le séduire, la beauté, celle des paysages orientaux, des nuits, de la langue elle-même, l’arabe, langue du Coran.
Foucauld, comme d’autres Européens fascinés par cette beauté simple et ces splendeurs, aurait pu se convertir à cet Islam qu’il admirait. S’il ne l’a pas fait, c’est sans doute parce que dans sa vie recluse à Paris pour préparer le récit de son exploration, et tandis qu’il se forgeait en même temps une vie d’ascétisme pour d’autres expéditions, ses lectures autour de l’Islam lui ont fait voir une image du Prophète Mahomet qui ne correspondait pas à ce qui était désormais son idéal: une «vertu» au sens païen, un stoïcisme radical.
Et par ailleurs, il avait un sens très noble de la femme: celui qu’on a défini encore récemment comme un «débauché notoire» (A. de Larminat, Figaro Littéraire, octobre 2009) a été, en réalité, dans ses fêtes et ses rares liaisons, d’une courtoisie et d’une correction rares envers les femmes qu’il a rencontrées; il a récusé la place de la femme dans l’Islam, tout autre que celle, majeure, qu’il pouvait constater dans sa propre famille; plus que tout, peut-être, pour le détourner de l’Islam et le faire accéder de nouveau au christianisme de son enfance, y a-t-il eu «la bonté maternelle» de sa cousine qu’il côtoyait durant sa vie très austère où il préparait Reconnaissance au Maroc, une cousine aussi intelligente que discrète, aussi spirituelle que raffinée.
À côté de cet Islam de grandeur et de beauté qu’il n’a cessé d’admirer, il y a un autre Islam moins élevé, qu’il a rencontré jadis et qu’il a continué de rencontrer jusqu’à sa mort; à côté de ces musulmans fervents qu’il a estimés, qu’ils soient humbles ou hommes de pouvoir comme Moussa, l’aménokal du Hoggar, qui s’était converti et était devenu un très pieux musulman, il y a d’autres musulmans qu’il a vu prôner une religion close, fermée, sinon fanatique.
Si on veut bien lire de près la deuxième partie du texte de la lettre de juillet 1916 à Bazin, on aperçoit que, dans ces tenants d’un Islam très fermé, il discerne deux catégories: d’abord, quelques-uns, qui commencent déjà à poindre, une «élite», «ayant perdu toute foi islamique mais qui en gardera l’étiquette pour pouvoir par elle influencer lesmasses»; et, ensuite, justement, «la masse des nomades et des campagnards»; d’une part une «élite» «instruite à la française sans avoir l’esprit ni le cœur français», et n’ayant pas non plus «la foi islamique»; d’autre part une «masse», «fermement mahométane».
Cette masse est très éloignée de la France; pourquoi? se demande Foucauld; il donne deux raisons: si elle est «portée à la haine et au mépris des Français» c’est « par sa religion, par ses marabouts»; mais c’est aussi, – et on a vu que Foucauld n’a cessé d’aborder ce point depuis qu’il est au Sahara – «par les contacts qu’elle a avec les Français (représentants de l’autorité, colons commerçants), contacts qui, trop souvent, ne sont pas propres à nous faire aimer d’elle».
Pour ce qui est de l’évangélisation, les musulmans se trouvent dans «des conditions très défavorables», avait-il écrit dans une note à Mgr Guérin en 1902, à ses débuts au Sahara; quelles conditions?
Les musulmans se trouvent devant «une population chrétienne donnant le mauvais exemple, très corrompue et propre à donner la plus mauvaise opinion du christianisme». De même est-ce l’attitude globale des Français depuis la colonisation qui fait obstacle à cette «francisation» (des «peuples de notre empire africain» comme dit Bazin).
Il y a un autre grand obstacle, cette fois intérieur à la croyance musulmane, qui empêche la «masse» de souhaiter devenir française. Dans sa lettre à Bazin, Foucauld expose ce point dans le long paragraphe qui a trait au «medhi» (ou «mahdi»), une croyance très ancrée dans cette «masse». Selon cette conviction, ce «dogme», dit Foucauld, il y aura, à la fin des temps, l’arrivée d’un envoyé d’Allah qui établira définitivement l’Islam sur terre: «Dans cette foi, écrit Foucauld, le musulman regarde l’Islam comme sa vraie patrie».
Ce qui est une réponse claire à Bazin: dans cette conception, il ne peut être question de «francisation», puisque le musulman considère alors qu’il n’a qu’une seule «patrie»: l’Islam.
Un an plus tôt, dans une lettre du 26 avril 1915, Foucauld avait parlé du «Mahdi» dont Moussa «attend évidemment l’arrivée, d’ici trente ans» «Moussa dit à ses gens: prenez patience, restez tranquille, obéissants envers les païens tant que Dieu leur donne pouvoir sur vous; le temps n’est pas loin où il nous donnera à notre tour pouvoir sur eux, quand il enverra son Mahdi, que tous les savants disent très proche»[7].
Foucauld a très bien vu, et depuis longtemps, que, dans cette conviction du Mehdi aussi fortement ancrée, il n’est pas question pour un musulman d’envisager une «francisation»; il le dit très clairement à Bazin pour lui enlever, discrètement mais fortement, toutes ses illusions; voici le paragraphe qui conclut sa réponse à la question: «Des musulmans peuvent-ils être vraiment français? Exceptionnellement, oui. D’une manière générale, non. Plusieurs dogmes fondamentaux musulmans s’y opposent; avec certains il y a des accommodements; avec l’un, celui du medhi, il n’y en a pas: tout musulman, (je ne parle pas des libre-penseurs qui ont perdu la foi), croit qu’à l’approche du jugement dernier le medhi surviendra, déclarera la guerre sainte, et établira l’islam sur toute la terre, après avoir exterminé ou subjugué tous les non musulmans. Dans cette foi, le musulman regarde l’islam comme sa vraie patrie et les peuples non musulmans comme destinés à être tôt ou tard subjugués par lui musulman ou ses descendants; s’il est soumis à une nation non musulmane, c’est une épreuve passagère; sa foi l’assure qu’il en sortira et triomphera à son tour de ceux auxquels il est maintenant assujetti; la sagesse l’engage à subir avec calme son épreuve; «l’oiseau pris au piège qui se débat perd ses plumes et se casse les ailes; s’il se tient tranquille, il se trouve intact le jour de la libération», disent-ils; ils peuvent préférer telle nation à une autre, aimer mieux être soumis aux Français qu’aux Allemands, parce qu’ils savent les premiers plus doux; ils peuvent être attaché à tel ou tel Français, comme on est attaché à un ami étranger; ils peuvent se battre avec un grand courage pour la France, par sentiment d’honneur, caractère guerrier, esprit de corps, fidélité à la parole, comme les militaires de fortune des XVIe et VIIe siècles mais, d’une façon générale, sauf exception, tant qu’ils seront musulmans, ils ne seront pas Français, ils attendront plus ou moins patiemment le jour du mehdi, en lequel ils soumettront la France. De là vient que nos Algériens musulmans sont si peu empressés à demander la nationalité française: comment demander à faire partie d’un peuple étranger qu’on sait devoir être infailliblement vaincu et subjugué par le peuple auquel on appartient soi-même? Ce changement de nationalité implique vraiment une sorte d’apostasie, un renoncement à la foi du medhi… »
«Français» et «musulmans»: quels mariages possibles? Tout à la fin de sa lettre, dans une sorte de codicille, Foucauld laisse pourtant Bazin espérer un peu. Il note que «beaucoup de Kabyles» viennent «travailler en France» et il s’en réjouit. N’ayez pas peur, ajoute-t-il à Bazin, que la France soit victime d’un envahissement et qu’elle ne reste plus aux Français: «La presque totalité des Kabyles, amoureux de leur pays, ne veulent que faire un pécule et regagner leurs montagnes».
Bazin, chantre de la France profonde et éternelle, apeuré par «La terre qui meurt» (titre de l’un de ses romans ruraux), peut être rassuré. Mais les Kabyles qui demeurent en France? Foucauld accorde à Bazin que «leurs hommes ne sont pas ce que nous voulons pour nos filles; leurs filles de sont pas capables de faire les bonnes mères de famille que nous voulons».
Mais face à Bazin, Foucauld avance: «Pour que les Kabyles deviennent français, il faudra pourtant que des mariages deviennent possibles entre eux et nous». Or Foucauld insiste: «l’abîme qui existe maintenant» entre eux et nous est immense; comment le «combler»?, s’interroge-t-il. Il donne à Bazin la réponse qu’il lui a déjà donnée au sujet de la «francisation» et qui est, à première vue, surprenante à nos yeux: la christianisation; seule celle-ci permettrait vraiment des mariages entre Kabyles et Français, seule celle-ci permettrait dès lors une «francisation»: «Le seul moyen qu’ils deviennent Français est qu’ils deviennent Chrétiens» avait-il dit dans sa réponse à la deuxième question. Mais il y a, dans ce dernier paragraphe au sujet des Kabyles, une très brève incise que Foucaud a soulignée dans sa lettre: «Avec le temps» dit-il.
Ce n’est pas maintenant que cette avancée pourrait se faire, ni dans trente ans, mais, comme il l’a plusieurs fois répété au sujet de la conversion des musulmans, c’est une question de «siècles». Or cet extrême élargissement du temps change tout; il met le problème bien au-delà de la pauvre vie de Foucauld qui en est à ses derniers mois, bien au-delà des deux ou trois générations suivantes, françaises ou algériennes, il laisse un grand temps au temps pour que les problèmes se dénouent et que de vrais liens puissent se nouer.
C’est ainsi qu’il ne s’agit plus de vouloir convertir sur l’heure, et pas plus de franciser sur l’heure, mais de laisser un très long temps comme facteur décisif pour changer ce qui, pour Foucauld, est l’essentiel à changer: les «mentalités». Que la mentalité de ces Français clos sur eux-mêmes et leur supériorité, fanatiques sur des profits à réaliser, change; que celle d’habitants de l’Afrique du Nord, fanatiques d’un mehdi radicalement vengeur, admettant une infériorité de la femme ou de l’esclave, change.
Pour lui, c’est là le progrès, le progrès qui produit les changements chez les personnes, chez les peuples; et il croit que tous peuvent, à des degrés différents, poursuivre le progrès: «Les uns, les Berbères, capables d’un progrès rapide, les autres, Arabes, plus lents au progrès. Mais tous sont capables de progrès» (lettre à Fitz-James, 11 décembre 1912).
Ces changements des uns et des autres, à travers le triple progrès à effectuer, sont destinés, dans l’esprit de Foucauld, à permettre ce que Hegel appelait, pour parler de la paix, «la reconnaissance réciproque». Laquelle ne peut se faire qu’entre égaux – il répète qu’il s’agit, pour les autochtones, d’«être non pas nos sujets mais nos égaux, être partout sur le même pied que nous».
De même veut-il, chez les Touaregs, un système plus égalitaire, comme chez les Kabyles où existe une certaine démocratie villageoise; dans la même ligne, il s’en prend souvent aux «grands chefs indigènes, un des maux de l’Algérie»: «Dans l’intérêt même des populations indigènes, il faut que disparaisse le système des «caïds»» (lettre à Duclos, 4 mars 1916).
Cette reconnaissance d’autrui ne signifie aucunement, à ses yeux, d’avoir à perdre son identité. À Bazin qui lui a écrit qu’il veut que «la France reste aux Français et que notre race reste pure», il répond «oui mais»: «Pourtant je me réjouis de voir beaucoup de Kabyles travailler en France». Et on sait qu’il souhaite que «des mariages deviennent possibles entre eux et nous».
Reste – il faut le répéter – qu’il estime, de façon très réaliste, que dans cette «reconnaissance réciproque» entre Maghrébins et Français, entre Christianisme et Islam, entre France et Algérie, il s’agit d’une œuvre de très longue haleine.
Pour y œuvrer, il faut d’abord faire un travail de mémoire et de discernement, oser, comme le fait Foucauld, regarder, dans leur réalité, les 80 ou 90 ans de la présence française en Afrique du Nord, et oser envisager le futur: cinquante ans au bout desquels ces peuples «nous jetteront à la mer» si nous ne changeons pas de politique et de comportement.
Comment dire l’Evangile aux «frères de Jésus qui L’ignorent»? La lettre du 29 juillet est écrite en pleine année 1916, où, pour la France, vont mourir, entre autres, un certain nombre de musulmans d’Afrique du Nord aux côtés d’un certain nombre de camarades de Foucauld; lequel, germaniste accompli, n’a aucune aversion envers les Allemands mais un profond dégoût devant les actes barbares accomplis par certains de leurs soldats au début de la guerre; c’est là une vision que partageaient la plupart de ses compatriotes: pour lui, la France, «dans la guerre présente, défend le monde et les générations futures contre la barbarie morale de l’Allemagne», écrit-il à un ami au front, le général Mazel, barbarie qu’il appelle «un paganisme nouveau».
Or l’Allemagne avait espéré que les populations d’Afrique du Nord se seraient soulevées, dès le début de la guerre, contre leurs occupants français; et durant toute la guerre, l’Allemagne, avec son alliée la Turquie, agitera dans ce but la région; Foucauld, assassiné par des Senoussistes proches de l’Empire ottoman en sera d’ailleurs une victime; et on peut penser que, si l’Allemagne avait gagné la guerre, le Maroc au moins serait devenu colonie allemande.
La perspective de Bazin, perspective colonialiste de «francisation», explique sa deuxième question à Foucauld, lequel se trouve sur le terrain et connaît depuis longtemps l’Afrique du Nord. Cette question est très importante pour Bazin; pour Foucauld, elle n’est pas, et de loin, la plus importante. Car c’est la première question que lui a posé Bazin qui lui tient le plus à cœur et il faut dire qu’en même temps, c’est la réponse qu’il donne à la première question de Bazin qui éclaire d’un jour nouveau la deuxième, celle que nous venons de voir, sur la «francisation». Il est très dommage, qu’à des fins actuelles nettement idéologiques, on n’ait publié qu’une partie, la seule réponse à la deuxième question, sans donner le contenu de toute la lettre, sans apporter tout particulièrement la première partie de celle-ci[8].
Rappelons cette première question posée par Bazin, à laquelle Foucauld va donc longuement répondre. Ce n’est pas une question de philosophie politique, si l’on peut dire, comme la seconde, mais une question existentielle. Le journaliste Bazin demande à son interlocuteur de décrire concrètement «la vie du missionnaire parmi les populations musulmanes»; pas d’abord sa propre vie, mais celle des missionnaires en cette situation.
Et Foucauld commence par parler, en vingt lignes, des «missions», c’est-à-dire des insertions communautaires qui existent en pays d’Islam et leur rôle: «Habituellement, chaque mission comprend plusieurs prêtres, au moins deux ou trois; ils se partagent le travail qui consiste surtout en relations avec les indigènes (les visiter et recevoir leurs visites); œuvres de bienfaisance (aumônes, dispensaires); œuvres d’éducation (écoles d’enfants, écoles du soir pour les adultes, ateliers pour les adolescents); ministère paroissial (pour les convertis et ceux qui veulent s’instruire dans la religion chrétienne».
Il décrit là ce que réalisent, au Sahara, des religieux vivant en communauté, essentiellement des membres de la congrégation «Missionnaires d’Afrique», dits «Pères Blancs», fondés en 1868 par le cardinal Lavigerie qui avait été nommé archevêque d’Alger en 1867. Mais aussitôt Foucauld se démarque d’eux et de leur mode de fonctionnement: «Je ne suis pas en état de vous décrire cette vie». Pourquoi? Parce que, dit-il, cette vie «n’est pas la mienne».
Il est bien «missionnaire» – quand il est venu en France en 1909, il est allé célébrer sa messe en l’église SaintAugustin à Paris et, à la sacristie, sur le registre, il a signé: «Charles de Foucauld. Préfecture apostolique du Sahara. Missionnaire» – mais il n’est pas missionnaire comme ceux qu’il vient de décrire – ces Pères Blancs qui vivent en petites communautés de deux ou trois et font œuvre, principalement, de visite, de bienfaisance, d’éducation; il ne vit pas en une communauté ou une fraternité.
Il se définit «missionnaire isolé» ce qui ne signifie aucunement un missionnaire ermite; peut-être René Bazin s’est-il fourvoyé en se référant à ce mot «isolé» pour donner, comme titre à sa biographie de Foucauld, «Ermite au Sahara». Il est évident que Foucauld n’a jamais été «ermite» au Sahara: il a parcouru celui-ci du nord au sud, il a sans cesse rencontré ses différents habitants, il s’est préoccupé de près, scientifiquement, de l’avenir de ce Sahara et de ces habitants; et Rome a refusé, avec raison, dans la cause de postulation de sa béatification, d’inscrire Foucauld comme «ermite», soulignant ses nombreux voyages et aussi son immense correspondance très diversifiée: était-ce là statut d’ermite?
En donnant ce titre à sa biographie qui a connu un immense succès, Bazin a beaucoup contribué à faire naître, à propos de Foucauld, une légende, dommageable comme toute légende. Son isolement, Foucauld le définit non pas géographiquement (lui qui est géographe) mais sociologiquement et spirituellement: il se trouve au milieu de «populations très disséminées» et celles-ci, ce qui rend sa «solitude», dit-il, plus évidente encore, ne lui sont pas proches: elles lui sont «très éloignées d’esprit et de cœur», ce sont des populations qui ignorent ce Jésus qu’il aime.
Autre composante de sa solitude: il ne peut que constater qu’il y a fort peu de missionnaires de ce genre «Les missionnaires isolés comme moi sont fort rares»; il ne peut donc guère se référer à d’autres autour de lui qui auraient une même expérience.
R. Voillaume, découvrant cette lettre à la fin de sa vie, reconnaitra que cette situation apparente Foucauld aux missionnaires de la Compagnie de Jésus ou des Missions Etrangères partis seuls en Asie au XVIIe siècle; ainsi le savant jésuite italien Matteo Ricci qui partit seul en Chine où il devint astronome de l’empereur, rejoignant les Chinois dans leur culture comme Foucauld pour les Touaregs.
À la question de Bazin «Quelle est la vie de missionnaire parmi les populations musulmanes», il ne peut donc répondre par un tableau d’ensemble de l’action d’une série de «missionnaires isolés» comme lui, puisque ceux-ci n’existent pas sauf lui; il ne peut que donner son témoignage personnel, exposer à Bazin quelle est sa vie et le sens de son travail de «missionnaire isolé». «L’affection, la sagesse et la justice» René Bazin qui souhaitait sans doute recevoir le récit d’œuvres d’un ensemble de missionnaires, d’œuvres éducatives et caritatives pour convertir les musulmans, est ici pris à contre-pied.
Foucauld, en fin de compte, et beaucoup plus profondément, lui indique ce qui lui parait être la condition primordiale d’une tâche missionnaire; et ceci, non seulement auprès des musulmans mais bien au-delà: Foucauld élargit radicalement le champ d’action des «missionnaires isolés».
Il faut lire en entier ce paragraphe où Foucauld donne les principes universels de la méthode missionnaire qu’il propose: «Il faut nous faire accepter des musulmans, devenir pour eux l’ami sûr, à qui on va quand on est dans le doute ou la peine; sur l’affection, la sagesse et la justice duquel on compte absolument. Ce n’est que quand on est arrivé là qu’on peut arriver à faire du bien à leurs âmes. Inspirer une confiance absolue en notre véracité, en la droiture de notre caractère et en notre instruction supérieure, donner une idée de notre religion par notre bonté et nos vertus, être en relations affectueuses avec autant d’âmes qu’on peut, musulmanes ou chrétiennes, indigènes ou françaises, c’est notre premier devoir; ce n’est qu’après l’avoir rempli, assez longtemps, qu’on peut faire du bien».
Il s’agit, que ce soit avec des musulmans ou avec des chrétiens, des Algériens ou des Français, de «se faire accepter», «premier devoir», principe fondamental. C’est là un préalable obligé, auquel il faut d’ailleurs, c’est essentiel, consacrer un temps considérable. Ce premier principe, Foucauld en précise les modalités. Comment se faire accepter par autrui, quel qu’il soit? L’autrui doit pouvoir compter «absolument» – on remarquera cette radicalité – sur «l’affection, la sagesse et la justice» dont nous témoignerons envers lui et qui feront qu’il nous considérera comme «l’ami sûr».
Et Foucauld redit autrement ces trois qualités absolument nécessaires: la «bonté», l’«instruction», la «droiture». Là est le commencement de l’évangélisation. Et non pas dans les prédications et les exposés dogmatiques; lorsque le jeune islamologue Louis Massignon avait songé à venir passer quelques mois auprès de lui en 1912 à Tamanrasset, Foucauld avait précisé au nouveau converti tout feu tout flamme qu’il ne s’agirait aucunement de venir prêcher, convertir d’emblée et catéchiser les Touaregs: «Vous ferez connaissance avec la population, vous ne lui parlerez pas dogme mais vous vous ferez aimer d’elle, et vous vous ferez des amis de tous».
«Donner une idée de notre religion par notre bonté», écrit-il dans sa lettre du 29 juillet 1916; c’est cette façon d’être missionnaire que vit Foucauld lui-même au Sahara et il le dit simplement à Bazin: «Ma vie consiste à être le plus possible en relation». Il insiste sur ceci que dans cette «relation», il veut être du plus grand respect possible, « donnant à chacun selon ses forces et avançant lentement, prudemment.»
On notera les deux derniers termes, l’invitation à mettre de son côté le temps et la mesure. Tout le contraire de méthodes missionnaires faisant fi de tout préambule, se donnant pour but d’aussitôt convaincre et vaincre. Au cœur de son acte missionnaire, on trouve ce respect du temps à user autant qu’il le faudra, des «siècles» peut-être, et le temps du respect absolu envers le cheminement de l’autre; avec comme mode primordial, la bonté; Foucauld a mis en pratique les ultimes conseils que lui a donnés l’abbé Huvelin en 1909 en leur dernière entrevue, conseils qu’il avait consignés dans son carnet: «Mon apostolat doit être l’apostolat de la bonté. En me voyant, on doit se dire: «Puisque cet homme est si bon, sa religion doit être bonne» Si l’on me demande pourquoi je suis doux et bon, je dois dire: «Parce que je suis le serviteur d’un bien plus bon que moi. Si vous saviez combien est bon mon Maître JESUS.»»
Des baptisés, «défricheurs évangéliques» On voit combien cette première partie de la lettre du 29 juillet 1916 est décisive; et que la deuxième partie sur la «francisation» qui est primordiale pour Bazin, est seconde chez Foucauld. Nul doute que Foucauld qui, sur le plan de l’évangélisation, agit à l’encontre de certaines méthodes missionnaires rapides que Bazin n’eût pas dédaignées, se propose d’y aller plus que précautionneusement, mu, ici, par une volonté de plus grande lenteur peut-être, et de prudence par rapport à celles prises pour une «francisation» tellement désirée par Bazin. Ce dernier aura sans doute été déçu par la réponse, là-dessus, de Foucauld.
Pour décrire sa manière de faire en évangélisation, Foucauld insiste sur le préalable d’une «confiance absolue» que l’on doit inspirer à l’autre; celle-ci demande un long travail totalement désintéressé; c’est le don à l’autre de l’amitié pour l’amitié, sans arrière pensée, sans volonté de conversion: c’est l’autre qui, avec Dieu, fera le pas, de toute sa liberté, et il ne s’agit pas de le forcer ou de l’y conduire plus ou moins insidieusement.
Foucauld, qui n’a converti personne durant toutes ses années sahariennes, a vécu personnellement cette situation qu’il propose; il croit en ce don à l’autre de l’amitié, un don sans contre-don, ouvert à l’avenir en toute liberté de l’autre.
Il a aussi perçu profondément que cette tâche pouvait d’autant mieux s’accomplir quand le missionnaire était seul, isolé, perdu au milieu d’une population, laquelle, dès lors, ne se trouvant pas en face d’un groupe, forcément représentatif d’une certaine puissance, mais en face d’un être seul, désarmé.
C’est ce type de missionnaire qu’il souhaite pour la rencontre des âmes éloignées de Jésus, «les frères de Jésus qui L’ignorent», comme il les définit. Mais il constate que ces «missionnaires isolés» sont «fort rares»; et il le répète: «Il y a fort peu de missionnaires isolés faisant cet office de défricheur: je voudrais qu’il y en eût beaucoup». «Défricher», cela fait longtemps, plus de dix ans qu’il emploie ce mot: depuis qu’il est au Sahara; pour lui, c’est le premier temps, ce travail ingrat de «défrichement évangélique», un travail absolument nécessaire, et pourtant si négligé, dans le cheminement de l’évangélisation: avant de moissonner, il faut semer; et avant de semer, il faut défricher, préparer le terrain par des relations vraies, par la mise en œuvre d’une «confiance absolue».
Il insiste sur sa «présence» au cœur des populations, «présence» qui les «familiarise» avec lui, écrit-il à son beau-frère, Raymond de Blic le 9 décembre 1907, ajoutant avec modestie que cette manière d’être ne portera des fruits que plus tard, bien plus tard: «Ceux qui me suivront trouveront des esprits moins défiants et mieux disposés. C’est bien peu; c’est tout ce qu’on peut faire présentement».
Et on remarquera son esprit et sa vertu de prudence: «Vouloir faire plus compromettrait tout pour l’avenir». Mais qui serait à même d’être missionnaire de ce type? Pour Foucauld, ce ne serait pas du tout une élite, des religieux aguerris à la manière des Trappistes par exemple; jadis il avait imaginé de fonder un ordre religieux de ce genre, extrêmement rude et exigeant pour ses membres; aujourd’hui il pense, à l’inverse, que tout baptisé peut vivre, là où il est, cette vocation de «missionnaire isolé»; citons-le: «Tout curé d’Algérie, de Tunisie ou du Maroc, tout aumônier militaire, tout pieux catholique laïc (à l’exemple de Priscille et d’Aquila) pourrait l’être».
Il fait ici allusion au couple que l’apôtre Paul s’était choisi comme collaborateurs; comme il voudrait que les curés d’Afrique du Nord, eux-mêmes «défricheurs», ouverts «aux frères de Jésus qui L’ignorent» forment leurs «paroissiens et paroissiennes à être des Priscille et des Aquila»! Cette annonce première de l’Evangile qu’est l’amitié dans la confiance, Foucauld fait remarquer à Bazin qu’elle est d’ailleurs parfaitement adaptée à la situation telle qu’elle a été établie par la politique de la France:
«Le gouvernement interdit au clergé séculier [d’Afrique du Nord] de faire de la propagande anti-musulmane»; qu’à cela ne tienne! dit Foucauld; ce qu’interdit le gouvernement, c’est la « propagande ouverte et plus ou moins bruyante»; mais il s’agit ici, dans cette annonce première, de quelque chose de ténu et discret, respectueux de l’autre, le contraire de vouloir convaincre par une prédication spectaculaire et tonitruante. Qui peut empêcher des liens d’amitié?: «Les relations amicales avec beaucoup d’indigènes, tendant à amener lentement, doucement, silencieusement les musulmans à se rapprocher des chrétiens devenus leurs amis, ne peuvent être interdites par personne».
Il parle de «propagande tendre et discrète à faire auprès des indigènes infidèles, propagande qui veut avant tout de la bonté, de l’amour et de la prudence». Les mots peuvent tromper. On a vu qu’«indigène» n’était pas, à l’époque où Foucauld l’employait, un terme péjoratif mais signifiait simplement les gens qui sont natifs d’une région, d’un pays, qui l’habitent. «Propagande» signifie, en 1916, non pas une action psychologique destinée à manipuler plus ou moins autrui, mais l’action de faire connaître à l’autre sa pensée, son opinion. Les qualificatifs dont Foucauld entoure ce terme montrent d’ailleurs son souci, justement, d’éviter toute coercition sur autrui dans l’annonce de l’Evangile.
Et très discrètement, Foucauld se réfère à sa propre histoire; s’il s’est converti, en 1886, c’est grâce à ce qu’il a appelé «la bonté silencieuse» de Marie de Bondy, sa cousine; décrivant la manière de faire «tendre et discrète» qu’il préconise, il ajoute «comme quand nous voulons ramener à Dieu un parent qui a perdu la foi».
Face au jeune Foucauld incroyant, Marie de Bondy s’est d’abord tue; et elle lui a manifesté, sans le juger, sa bonté, à travers «affection, sagesse, justice».
Une confrérie
Il ne faut pas oublier que Foucauld, en 1907, un peu moins de dix ans auparavant, avait écrit à Huvelin en lui disant son souhait: qu’un écrivain célèbre fasse un livre sur la situation exacte de l’Afrique du Nord, et l’œuvre «d’une façon émouvante qui remue ceux qui ont bonne volonté, bon cœur, mette en lumière ce que nous devons faire» pour les populations d’Afrique du Nord; et qu’il aurait aimé que ce fût Bazin.
Avec l’arrière-pensée très claire, qu’un tel livre amène des vocations de laïcs, de «Priscille et Aquila» dans cette région, en « missionnaires isolés ». À son jeune ami Louis Massignon, qui fait partie de son UNION, sa «confrérie» naissante, Foucauld a écrit le 11 avril 1916: «Consacrez-vous, dans l’état de mariage où Dieu vous veut, à la christianisation de nos colonies infidèles: vous ne pouvez faire un meilleur emploi de votre vie; il semble qu’en nous rapprochant, c’est ce que Dieu a voulu. Il est un homme que je n’ai jamais vu mais dont les écrits sont en grande harmonie avec mes pensées: M. René Bazin. Je lui ai écrit récemment, lui demandant de nous aider dans l’œuvre de christianisation de nos sujets infidèles[9].»
Cette première lettre de Foucauld à Bazin a été perdue; la lettre du 29 juillet réitère la même demande, le même souhait, obstinés: «Espérons qu’après la victoire, nos colonies prennent un nouvel essor», écrit-il à Bazin. Et il compte, pour cette « belle mission », sur des «cadets de France» qui aillent «dans les territoires africains», «non pour s’y enrichir mais pour y faire aimer la France».
Ce dernier paragraphe de la première partie de sa lettre fait ainsi la transition avec sa réponse sur la «francisation»: celle-ci n’est pas une conquête externe, elle consiste à faire aimer la France, à faire en sorte que les Français soient reconnus, en Afrique, par ses habitants, comme des «amis sûrs».
Et Foucauld, pour cette tâche, compte sur les nouvelles générations, différentes de leurs aînés qui ont colonisé trop souvent pour leur intérêt personnel; on notera aussi qu’il se réfère, en ancien officier aristocrate qu’il a été, aux jeunes nobles qui, jadis, n’étant pas des aînés, devenaient soldats, «Cadets de Gascogne» ou «Cadets de Bretagne» [10] par exemple. Ces «cadets», en même temps qu’ils créeront une nouvelle façon d’être en Afrique en y établissant le «progrès» dans sa triple composante, pourront – et c’est sur ces derniers noms que se termine la première partie de la lettre du 29 juillet – s’y trouver aussi «comme des Priscille et Aquila», l’un n’empêche pas l’autre.
Ce désir que des baptisés de tout genre, prêtres ou laïcs, religieux, mariés ou célibataires, s’insèrent en «missionnaires isolés» au cœur des populations autochtones, «devenant du pays», menant des vies ordinaires et des métiers de tous les jours hante Foucauld depuis longtemps; c’est en ce sens qu’il a eu l’intuition de sa «petite confrérie», l’UNION, qu’il fonde en 1909 pour susciter de telles vocations de «missionnaires isolés», baptisés de toutes sortes se consacrant, là où ils sont, à ceux qui ne connaissent pas
Celui qui est au cœur de sa vie et apportant en même temps le progrès à ceux qui sont démunis, relégués aux frontières de l’humanité. Il croit tellement à l’appel à ces êtres de bonne volonté qu’en 1916, il a le ferme projet de revenir longuement en France après la fin de la guerre, «le temps qu’il faudra», dit-il, pour établir cette confrérie et qu’il regarde «les longs mois pendant lesquels la guerre me retient au Sahara», écrit-il deux mois jour pour jour avant sa mort, «comme un temps de préparation» à cette tâche essentielle qu’il s’assigne désormais[11].
Nul doute qu’après l’armistice du 11 novembre 1918, on l’aurait vu en France mettre en œuvre son projet et sans doute venir dialoguer avec René Bazin.
Liberté, égalité, fraternité
Dans une chronique intitulée L’identité française? Une fille de la République… et de Jésus! (Figaro, 5 novembre 2009), Luc Ferry énonce que «la spécificité française réside dans une façon tout à fait singulière d’avoir, au fil de l’histoire, lié l’héritage judéo-chrétien avec les idées républicaines […]. Contre la morale aristocratique, le monde chrétien va imposer l’idée que ce qui compte, par delà les inégalités naturelles que nul ne songe à nier, ce n’est pas l’héritage, mais ce que vous allez en faire, pas la nature mais l’histoire et la liberté. Leçon que tout hussard de la République gardera en mémoire, fût-il radicalsocialiste et anticlérical à souhait!». Il ajoute: «D’un point de vue républicain, comme d’un point de vue chrétien, le petit trisomique possède désormais la même dignité morale qu’un Newton».
Foucauld est républicain et chrétien. Il distingue exactement, en républicain, la sphère publique et la sphère privée; il prône l’égalité de tous devant la loi; et ce modèle républicain est, pour lui, non seulement profondément compatible mais consonnant avec l’exercice de la foi chrétienne; mieux, il lui est comme connaturel. Il ne supporte pas les républicains infidèles aux convictions qu’ils affichent, qui agissent au mépris des droits de l’homme et du bien commun; il a envers leurs actes, dira Laperrine, «des sursauts d’indignation»; il aime certains officiers républicains qui accomplissent une tâche digne des droits de l’homme et n’aime pas certains qui se conduisent littéralement comme des barbares (il dit des «flibustiers»). Foucauld est chrétien. Il aime son prochain, il aime, oui, les musulmans, Moussa par exemple quand il sert l’intérêt général, veut faire le bien de son peuple et construire de la paix; il n’aime pas d’autres musulmans qui se comportent en maîtres d’esclaves et en exploiteurs de pauvres.
Jeune converti, il est dur envers l’Islam, d’autant plus peut-être qu’il en a vécu la séduction; pour lui, l’Islam n’est pas la vraie religion; seule l’est le christianisme, mais il pense que Dieu sauve; il distingue, parmi les croyants de l’Islam, «les âmes de bonne volonté» et «les âmes de mauvaise volonté» (n° 5 et 6 de ses Notes à Mgr Guérin écrites en 1902).
Quant à l’évangélisation, on a vu quelle méthode de respect radical il préconisait; en fin de compte, pour lui, c’est par la sainteté qu’on convertira les musulmans d’Afrique: par elle s’opèrent toutes les conversions: «par la sainteté et la CROIX: par l’amour et la CROIX» (Note, n° 13). Il conclut: «La seule Sainteté!» (Note, n° 17).
Et avec cette précision importante: «La sainteté ne les convertira pas nécessairement: bien des oreilles se sont fermées à la voix de s. François d’Assise, de s. Paul, de JESUS, mais certainement, pour les convertir, la première condition est la Sainteté». Seule la sainteté, c’est-à-dire, indissolublement, la relation aimante à Dieu et à tout être humain, indissolublement, peut toucher les cœurs, aujourd’hui ou demain, dès maintenant ou des «siècles» plus tard: telle est la pensée fondamentale de Charles de Foucauld.
Pour ce qui est de la relation à autrui, Foucauld, en 1916, se trouve en liens étroits avec toutes sortes de mondes: des Chrétiens et des Musulmans, des Kabyles et des Arabes, des soldats et des officiers, des scientifiques sahariens et, jour par jour, ses chers Touaregs, les uns nomades, les autres sédentaires. Selon ses convictions profondes, il entre en amitié avec chacun de ceux qu’il rencontre; il veut être en «fraternité» avec chacun et, effectivement, on constate qu’il s’inscrit en plusieurs «fraternités»: la fraternité entre croyants, celle entre républicains, une autre avec ceux avec qui il vit la culture touarègue, la fraternité avec son supérieur ecclésiastique et les religieux de la «préfecture apostolique» du Sahara.
Il n’est en rien idéologue ou raciste, il n’est pas un idéaliste: chaque être rencontré est à reconnaître pour lui-même et non en vertu de son appartenance ethnique, politique ou religieuse. Il est intéressant de citer, à propos de «fraternité(s)», ce passage d’une lettre à sa sœur où il lui raconte, sept mois avant sa mort, la visite de deux jours qu’il a faite à la garnison de Fort-Motylinski, à cinquante kilomètres de Tamanrasset: «Je n’y étais pas allé depuis janvier 1913; j’y ai été reçu on ne peut plus fraternellement par les six Français et les trente Arabes de la garnison (la plupart vieux soldats connus de moi depuis longtemps). Outre la fraternité chrétienne et la fraternité entre fils du Père commun qui est aux cieux, la fraternité française est très chaude en ce coin reculé de la patrie, et elle existe non seulement entre les Français mais aussi entre eux et les soldats indigènes de la France.»
On y retrouve, mentionnées la fraternité entre chrétiens, entre croyants en un seul Dieu (chrétiens et musulmans), la fraternité républicaine, celles des Français entre eux, celle des Français et des soldats indigènes. «Fraternité»: c’est bien le maître-mot de cette lettre de juillet 1916.
Il y croit au point d’être plus qu’optimiste: même si ce n’est qu’«exceptionnellement» (car il y a, tellement présent, le dogme du «mehdi», de l’élimination radicale de celui qui n’est pas comme vous), il pense que les musulmans peuvent devenir «vraiment français», c’est-à-dire peuvent acquérir «la mentalité française**», c’est-à-dire encore, peuvent participer à l’idéal républicain, cet idéal qu’il rappelait rudement, on l’a vu, aux autorités françaises en 1902 à propos de l’esclavage qu’elles toléraient au Sahara.
Des musulmans entrant ainsi en «mentalité» républicaine pourraient, par le fait même, a-t-il pensé, mieux s’ouvrir à Jésus et à son Evangile de la fraternité. «Fraternité», pour lui, signifie que chacun vit pleinement son identité et reconnaît en même temps un principe supérieur tiers qui le réunit en frère à des hommes qui sont différents de lui par leurs mœurs ou leur langue, leur religion ou leur agnosticisme. Fraternité signifie, pour lui, que tous, chrétiens ou républicains, ont à travailler au «vivre ensemble» avec autrui et à faire avancer sur cette terre commune ce «vivre ensemble» impératif pour tous.
Que Foucauld, à partir d’un texte tronqué, isolé de son contexte, puisse aujourd’hui être instrumentalisé au point qu’on lui fasse dire le contraire de sa pensée, qu’on l’identifie ainsi indûment à une sorte de disciple de M. Le Pen, et que des chrétiens se laissent accroire par cette imposture est véritablement attristant.
Jean-François SIX
Note al testo
[1] Auteur de Père de Foucauld. Abbé Huvelin. Correspondance inédite , Vie de Charles de Foucauld, Le grand rêve de Charles de Foucauld et Louis Massignon, 20 ans de correspondance entre Charles de Foucauld et son directeur spirituel (1890-1910), Charles de Foucauld autrement, DDB, 2008.
[2] Dans son livre, R. Bazin cite en se trompant de date, d’ailleurs, cette lettre que lui a adressée Foucauld; et malheureusement il ne la cite pas en entier, (pages 442-444) et il supprime aussi certaines phrases dans ce qu’il cite.
[3] Cette lettre a été publiée dans le journal Le Monde lors de la première édition de la correspondance Foucauld-Huvelin, en novembre 1957. Publication qui arrivait à un moment crucial de la guerre d’Algérie, et qui mettait à mal l’image d’un Foucauld colonialiste véhiculée par certains; elle eut un grand retentissement. (Cf J.-F. Six, Le Grand Rêve de Charles de Foucauld et de Louis Massignon, Paris, Albin Michel, 2008, pp. 267-268).
[4] Cf Pierre Darmon, Un siècle de passions algériennes. Une histoire de l’Algérie coloniale (1830-1940), Paris, Fayard, 2009.
[5] Cf J.-F. Six, Charles de Foucauld autrement, Paris, Desclée de Brouwer, 2008, pp. 432 sv.
[6] Voir J.-F. Six, Vie de Charles de Foucauld, Paris, Seuil, 1962, pp. 94 sv.
[7] Ch. de Foucauld ne connaissait pas une autre acception du Mehdi (ou Mahdi) tel que le père Jean Mohammed Abd-el-Jalil en parle, dans une lettre à Louis Massignon du 22 mars 1956; il s’agit «du «Mahdi Fâtimi», c’est-à-dire du Messie «bien guidé», descendant de Fâtima selon la croyance des chiites. Un Mehdi qui, à la fin des temps, collaborera avec Jésus: «le Mahdi doit venir avec le Retour de Jésus: pour l’aider», écrit Abd-el-Jalil (Correspondance Massignon-Abd-el-Jalil, Paris, Cerf, 2007, p. 257). Les musulmans d’Afrique du Nord ne connaissaient que le Mehdi sunnite, vengeur.
[8] La lettre a été publiée in extenso, mais avec des soulignements en gras qui ne sont pas de Foucauld, sur le site de la Fondation de service politique à l’occasion de la béatification du père de Foucauld (13 novembre 2005) dont on s’est ainsi manifestement servi.
[9] Jean-François Six, L’aventure de l’amour de Dieu, 80 lettres inédites de Charles de Foucauld à Louis Massignon, Paris, Seuil, 1993, p. 201-202.
[10] A Londres, en 1940, le général de Gaulle créera une école, «Les Cadets de la France Libre», destinée aux étudiants passés en Angleterre.
[11] Voir J-F Six, Le Grand Rêve …